Repubblica 18.9.27
Assad e i suoi alleati mettono alle corde l’Isis E Israele si avvicina all’Arabia Saudita contro gli ayatollah
Il nuovo Medio Oriente
Dall’Iran alloYemen la crisi siriana ridisegna i fragili equilibri di una regione chiave
di Alberto Stabile
DUE
notizie sono emerse con forza negli ultimi giorni dal bollettino di
guerra mediorientale: una è la (presunta) visita segreta in Israele dell
erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, con annesso incontro con
il premier Benjamin Netanyahu; l’altra è la (quasi) liberazione di Deir
az Zour, la capitale della Siria Orientale, strappata ai miliziani
dell’Isis delle Forze Armate Siriane dopo tre anni di assedio. Le due
notizie sono evidentemente correlate.
La riconquista di Deir az
Zour, l’ex avamposto sulle rotte verso l’Asia fondato alla metà
dell’Ottocento dall’Impero Ottomano e diventato, oggi, il presidio della
regione petrolifera siriana, rappresenta per il regime di Bashar el
Assad un’ importante vittoria sui suoi nemici interni ed esteri. Con
Deir az Zour, Assad torna ad estendere il suo controllo sulla parte più
ricca e popolosa del Paese, la Siria delle grandi città,
industrializzata ed economicamente evoluta. Per completare l’impresa
manca soltanto Idlib, trasformata nell’ultima trincea delle formazioni
ribelli in rotta.
Ma la capitale della Siria Orientale non è
strategicamente importante soltanto per la sua prossimità ai campi di
petrolio e di gas. Deir az Zour è l’avamposto del regime a guardia della
frontiera con l’Iraq e di quella via naturale di comunicazione e di
traffici (nonché essa stesso linea di confine con la Turchia)
rappresentata dall’Eufrate. Infine, la guerra ha reso Deir az Zour
fondamentale per un altro motivo: l’asse che collega Teheran a Damasco,
via Bagdad passa da qui.
Di contro la riconquista di Dei az Zour
segna una pesante sconfitta per lo Stato Islamico e per l’insieme delle
forze jihadiste ribelli. Ma lungi dal ricompattare le parti che si sono
dichiarate in guerra contro il terrorismo jihadista, la crisi siriana
continua a dividere. Il ruolo assunto dalla Russia, di puntello del
regime di Damasco e di pilastro dell’alleanza militare
Siria-Hezbollah-Iran, risulta agli Stati Uniti difficile da digerire,
almeno sul campo di battaglia, dove, secondo le più recenti direttive di
Trump, i generali americani hanno l’ultima parola.
E così Deir az
Zour non può dirsi pienamente liberata perché l’esercito siriano e le
milizie alleate (Hezbollah, guardiani della Rivoluzione iraniani e
analoghe formazioni sciite irachene) subiscono la pressione delle Sdf
(Syrian Democratic Forces), l’alleanza militare creata da Washington e
appoggiata dalle truppe speciali americane, formata dai curdi delle
Unità di autodifesa popolare, Ypg, che hanno maturato una notevole
esperienza di combattimento contro gli jihadisti dai tempi di Kobane, e
gruppi di cosiddetti ribelli “moderati” appartenenti al redivivo Fsa
(Free Syrian Army) o Libero Esercito Siriano, composto da disertori
dell’Esercito di Damasco scrutinati dalla Cia. Ieri l’ultimo incidente
alle porte di Deir Az Zour, con le Sdf che accusano i Russi di avere
bombardato le loro linee, causando sei feriti.
Detto questo, gli
Stati Uniti non sembrano disposti a mettere in campo una strategia che
preveda un loro più ampio coinvolgimento in Siria. Trump sembra averne
abbastanza della crisi attuale con la Corea del Nord.
Parallelamente
anche altri giocatori esterni, come la Francia e l’Inghilterra, dopo
aver alimentato l’incendio siriano sembrano adesso pronte soltanto ad
influenzare a proprio vantaggio gli effetti di un’ipotetica pace.
Stando
così le cose, a far rullare i tamburi di guerra a scopo non soltanto
dimostrativo, contro il ruolo preminente assunto dall’Iran nella crisi
siriana restano Israele e Arabia Saudita, formalmente nemici dal 1948,
ma legati, a suo tempo, dall’avversione contro la strategia dell’ex
presidente Usa Barack Obama sul Medio Oriente, considerato troppo
attendista e irresponsabile, specialmente nel favorire il negoziato con
Teheran sul nucleare, invece che bombardare gli impianti.
L’incontro,
ancorché non provato, ma celebratissimo dai giornali israeliani, può
esserci stato. Le acque del Maro Rosso, tra Aqaba e Eilat, potrebbero
aver fornito la cornice dello storico meeting, la cui vera utilità, se
mai ha avuto luogo, è consistita nel fatto di essere avvenuto.
Per
l’ambizioso principe saudita, in procinto di ricevere lo scettro dalle
mani malferme del padre, re Salman, un altro anello da aggiungere alla
catena di passi falsi compiuti in politica estera, come l’aver
finanziato la rivolta contro Assad nella speranza di vederlo cadere,
l’aver scatenato la guerra contro le tribù Houthi dello Yemen, guerra
che ha provocato 15mila morti e la più grave epidemia di colera che si
sia vista da anni in quelle zone, e l’aver deciso, d’accordo con Egitto,
Bahrain e Emirati Arabi il boicottaggio internazionale imposto al
vicino Qatar, accusato di appoggiare il terrorismo, il che detto dal
governante di un paese che ha dato i natali a 18 su 21 attentatori dell’
“11 Settembre”, oltre a una serie di complicità a vari livelli, è tutto
dire. Ma in entrambi i casi, Yemen e Qatar, il vero obbiettivo del
giovane principe era ed è l’Iran. Adesso la diplomazia segreta con
Netanyahu cui lo unisce la stessa avversione verso Teheran, avversione
accentuata dall’esito dall’andamento della guerra in Siria.
Pochi
hanno notato che all’indomani del presunto incontro, gli aerei
israeliani sono andati a bombardare un centro di ricerche militari
siriano vicino alla città di Hama.