venerdì 15 settembre 2017

Repubblica 15.9.17
Rohingya L’intervista
“La Nobel San Suu Kyi non ha il controllo del governo birmano”
di Raffaella Scuderi

“Il suo obiettivo è una transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia. Per questo ha bisogno di mantenere buone relazioni con la giunta militare. Ma tutto ha un limite” Parla il professor Matthew Walton, docente a Oxford ed esperto del Myanmar
“Finora Aung San Suu Kyi ha scelto di sacrificare i diritti umani dei rohingya a favore di una facile transizione dal regime militare a uno Stato democratico. La sua è una strategia cinica”. Il professor Matthew Walton non fa giri di parole nel definire la posizione del premio Nobel per la pace discutibile e ai limiti dell’accettabile. Docente di studi all’università di Oxford sul Myanmar contemporaneo e sulla storia del buddismo birmano, Walton esprime comunque qualche riserva rispetto all’attuale crisi sul dramma dei Rohingya.
Professor Walton, cosa sta succedendo a una delle protagoniste più rappresentative della difesa dei diritti umani?
“ Per Suu Kyi, come d’altra parte per la maggior parte della popolazione birmana, la vicenda dei rohingya non è fondamentale, non è in cima alle priorità. E non la reputano né una questione umanitaria, né una difesa dei diritti umani. Per i birmani e per i loro governanti, la sicurezza del Paese è al primo posto. Così come la sovranità del Myanmar. Secondo loro i rohingya non sono birmani e quindi non è una questione che li riguarda”.
Ma qui c’è un’evidente emergenza umanitaria. Le Nazioni
Unite parla di pulizia etnica. Come può San Suu Kyi essere indifferente a un tale abuso?
“Lei ha zero controllo sul governo. Il suo obiettivo è una transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia. Per questo ha bisogno di mantenere delle buone relazioni con la giunta militare. Ma riconosco che tutto ha un limite. Se dovesse riuscire nel suo intento, cosa su cui non scommetterei, potremmo definirla una democrazia di successo? Sulle spalle dei rohingya? No sicuramente”.
Nel suo unico intervento dall’inizio della crisi, San Suu Kyi ha denunciato disinformazione su quello che sta succedendo. Cosa vuol dire?
“Sia lei che tutta la popolazione birmana vede che tutto il mondo è contro di loro e solo a favore dei rohingya, Una percezione che rinforza il pensiero che la stampa sia di parte. Questo non aiuta a mediare i conflitti all’interno del Myanmar. D’altra parte è vero che la decisione di ostacolare l’accesso di aiuti e osservatori internazionali non aiuta affatto”.
Perché questa persecuzione nei confronti dei rohingya? Nessuno li vuole. Anche l’India li vuole cacciare.
“Quello che sta accadendo è tragico e noi non possiamo, come comunità internazionale, tollerarlo. I rohingya sono una minoranza stretta tra due Paesi poveri e autoritari. La loro cultura non ha nulla a che fare con nessuno dei due e la richiesta di legittimazione di un territorio di appartenenza è arbitraria. Non ci sono prove evidenti che i rohingya di adesso siano gli stessi discendenti di quei musulmani che vissero in questa area secoli e secoli fa. La mancanza di prove certe dà ai birmani più forza e diritto nella decisione di rifiutare le loro richieste”.
Che ne è stato della rivoluzione zafferano dei monaci buddisti birmani contro la dittatura militare?
“Il movimento della rivoluzione zafferano non si può definire democratico. Ne facevano parte tantissimi monaci, con diversi obiettivi. C’era chi voleva una democrazia morale rispettosa dei diritti umani, e chi invece reclamava una sorta di dittatura morale spirituale. Una cosa è certa: non tutti avevano la stessa idea di chi appartenesse o no allo Stato del Myanmar”.
C’è una soluzione secondo lei?
“ Io sono sempre stato molto deluso dalle azioni di Aung San Suu Kyi come politica, sia quando era all’opposizione sia adesso che è al potere. Però io penso che la rabbia che si sta scatenando su questo Paese da tutto il mondo non aiuta il Paese a trovare una soluzione pacifica. Anzi, li stiamo spingendo a chiudersi sempre di più”.