venerdì 15 settembre 2017

Repubblica 15.9.17
Rohingya
La fuga di Fatma “Ho visto l’esercito bruciare il villaggio”
di Laura Höflinger

Gli elicotteri, i soldati con i fucili, i vicini di casa che gridavano “Allah è grande”, la fossa comune, il fuoco. Poi la fuga attraverso i boschi, insieme ai suoi cinque figli. Il racconto di Fatma, trent’anni, arrivata qui in Bangladesh come altre centinaia di migliaia di rohingya in fuga dalle persercuzione in Myanmar. Ora è in un campo a Cox’s Bazar, a bere acqua putrida e senza prospettive. “Ma non torneremo mai, lì ci sparano addosso”
COX’S BAZAR ( BANGLADESH)
Seduta su un sacco di riso vuoto, Fatma Katu, una donna che non ha mai avuto molto, riordina ciò che le è rimasto: una testa d’aglio, un barattolo di sale, una pentola di riso. Poi avvolge i suoi beni in un sacchetto di plastica con grande delicatezza, quasi stesse riponendo dei diamanti. È arrivata qui da due giorni con il marito e i cinque figli e d’allora non si è mossa da questa collinetta fangosa a sud della città Cox’s Bazar in Bangladesh.
Quando è stanca, Fatma Katu si sdraia all’aperto mentre i figli dormono ben stretti uno all’altro sotto un tendalino. Quando deve andare in bagno aspetta che sia buio. Quando ha sete, beve l’acqua puzzolente e putrefatta che estrae da un buco nella terra. È un posto orribile, ma questa donna trentenne è felice di essere qui: «Abbiamo fame, ma da noi ci sparano addosso».
La sua patria, il Myanmar, è lontana solo pochi chilometri, eppure è inaccessibile. Lì, le persone come lei da qualche tempo rischiano la vita. Solo nelle ultime due settimane sono fuggite nel Bangladesh più di 120.000 persone e quotidianamente cresce il numero dei rifugiati che ogni giorno attraversa il fiume di confine Naf su minuscole imbarcazioni. Molte si capovolgono, di continuo affiorano dall’acqua cadaveri di bambini. Altri rohingya emergono a piedi dalla foresta dove sono rimasti nascosti per sfuggire all’esercito birmano.
I rohingya, che sono musulmani e una piccola popolazione in Myanmar, sono considerati la minoranza più perseguitata al mondo. Sono discriminati da decenni e vittima di ondate di violenza dalle quali trovano rifugio nel Bangladesh o attraversando il mare, fin nella Malesia e in Australia. Nello scorso autunno almeno 70.000 persone sono fuggite in questo modo. Ora si tratta di un vero e proprio esodo.
Nella foresta, con i piedi insanguinati
La settimana scorsa, Fatma è stata svegliata dal suono di un’esplosione. Poi ha udito dei colpi di arma da fuoco. Racconta di essere corsa in strada e di aver visto i vicini che affrontavano i soldati urlando «Allah è grande», come se il loro credere in Dio potesse fermare le pallottole. Fatma indica con un dito sul petto i punti dove i proiettili hanno colpito uno degli abitanti del villaggio. Con i figli è corsa subito a nascondersi nella foresta. Prima gli elicotteri hanno sparato dall’aria, poi i soldati hanno rastrellato i sopravvissuti e li hanno costretti a scavare una fossa per i cadaveri. Infine hanno sparato anche a loro e cosparso i corpi di benzina. Da dove Fatma era nascosta ha visto l’esercito bruciare il villaggio.
Con la famiglia è rimasta lì in attesa della notte. Poi hanno seguito altri i rohingya diretti a nord, verso il Bangladesh. Hanno camminato con i piedi insanguinati e senza cibo, salvo quello che trovavano lungo il percorso, in pratica niente. All’inizio ricoprivano chi crollava con foglie, ma dopo un po’ hanno smesso per procedere più in fretta.
Il racconto di Fatma Katu è dettagliato e inesorabile. Non è possibile verificare se la sua storia sia vera, perché la Birmania non permette la presenza di osservatori indipendenti dopo Rakhine. Neanche le organizzazioni umanitarie hanno accesso alla zona in cui vivono i rohingya. Tuttavia, ogni giorno centinaia di rohingya cacciati arrivano a Cox’s Bazar e tutti riferiscono storie simili. Di morti. Di villaggi in fiamme. Di fughe disperate. Analizzando immagini satellitari, Human Rights Watch ha contato 17 villaggi rasi al suolo col fuoco. In uno erano state bruciate ben 700 case.
Il governo della Birmania nega tutto: i rohingya avrebbero dato alle fiamme le proprie case per suscitare la compassione della comunità internazionale. L’esercito starebbe combattendo dei terroristi islamici nel territorio rohingya. Negli scontri, sostiene, sarebbero rimasti uccisi finora 400 persone, di cui 370 estremisti.
Aung San Suu Kyi, capo di governo informale - nel senso che formalmente non può esercitare le proprie funzioni - finora non si è quasi pronunciata. Quando lo ha fatto, ha parlato quasi sempre di attacchi da parte di estremisti islamici e mai delle atrocità commesse dall’esercito birmano. A suo avviso, le immagini di rohingya morti sono fasulle e se qualcuna è vera si tratta di un’eccezione.
Che ci siano ribelli in Birmania che l’esercito combatte è vero, ma molti segnali portano a far pensare che così facendo i soldati sistematicamente uccidano anche dei civili. Alcuni operatori umanitari hanno riferito di prime vittime di mine antiuomo – stando alle ferite – messe probabilmente al confine dai soldati dell’esercito del Myanmar per colpire i fuggitivi – e fare in modo che non tornino. Le Nazioni Unite parlano già di un «rischio di pulizia etnica». Che vi si potesse arrivare era prevedibile.
Il padre di Fatma Katu, racconta lei, è nato in Birmania, come suo nonno e probabilmente anche i loro genitori e nonni. Tuttavia, il paese che Fatma Katu chiama suo non la vuole come cittadina. Agli occhi del governo birmano è un’immigrata clandestina. La cittadinanza le è negata, non ha documenti, non può votare né viaggiare e può lavorare solo in determinate circostanze. In ogni caso, il lavoro quasi non c’è nella poverissima Rakhine. Anche se la regione è stata abitata da musulmani già dal XV secolo, i rohingya sono ad oggi un popolo senza terra. E Fatma Katu una donna senza diritti.
Quando ancora non era una rifugiata e viveva in una modesta capanna di argilla, qualche volta passavano i soldati, e con l’accusa di aver dato rifugio a terroristi la buttavano a terra e la picchiavano. A volte gli uomini si portavano via delle ragazzine, sempre le più belle.
L’Onu ha pubblicato a febbraio un rapporto secondo il quale « è probabile » che le forze governative abbiano commesso dei crimini contro l’umanità. Si parla di tortura, di plotoni di esecuzione, di stupri, dell’omicidio mirato di bambini.
Un motivo c’è per la fuga di massa di queste settimane: i rohingya hanno cominciato a difendersi. Il 25 agosto l’organizzazione ribelle Arakan Rohingya Salvation Army ( Arsa) ha assalito alcune stazioni della polizia e dell’esercito. Attacchi simili c’erano stati un anno fa. Guidata da Ata Ullah, un leader rohingya cresciuto in Arabia Saudita, l’Arsa ha reclutato giovani uomini e li ha armati di fucili e bombe a mano. Non si sa quanti siano. In un’intervista a marzo, Ullah ha annunciato che l’Arsa continuerà a combattere finché il governo non proteggerà i rohingya «anche se prima ne dovrà morire un milione».
Alcuni rifugiati riferiscono però anche della crudeltà dei ribelli: costringerebbero uomini che vorrebbero fuggire a unirsi a loro e ucciderebbero presunti informatori. L’attacco di agosto ora è usato dall’esercito come motivazione della propria vendetta.
Non sono mancate in questi giorni le parole di condanna per le uccisioni in Myanmar. Il ministro degli Esteri britannico, il commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, il presidente turco: tutti hanno avuto parole di condanna. Ma c’è una voce che manca: dov’è Aung San Suu Kyi?
Suu Kyi è stata una sorta di eroina, un faro della resistenza pacifica, una erede di Mahatma Gandhi e Nelson Mandela, e non solo in Birmania ma in tutto il mondo. Per 15 anni è vissuta in Birmania agli arresti domiciliari e nel 1991 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. È stata soprattutto lei a guidare la Birmania alle prime elezioni libere due anni fa dopo quasi tre decenni e ad avere fatto sperare a molti in un passaggio pacifico dalla brutale dittatura militare alla democrazia.
I militari, tuttavia, hanno ancora una grande influenza sulla politica. È possibile che Suu Kyi non si pronunci a favore dei rohingya per non adirare i potenti nazionalisti buddhisti birmani e perché teme per la fragile democrazia. Comunque sia, da questa donna che ha subito in prima persona la repressione dei militari ci si aspettava più empatia. Le organizzazioni per i diritti umani che a suo tempo hanno lottato per la sua libertà ora sono tra i suoi più feroci critici. È improbabile che Suu Kyi non si renda conto delle implicazioni del suo atteggiamento. Nelle interviste ha sempre precisato di occuparsi di politica e di non essere un’attivista – e in Birmania le elezioni non si vincono se ci si schiera con una minoranza musulmana che non ha diritto di voto. Forse il suo silenzio si spiega così: il calcolo cinico di un politico navigato.
Quali che siano le motivazioni di Suu Kyi: in questo momento sembra che in Myanmar vengano commessi crimini contro l’umanità sotto gli occhi di un Nobel per la Pace. E sembra che lentamente si muti in realtà ciò che da tempo chiedono i nazionalisti e i monaci radicali: una Birmania senza musulmani. Negli anni settanta i musulmani erano due milioni. Oggi non superano il milione su una popolazione di 54 milioni. Sono già 400.000 i rohingya che vivono da anni come rifugiati in Bangladesh. Entro la fine di questa settimana saranno diventati ben più di mezzo milione. Dopo molta resistenza, il Bangladesh ha riaperto la frontiera con il Myanmar, ma nessuno sa come il loro nuovo paese debba occuparsi dei rifugiati o quale possa essere il loro destino o futuro qui. Il Bangladesh è povero e sovrappopolato e subisce già gli effetti del cambiamento climatico, come le vaste inondazioni di questi giorni.
Le capanne col tetto di lamiera
Dalla collina dove ora si trova, a poche centinaia di metri, Fatma Katu vede la prospettiva per la sua famiglia: il campo dove si sono stabiliti i rifugiati rohingya negli ultimi anni. Le loro capanne sono ricoperte da lamiera invece che da fogli di plastica, c’è qualche servizio igienico e le organizzazioni umanitarie consegnano cibo regolarmente. Il lavoro però non c’è, come non c’è alcuna prospettiva di sfuggire alle condizioni del campo. I rohingya sono cittadini di seconda classe anche in Bangladesh: tollerati ma indesiderati. In passato, il governo ha cercato di deportarli ma, come Fatma Katu e gli altri rifugiati sanno per esperienza, in Myanmar non li vogliono. « Non torneremo mai a casa. Lì ci uccidono».
Nei suoi sogni immagina la casa che vuole costruire qua in Bangladesh: con una stanza per ogni figlio. Sogna un futuro in cui uno di loro impari l’inglese, un altro forse il Corano. Fatma ha uno sguardo pieno di desiderio e agita il mestolo nella pentola.
Poi offre ai visitatori un po’ del suo riso. Anche se non si ha una casa e solo un piatto di riso, un barattolo di sale e una testa d’aglio, Fatma Katu ritiene che gli ospiti debbano essere accolti bene.
- (Traduzione di Guiomar Parada) © 2017 Der Spiegel