Repubblica 15.9.17
Rohingya
L’esodo di un popolo e le ragioni ( antiche) dell’odio
di Raimondo Bultrini
Quali
sono le verità, quale la storia e quali le origini dell’esodo di massa
della minoranza musulmana dei rohingya? Quale complesso intreccio di
vicende storiche e politiche v’è dietro la disperata fuga di intere
famiglie verso il vicino Bangladesh, un Paese che già di suo esplode di
profughi fuggiti da precedenti attacchi e controattacchi tra soldati del
Myanmar buddista e gruppi sempre più aggressivi di guerriglieri, che
dicono apertamente di battersi per i musulmani perseguitati nel nord
ovest dell’Unione? Per esempio: l’ultima delle tante informazioni
inverificabili - l’Esercito di salvezza dei Rohingya dell’Arakan (Arsa)
che nega ogni legame con i gruppi del terrore globale - giunge da un
fronte militare in gran parte serrato al mondo esterno. Verità o
mistificazione? Ma procediamo per tappe.
La diplomazia “impossibile”
Ogni
approccio diplomatico per salvare i civili innocenti è ostacolato non
solo da esercito e militanti, ma perfino dalla più venerata e rispettata
paladina dei diritti civili, la Nobel della pace Aung San Suu Kyi, oggi
a capo “de facto” di un governo controllato nei posti chiave dal
comandante in capo delle forze armate Min Aung Hlaing. San Suu Kyi ha
fatto sapere che non si presenterà all’assemblea delle Nazioni Unite,
dove proprio della crisi dei rohingya si discuterà, mentre il Segretario
generale Antonio Guterres ha attaccato senza sconti la complicità
politica del premio Nobel nella persecuzione delle comunità islamiche
dell’Arakan, o Rakhine, dove si usa la lingua delle armi e non quella
del dialogo. Guterres ha parlato di una «pulizia etnica», e di una
«catastrofica crisi umanitaria per la minoranza dei musulmani eohingya»,
con «380 mila persone costrette a fuggire in Bangladesh». Se è vera,
questa cifra porta a più di 800 mila i rohingya senza cittadinanza né
identità già esuli da anni e decenni in Bangladesh, ma anche in Malesia e
nei Paesi che li impiegano spesso come schiavi.
La posizione di San Suu Kyi
Molti
sostengono che se la Lega nazionale di Suu Kyi si rifutasse di avallare
le mosse dell’esercito, questa crisi potrebbe facilmente riportare
indietro le lancette della storia ai precedenti regimi militari. Ma la
Lady è disposta anche a sopportare le ramanzine degli altri Nobel della
Pace contro il suo comportamento non etico, pur di non mettere a rischio
la difficile transizione verso la democrazia dopo tanti anni di
dittatura militare, costi quel che costi, soprattutto dopo che i gruppi
ribelli in nome dei rohingya si sono fatti più aggressivi e hanno preso
ad attaccare nell’ottobre scorso postazioni militari e di polizia dentro
l’Arakan.
I buddisti oltranzisti
Gli innumerevoli e
violenti rigurgiti del conflitto in corso sono sempre stati motivati
come adesso dalla paura vera o presunta della comunità buddista locale
di dover cedere spazio, affari, e magari le proprie donne, al numero
crescente di musulmani trasferiti nell’Arakan dal “Bengala” in varie
ondate di immigrazioni mai registrate e censite. Monaci come U Wirathu
del movimento ultraortodosso “Ma Ba Tha” furono lo strumento della
campagna d’odio del 2012 favorita dai generali per mettere sotto
controllo – anche con leggi matrimoniali ad hoc - un numero crescente di
“immigrati illegali” definiti semplicemente “bengalesi”, figli dei
figli di generazioni di frontalieri. Ma ne pagarono il prezzo gli stessi
musulmani residenti da generazioni e integrati anche nella lingua.
Odio anti-immigrati, linciaggi, vendette
La
convivenza senza armonia tra le due comunità era già compromessa da
annunci veri o falsi di una concessione della cittadinanza a migliaia di
“kalar” – termine dispregiativo per gli scuri islamici bengalesi - e da
voci di nuovi afflussi di migranti, quando circolò la notizia
apparentemente “no fake” dello stupro di una ragazza buddista, Ma Thida
Htwe, uccisa e sfregiata nel villaggio di Kyauknimaw il 28 maggio 2012.
L’odio anti-immigrati esplose senza freni, e a Taunggup un autobus
gremito di passeggeri – tutti musulmani, certamente innocenti – venne
bloccato e dato alle fiamme. Dieci i morti.
Il linciaggio fece
insorgere i devoti della moschea di Kyaut, a Maung Daw, dove la comunità
rohingya è in maggioranza. Da qui partirono in diverse direzioni folle
di giovani che incendiarono centinaia di case dei buddisti (definiti
spregiativamente “mugs”) e molti monasteri, prima dell’intervento
dell’esercito che separò le due comunità e impedì ai Rohingya di
spostarsi dal loro angolo di nord ovest e dai campi tenda di Sittwe,
dove sono ancora relegati 140 mila esuli.
Dagli anni ‘20 a oggi
Difficile
stabilire a quale crisi precedente – negli anni ’ 20, nel ’ 42, nel ’
48 quando alcuni rohingya volevano annettere l’Arakan al nascente
Pakistan, oppure nel ’ 78 durante analoghe rivolte popolari anti
rohingya con 200mila esuli – siano legate le cause dell’ultima fiammata.
Di
questa popol\\ azione islamica considerata tra le più perseguitate
della terra si ricercano le origini alle prime migrazioni di musulmani
dall’Africa secoli addietro, altri ne attribuiscono l’arrivo ai re
arakanesi per usarli come manovalanza, o agli inglesi che li impiegavano
nelle piantagioni di tè. Nella realtà è un’umanità sotto shock che si
ritrova di nuovo sballottata di qua e di là del confine di due Paesi che
non vogliono concedergli la propria nazionalità e i diritti annessi,
anche se il Bangladesh per ora ne contiene il maggior numero, ben 800
mila sommando gli ultimi profughi ai 500mila dei precedenti esilii. Ma
quanti sono i rohingya rimasti dentro le province di frontiera birmane?
Secondo alcuni report il 40 per cento dei villaggi attorno a Maung Daw e
agli altri di maggioranza islamica sono stati completamente evacuati.