Repubblica 15.9.17
Rohingya
Il rischio che il jihadismo possa cavalcare la crisi
Con
i musulmani nel ruolo di vittime, una causa finora marginale se non
ignorata può trasformarsi in elemento di mobilitazione propagandistica
dello Stato islamico contro “gli infedeli”. Al silenzioso opportunismo
del Nobel San Suu Kyi si somma il controsenso di una violenza scatenata
su una minoranza nel nome del buddismo, religione “di pace”
di Roberto Toscano
Un
libro di Steven Pinker pubblicato negli Stati Uniti sei anni fa,
rapidamente diventato un best seller mondiale, portava il titolo: “Il
declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente
l’epoca più pacifica della storia”. Può darsi che i dati quantitativi
che l’autore cita a sostegno della propria tesi siano inconfutabili (
anche se venendo dopo il XX secolo, quello di due guerre mondiali e
della Shoah, l’inizio del XXI secolo risulta ovviamente meno micidiale),
ma forse sarebbe più interessante e più significativo andare oltre i
numeri e focalizzarsi sulle modalità della violenza e sul contesto
politico- culturale in cui essa oggi si svolge.
Nel tempo che
stiamo vivendo, che potremmo definire della “globalizzazione
imperfetta”, le guerre non finiscono (pensiamo ai sedici anni del
conflitto afgano, che non sembra alla vigilia di una soluzione), ma si
aggiungono l’una all’altra. E soprattutto non sono guerre nel senso di
scontri organizzati fra eserciti, ma piuttosto conflitti interni in cui
intervengono soggetti esterni, di solito contribuendo a renderli
interminabili.
Da qualche tempo all’elenco di violenze e atrocità
che caratterizzano il nostro tempo, che con tutto il rispetto per Pinker
si fa molta fatica a definire il più pacifico della storia, si è
aggiunta la crisi del Myanmar ( il paese che fino al 1989 si chiamava
Birmania), dove il governo ha scatenato una violenta pulizia etnica nei
confronti dei rohingya, circa un milione di musulmani che vivono nella
regione, Rakhine, che confina con il Bangladesh. I rohingya - anche se
la loro presenza sul territorio del Myanmar, la Birmania delle
innumerevoli etnìe, si è configurata gradualmente nei decenni se non nei
secoli – dal 1982 vengono ufficialmente considerati immigranti illegali
dal Bangladesh, gli è negata la cittadinanza e vivono in condizioni di
profondo sottosviluppo e mancanza di diritti. Ma come si è passati
dall’esclusione alla violenza di massa? L’innesco è costituito da atti
di guerriglia messi in atto a partire dal 2012 da gruppi di militanti
rohingya contro posti di polizia e uffici governativi. Azioni condotte
con armi rudimentali e non certo capaci di mettere in crisi le
agguerrite forze armate del Myanmar, ma che hanno suscitato una
durissima reazione del governo appoggiato dalla maggioranza della
popolazione, buddista e particolarmente sensibile alla prospettiva di
una minaccia del radicalismo islamico, che come noto si è ultimamente
esteso al Sud-est asiatico, dal Bangladesh all’Indonesia alle Filippine.
Una
minoranza senza diritti e repressa che si ribella, scatenando una
feroce reazione da parte del governo centrale: una storia che abbiamo
visto più volte, e in varie parti del mondo. Ma se oggi il caso birmano
attrae tanta attenzione a livello mondiale è per la presenza di una
protagonista della causa dei diritti umani, Aung San Suu Kyi, premio
Nobel per la pace nel 2012, liberata nel 2010 dal domicilio coatto in
cui la giunta militare al governo l’aveva relegata per quindici anni e
dal 2015 primo ministro di fatto ( anche se con il titolo di
“consigliere di Stato”), nonché ministro degli Esteri. Ebbene, quella
che per anni è stata una vera e propria icona della causa della libertà e
dei diritti, oggi non solo si trova al vertice di un governo
repressivo, ma definisce prodotto di “ disinformazione” le denunce che
vengono formulate contro la repressione indiscriminata e la pulizia
etnica nei confronti della minoranza musulmana. Non è solo l’opinione
pubblica mondiale ad essere colpita e delusa, ma anche personalità che
hanno avuto lo stesso riconoscimento, il Nobel per la pace. Malala, la
giovane pachistana oggetto di un attentato talibano per la sua lotta a
favore dell’istruzione delle donne e Premio Nobel nel 2014, ha espresso
tutta la sua delusione per una grave, inspiegabile incoerenza, e
Muhammad Yunus, il bengalese Premio Nobel nel 2006, è stato lapidario:
«Ha perso le sue qualità». Ma le parole più forti e al tempo stesso
commoventi sono quelle di Desmond Tutu, il vescovo anglicano
protagonista della lotta pacifica contro l’apartheid in Sudafrica e
Premio Nobel nel 1984: « Mia cara sorella: se il prezzo politico della
tua ascesa alla più alta carica del Myanmar è il tuo silenzio, allora il
prezzo è troppo alto».
Il silenzio come prezzo pagato per la “
realpolitik” in un paese in cui le forze armate rimangono, nonostante la
formale sovrastruttura politica, al centro del potere reale:
un’interpretazione possibile, ma forse non corretta, o quanto meno non
esauriente.
Il problema potrebbe essere di altra natura, e
riflettere, invece di un adattamento opportunista ai rapporti di forza,
convinzioni reali e profonde. Si tratta del nazionalismo. Non andrebbe
dimenticato che il padre della dissidente diventata primo ministro era
Aung San, la figura di eroe nazionale considerata centrale nella storia
dell’indipendenza birmana. Sua figlia ha coraggiosamente lottato,
pagando un fortissimo prezzo personale, per la libertà del suo popolo,
ma la questione di fondo, etica prima che politica è su dove venga
tracciato il perimetro all’interno del quale si riconoscono diritti e
doveri. Chi è il tuo popolo?
Nel caso del Myanmar va anche
ricordato che dal 1962, data del colpo di Stato che ha portato al potere
i militari, le carte di identità dei cittadini portano l’indicazione
sia del gruppo etnico che della religione. Questa duplice appartenenza
determina chi appartiene e chi non appartiene, chi è incluso e chi è
escluso. I rohingya sono doppiamente esclusi in quanto bengalesi e
musulmani. Sembra difficile a questo punto escludere che, anche se da un
lato ci sono militari fascistoidi e dall’altro una liberal-democratica,
su questa definizione di inclusione/ esclusione non esista fra loro una
divergenza di fondo.
Ma a colpire l’opinione pubblica non sono
solo la sorpresa e la delusione per l’atteggiamento della premio Nobel
per la pace diventata complice della repressione. Si aggiunge anche il
controsenso della violenza scatenata contro una minoranza sulla base di
un vasto consenso popolare in un paese profondamente identificato con il
buddismo (che dal 1961 è religione di Stato), una religione di pace e
compassione. Un controsenso al quale si è riferito il Dalai Lama quando,
riferendosi alla situazione in Myanmar ha ammonito che «in circostanze
analoghe Buddha avrebbe aiutato quei poveri musulmani».
Se ci
fosse stato bisogno di confermare che nessuna religione costituisce di
per sé garanzia di umanità, basterebbe considerare alcuni fatti,
purtroppo non episodici. In Myanmar sono monaci buddisti - e in
particolare un religioso estremamente violento e razzista, Wirathu – a
ispirare le squadracce che coadiuvano militari e polizia nelle
operazioni repressive. Fra l’altro i buddisti- nazionalisti birmani
risultano in contatto con partiti e gruppi analoghi attivi soprattutto
in Sri Lanka, dove il movimento Bbs (Buddhist Power Force) ha un
notevole peso politico a sostegno del governo in carica. Anche in
Thailandia vi sono monaci buddisti che dirigono movimenti nazionalisti
violenti, senza contare il “ buddismo guerriero” della antica tradizione
giapponese, l’ampio appoggio buddista al militarismo nipponico del XX
secolo e, attualmente, l’esistenza in Giappone di gruppi buddisti di
orientamento chiaramente nazional- fascista. Al paradosso del premio
Nobel per la pace quanto meno connivente con la repressione si aggiunge
quindi il paradosso di un buddismo violento- una versione che certo è
storicamente esistita, ma che oggi risulta particolarmente virulenta e
purtroppo in crescita. Se i buddisti birmani appoggiano la repressione
contro i rohingya non è a causa di “odi atavici,” o di interpretazioni
distorte del messaggio del Buddha, ma perché la questione viene vista
nel contesto del radicalismo jihadista e delle sue proiezioni sempre più
inquietanti in Asia.
Non è vero che le azioni di guerriglia nel
nord-ovest di Myanmar siano state ispirate e tanto meno armate da Al
Qaeda o dallo Stato Islamico, ma il fatto è che potremmo trovarci di
fronte a una profezia che si auto-avvera, nel senso che sono già
evidenti i segnali del tentativo del jihadismo internazionale di fare
della “causa rohingya”, finora sostanzialmente marginale se non
ignorata, un elemento di mobilitazione propagandistica (come riprova
della persecuzione dei musulmani da parte degli “ infedeli”) e anche
oggetto di intervento sul piano di appoggio ad azioni armate,
soprattutto di tipo terrorista.
È di questi giorni l’intervento
sulle pagine della rivista online del suo movimento, il Jaish- e-
Mohammad, del pachistano Masood Azhar, ex combattente mujahiddin contro i
russi in Afghanistan e responsabile di azioni terroriste condotte lo
scorso anno sul territorio indiano. Alle parole di Azhar, seguace non
pentito di Bin Laden, si sono aggiunte quelle di Abu Ibrahim al- Hanif,
capo della “ franchise” dello Stato Islamico in Bangladesh, che ha
chiamato a “lanciare operazioni in Myanmar appena saremo pronti”, nonché
l’appello del “Fronte di difesa islamica” indonesiano a lanciare una
jihad a difesa dei rohingya. Il jihadismo non poteva chiedere di meglio:
una causa fresca, una situazione in cui i musulmani sono
indiscutibilmente le vittime.
Il locale si connette al globale,
l’interno all’esterno, e soprattutto le identità vissute in modo
tribale, siano esse etniche o religiose, producono interminabili e
feroci conflitti e tendono alla frammentazione settaria di entità
statuali che, visto che non sono capaci di essere di tutti, possono
finire con essere di nessuno. Visto che non sanno produrre integrazione,
scivolano in processi di disgregazione difficilmente reversibili, Dopo
Somalia, Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, vi è il rischio che ora
tocchi al Myanmar.