il manifesto 15.9.17
Non Stop Apartheid
Ridefinizione di
un crimine. In Sudafrica i limiti di una liberazione che non libera dal
capitalismo razziale sono evidenti. E spiegano il modo in cui opera oggi
il dominio israeliano sulla Palestina
di Haidar Eid, Andy Clarno
La
Convenzione Internazionale Onu sulla soppressione e la punizione del
crimine di apartheid definisce l’apartheid un crimine che comporta «atti
disumani commessi al fine di stabilire e mantenere il dominio di un
gruppo razziale su ogni altro e la sua sistematica oppressione». Lo
Statuto di Roma della Corte penale internazionale parla di «un regime
istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio di un gruppo
razziale su qualsiasi altro gruppo razziale».
Pur riconoscendo
l’importanza del diritto internazionale, è necessario notarne i limiti.
Una specifica preoccupazione riguarda la definizione internazionale di
apartheid. Focalizzarsi solo sul regime politico non fornisce basi forti
per la critica degli aspetti economici e apre la strada a un futuro di
post-apartheid in cui dilaga la discriminazione economica.
NEGLI
ANNI ’70 E ’80, i neri sudafricani furono impegnati in urgenti dibattiti
su come intendere il regime di apartheid che combattevano. Il blocco
più potente all’interno del movimento di liberazione – l’African
national congress (Anc) – riteneva che l’apartheid fosse un sistema di
dominio razziale e che la lotta dovesse incentrarsi sull’eliminazione
delle politiche razziste e sulla richiesta di uguaglianza di fronte alla
legge. I neri radicali rigettavano questa analisi. Il dialogo tra il
Black Consciousness Movement e i marxisti indipendenti diede vita a una
definizione alternativa di apartheid, intesa come sistema di
«capitalismo razziale». La lotta avrebbe dovuto confrontare
simultaneamente lo Stato e il sistema capitalista razziale o, dicevano,
il Sudafrica del post-apartheid sarebbe rimasto diviso e ineguale. La
transizione degli ultimi 20 anni ha dato sostegno a questa tesi. Nel
1994 l’apartheid legale è stata abolita e i neri sudafricani hanno
ottenuto uguaglianza di fronte alle legge: diritto di voto, diritto a
vivere ovunque, diritto di movimento senza permessi.
Ma nonostante
la democratizzazione dello Stato, la transizione sudafricana non ha
affrontato le strutture del capitalismo razziale.
Durante i
negoziati, l’Anc ha fatto importanti concessioni per ottenere il
sostegno dei bianchi sudafricani e l’élite capitalista. Ha accettato di
non nazionalizzare terre, banche e miniere e ha riconosciuto protezione
costituzionale all’esistente distribuzione della proprietà privata,
nonostante la storia di espropriazione coloniale. Ha adottato una
strategia economica neoliberista promuovendo libero mercato, industria
orientata all’export e privatizzazione degli affari dello Stato. Come
risultato, il Sudafrica post-apartheid rimane uno dei paesi più
diseguali al mondo.
LA RISTRUTTURAZIONE neoliberista ha condotto
all’emersione di una piccola élite nera e una crescente classe media
nera in alcune parti del paese. La vecchia élite bianca controlla ancora
la stragrande maggioranza di terre e ricchezze.
La
deindustrializzazione e la crescente porzione di popolazione costretta a
lavori casuali hanno indebolito il movimento dei lavoratori,
intensificato lo sfruttamento della classe operaia nera e prodotto un
crescente surplus razziale di popolazione che vive in una disoccupazione
permanente e strutturale.
Il tasso di disoccupazione raggiunge il
35%, includendo chi si è arreso e non cerca più lavoro. In alcune aree
supera il 60% e i posti di lavoro disponibili sono precari, a termine e
con salari bassi. I neri poveri si trovano di fronte anche alla mancanza
di terre e case. Invece di redistribuire la terra, il governo dell’Anc
ha adottato un programma basato sul mercato: lo Stato aiuta i clienti
neri ad acquistare terra di proprietà dei bianchi. Questo ha fatto
crescere una piccola classe di proprietari neri ricchi, ma solo il 7,5%
delle terre sudafricane è stato redistribuito.
Allo stesso modo,
il costo crescente delle case ha moltiplicato il numero di persone che
vive in baracche, edifici occupati e insediamenti informali, nonostante i
sussidi statali e le garanzie costituzionali ad un’abitazione
dignitosa.
LA RAZZA CONTINUA A DEFINIRE l’accesso diseguale a
casa, educazione e lavoro nel Sudafrica post-apartheid. E determina la
rapida crescita di security privata, l’industria con lo sviluppo più
veloce dopo gli anni ’90. Le compagnie di sicurezza privata e le
associazioni dei residenti benestanti hanno trasformato i sobborghi
storicamente bianchi in comunità fortificate, con muri lungo le
proprietà private, cancellate intorno ai quartieri, ronde, sistemi
d’allarme e team armati per la risposta rapida.
Secondo il diritto
internazionale, l’apartheid termina con la trasformazione dello Stato
razziale e l’eliminazione della discriminazione razziale legalizzata.
Eppure anche un esame superficiale del Sudafrica dopo il 1994 rivela le
insidie di tale approccio e l’importanza di un ripensamento della
definizione di apartheid. L’uguaglianza legale formale non ha prodotto
una reale trasformazione sociale ed economica. Al contrario, il
neoliberismo del capitalismo razziale ha consolidato la diseguaglianza
creata da secoli di colonizzazione e apartheid.
In una parola,
l’apartheid non è finita, è stata ristrutturata. Fare riferimento
esclusivamente alla definizione legale internazionale di apartheid
potrebbe condurre a problemi simili in Palestina.
GUARDARE
ALL’APARTHEID attraverso queste lenti permette di capire che il
colonialismo di insediamento israeliano opera oggi tramite il
capitalismo razziale neoliberista. Negli ultimi 25 anni Israele ha
intensificato il progetto coloniale di insediamento sotto le spoglie
della pace. Oslo ha reso Israele in grado di frammentare ulteriormente i
Territori Occupati e di integrare il dominio militare diretto con
aspetti di dominio indiretto. La Striscia di Gaza è stata trasformata in
un «campo di concentramento» e in un modello di «riserva per nativi»
attraverso un assedio mortale e medievale descritto da Richard Falk come
«preludio al genocidio» e da Ilan Pappe come un «genocidio
incrementale». In Cisgiordania la strategia neocoloniale israeliana
prevede la concentrazione della popolazione palestinese nelle aree A e B
e la colonizzazione dell’Area C.
La riorganizzazione del dominio
israeliano si è realizzata insieme alla ristrutturazione neoliberista
dell’economia. Dagli anni ’80, Israele è passato da un’economia guidata
dallo Stato e focalizzata sul consumo interno a un’economia guidata
dalle corporazioni e integrata nei circuiti del capitale globale. Tale
ristrutturazione ha generato immensi profitti privati mentre si
smantellava il welfare, si indeboliva il movimento dei lavoratori e si
aumentavano le diseguaglianze. Riducendo di molto la necessità di forza
lavoro palestinese.
LA VITA DELLA CLASSE OPERAIA palestinese è
diventata via via più precaria. Con accesso limitato al mercato del
lavoro in Israele, povertà e disoccupazione si sono moltiplicate.
Sebbene l’Autorità palestinese (Anp) abbia sempre sostenuto una visione
neoliberista dell’economia guidata dal settore privato, rivolta
all’export e al libero mercato, ha dapprima risposto alla crisi creando
migliaia di posti di lavoro pubblici.
Dal 2007, tuttavia, l’Anp
segue un duro programma economico neoliberista che punta al taglio dei
posti di lavoro nel pubblico e all’espansione del settore di
investimento privato. Ma il settore privato è rimasto debole e
frammentato e le politiche neoliberiste hanno ulteriormente peggiorato
le condizioni di vita della classe bassa palestinese, contribuendo alla
crescita di una piccola élite nei Territori Occupati composta dalla
leadership dell’Anp, capitalisti palestinesi e funzionari delle ong. Chi
visita Ramallah resta sorpreso nel vedere ville, palazzi, ristoranti di
lusso, hotel a 5 stelle. Non sono i segni di un’economia prospera ma
della crescente divisione di classe.
gaza tunnel reuters
Un tunnel clandestino tra Gaza e l’Egitto (foto Ap)
Allo
stesso modo una nuova borghesia affiliata a Hamas è emersa a Gaza dal
2006. Il suo benessere dipende dalla calante «industria dei tunnel», il
monopolio dei materiali di costruzione contrabbandati dall’Egitto e dei
pochi beni importati da Israele.
IL NEOLIBERISMO insieme al
progetto di colonialismo di insediamento ha tramutato i palestinesi in
popolazione usa e getta. Ne I dannati della terra, Frantz Fanon avverte
dell’insidia di un movimento di liberazione che termina con uno Stato
indipendente governato da un’élite nazionale che imita il potere
coloniale. Muoversi dall’indipendenza politica alla trasformazione
sociale e la decolonizzazione è la sfida che oggi affronta il Sudafrica
del post-apartheid. Evitare questa trappola è la sfida di fronte al
movimento di liberazione palestinese.
* Docente di Letteratura postcoloniale e postmoderna all’università al Aqsa di Gaza
**
Docente di Sociologia e Studi african american e direttore
dell’Istituto di giustizia sociale dell’Università dell’Illinois a
Chicago
La versione integrale originale di questo articolo è stata
pubblicata dal network Al Shabaka ed è disponibile qui in lingua
inglese