il manifesto 15.9.17
Caparezza o del rap come psicoterapia
Musica.
Esce oggi «Prisoner 709», il settimo album dell'artista di Molfetta.
Sedici tracce per un concept sul disagio mentale e sui «nuovi» mostri
della società. «Non so se a far scattare l’ispirazione è stato
l’acufene, di certo ha contribuito. Per la prima volta ho fatto emergere
la parte più inquieta di me stesso»
di Stefano Crippa
Abbandonati
i corridoi dei musei, le tele e le vite dei grandi maestri dell’arte,
Caparezza tenta per questa sua settima creazione musicale, Prisoner 709
(Universal) in uscita oggi, un’operazione singolare. Partendo da quello
che definisce «incidente professionale» – un acufene aumentato fino a
diventare una sorta di tortura così da tenerlo lontano dalla scrittura
per molto tempo – ha messo insieme sedici tracce che dal racconto del
disagio mentale ci rivelano molte cose del nostro umano contemporaneo.
Politicamente scorretto il musicista nato a Molfetta 43 anni fa lo è
sempre stato, ma forse mai come per questo nuovo progetto mette a punto
un percorso di autoanalisi che da una situazione di disagio arriva alla
sua accettazione. Musicalmente è un disco compatto, forse uno dei suoi
migliori di sempre; suonato dal vivo nello studio personale di Molfetta
con uso attento e mai pretestuoso dell’elettronica, mixato a Los Angeles
con un mago della consolle come Chris Lord-Alge, ancora al suo fianco
dopo Museica. Il video del primo singolo che intitola il disco è
folgorante, un claustrofobico viaggio in quattro minuti nel disagio
mentale e fisico. Il tour parte il 17 novembre con una scenografia che
terrà conto ovviamente dei temi affrontati nel disco: prigionia e
evasione…
Tre anni dopo «Museica» fai come tabula rasa del tuo
passato, sin dalla copertina. Ai colori sgargianti di quell’album
contrapponi il bianco e nero dove si staglia un tuo prepotente primo
piano..
Non so se a far scattare l’ispirazione è stato l’acufene,
di certo ha contribuito. Sono un musicista e come tale vivo la terribile
sensazione di aver fatto un album che non sentirò mai come la maggior
parte delle persone. Ecco, direi che nelle nuove canzoni punto i
riflettori verso me stesso e non verso il mondo esterno come ho fatto
finora. Faccio riemergere la mia parte inquieta che probabilmente non
avevo fatto uscire nei lavori precedenti. Ad esempio la Prosopagnosia
(anche titolo del brano che apre il disco e dove collabora John De Leo,
ndr) è un deficit che impedisce il riconoscimento dei volti altrui. In
questo caso sono io che non riesco a riconoscere me stesso. Però cerco
di non piangermi addosso, tanto che chiudo la raccolta con la stessa
traccia ma in una versione allegra e felice. Ergo ho un problema, così
accetto di averlo.
In «Forever Jung» azzardi un paradosso: il rap
come evoluzione delle teorie di Freud e Jung. Una sorta di psicoterapia
fatta attraverso un flusso incontrollato, quasi liberatorio, delle
parole. E hai invitato un maestro del genere come Darryl Mc Daniels dei
Run DMC…
Ti preannuncio (ride, ndr) che Prisoner 709 ha tutte le
caratteristiche per essere il disco prima della mia morte, perché si
sono chiusi cerchi come mai avrei immaginato. Io ho iniziato ad amare il
rap a 13 anni attraverso alcuni video dei Run DMC che un’emittente di
Molfetta trasmetteva. Fino a quel momento avevo ascoltato il rock e i
Kraftwerk, stavo entrando nell’adolescenza ma quello era il background.
Tre ragazzi in tuta che andavano a ritmo con le parole e un dj che
suonava i dischi, non immaginavo che potessero diventare uno strumento
musicale. E da lì in avanti il rap diventa il faro della mia vita fino
ad arrivare al 2017 dove, nel mio momento di debolezza rappresentato
emblematicamente da questo album, decido di far fare da psicologo al rap
stesso. E non potevo non coinvolgere Daniel.
In «Confusianesimo»
affronti il tema della religione e il suo rapporto con la ragione in
modo lieve e ironico, immaginandoti immerso in tutti i credi possibili e
immaginabili fino ad elaborarne uno nuovo. Confusianesimo, appunto…
Io
sono uno scettico, non riesco a trovare pace in nessuna dottrina,
religiosa o spirituale che sia. Fondamentalmente non capisco la fede
perché è cieca, un concetto che applico in ogni ambito: religioso,
politico, sportivo. Ho subito la fascinazione da piccolo – vengo da una
famiglia cattolica, perché a quell’epoca non hai le armi razionali per
poterla combattere. Con molta fatica sono riuscito a scrollarmi di dosso
questi dogmi per seguire i miei ragionamenti. Nel pezzo decido di
provare tutte le religioni finendo per impazzire diventando ancor più
scettico di prima. E creando questa non religione, il confusianesimo.
«L’uomo
che premette» è forse il brano simbolo del disco, rappresenta la parte
oscura. Molti di noi si nascondono dietro un velo di tolleranza, ma sono
pronti a cambiare repentinamente idea. È sintomo di questi tempi dove
si innalzano i muri e squadracce fasciste pensano di calare nuovamente
su Roma…
Il pezzo parla dei moderati che si definiscono tolleranti
ma in realtà cambiano opinione a seconda del servizio giornalistico di
turno, magari proprio sulle ondate di migranti. Il pericolo è dentro di
noi; perché il razzista, lo pseudo fascista sono individuabili – non
meno pericolosi certo, ma c’è una finta tolleranza strisciante che è
ancora più pericolosa perché contagiosa. Intorno a me vedo gente che ha
radicalmente cambiato opinione, passando dall’essere di sinistra a ’sì
però adesso basta’. Durante le mie letture mi sono imbattuto in quello
che viene chiamato «Esperimento della prigione di Stanford» a cura dello
psicologo Philip Zimbardo. L’esperimento consisteva nel far recitare il
ruolo di guardie e di prigionieri ad alcuni studenti universitari per
due settimane. Fu interrotto dopo appena sei giorni perché nessuno
riusciva più a sganciarsi dal ruolo assegnato. Le guardie divennero
estremamente violente e i detenuti, annichiliti, finirono con
l’accettare passivamente qualsiasi vessazione. Il prigioniero 819 tentò
con uno sciopero della fame di sabotare l’esperimento e chiese di vedere
un dottore abbandonandosi ad una crisi isterica. È pensando a quel
prigioniero che è nato il titolo Prisoner 709.
In questo disco oltre a John De Leo (presente anche in «Minimoog»), Darryl McDaniels ospiti anche Max Gazzè…
Gli
ho proposto di fare Migliora la tua memoria con un click. Io non amo la
mia voce quando canto, la mia materia è fare rime e su quello mi sento
abbastanza sicuro. Avevo bisogno di trovare qualcuno che la sostituisse e
siccome la situazione era delicata ho pensato subito a Max. Gli ho
detto che era libero di fare quello che desiderava, ci ha riflettuto un
attimo e ha aggiunto quel recitato finale piuttosto bizzarro. Mi serviva
proprio il suo timbro.
La ripresa finale di «Prosopagnosia» ha
dei rimandi evidenti ai Daft Punk di «Random Access Memories». Il duo
francese si ispira ai suoni e allo stile di Giorgio Moroder e la scuola
disco di Monaco di Baviera nei ’70, ma anche ai tuoi beniamini
Kraftwerk…
Vero. La mia idea è legata all’infanzia, se sento
parlare di elettronica penso subito al vocoder, alle tastiere e ai
synth. Quando i Kraftwerk sono arrivati hanno rivoluzionato la cultura
musicale di quegli anni, e qualsiasi gruppo elettronico inevitabilmente
paga pegno. Moroder lo stesso – ho amato moltissimo I feel love con la
voce di Donna Summer, ma viaggiano su due universi diversi. Il
produttore altoatesino ha incanalato quei suoni nella disco music, il
trio tedesco ha invece preferito mantenersi in un ambito decisamente più
sperimentale.
Il viaggio di «Prisoner 709» si chiude con
«Infinto», dove immagini il mondo come un enorme videogame e
«Autoipnotica» dove progetti la tua evasione..
È un fatto strano
ma per la prima volta i pezzi di questo album seguono quasi un ordine
cronologico, nel senso che Prosopagnosia è realmente il primo brano che
ho scritto, e Autoipnotica e Prosopagnosia «felice» realmente gli
ultimi. Autoipnotica mi serviva per evadere, e l’immagine rimanda al
viaggio in auto. Io quando guido nonostante tutta l’attenzione dovuta,
mi diverto a fare dei voli pindarici. Volevo trasferire l’idea di
autoipnosi, questo gioco di parole tra l’auto e la macchina. Un giorno
in macchina mi sono trovato a desiderare di fuggire da tutto e ho
immaginato – come scrivo nel testo – di essere la zip che scuce
l’autostrada facendo in modo di non poter davvero più tornare indietro. È
strano ma capita certe volte: sono i pensieri che ti risolvono un’idea…