Repubblica 14.9.17
La politica senza autonomia
di Ezio Mauro
DUNQUE
la legge sullo Ius soli non si farà. E così arriva a compimento, per
questa fase, quello spostamento di opinione pubblica che lega ormai
immigrazione paura e sicurezza, coltivato e concimato da mesi di
predicazione dei partiti delle ruspe, senza che la sinistra sapesse
opporre una visione diversa del fenomeno, basata sulla realtà dei fatti,
mentre il centro rinuncia alla tradizione italiana del solidarismo
cristiano, e i Cinquestelle rivelano qui più che mai la loro natura di
ibrido politico, con una postura di sinistra e un’anima di destra. Prima
si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti
si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le
misure conseguenti, gregarie, con la politica che rinuncia a ogni sua
autonomia di giudizio, di indirizzo e di responsabilità rispetto al
senso comune dominante.
CI SONO certo differenze di metodo, di
linguaggio e di tono, nel panorama politico italiano. Ma non c’è una
vera differenza culturale, un’opzione responsabile come quella di Angela
Merkel, che guidi un’opinione disorientata invece di inseguirla, come
se la politica fosse un fascio di foglie al vento.
Bisogna avere
la pazienza di leggere dentro la paura, come fa Ilvo Diamanti. È la
nuova cifra dell’epoca. Nasce con ogni evidenza dal passaggio di fase
che stiamo vivendo, ben più ampio del fenomeno migratorio: una crisi
economica che non è un tunnel da attraversare sperando di rimanere
indenni, ma un agente sociale che modifica i percorsi individuali e
collettivi, le gerarchie, persino i sentimenti (la nuovissima gelosia
del welfare), deformando le aspettative di futuro. Una crisi del lavoro
più lunga della bufera finanziaria, che per la prima volta produce in
alto e in basso nelle generazioni una vera e propria esclusione sociale,
vissuta come l’inedito di una mutilazione della cittadinanza. Un
terrorismo che ideologizza la religione riportando gli omicidi rituali
nel cuore dell’Europa. Uno scarto tra la dimensione mondiale delle
emergenze e lo strumento della politica nazionale, l’unico che il
cittadino conosce e a cui è abituato a rivolgersi. Col risultato
inevitabile di una crisi della democrazia che lascia scoperti i non
garantiti, producendo vuoto nella rappresentanza, solitudine
repubblicana, secessione individuale nell’altrove, che è un luogo
frequentato ma immaginario della politica.
Tutto questo si
riassume nel sentimento impaurito di perdita di controllo del mondo, di
mancanza di ogni governo dei fenomeni. È un sentimento da fine d’epoca,
quando si smarrisce la fiducia nella storia, si vive ipnotizzati dal
male nel mondo, si rifiuta la conoscenza e si respinge la competenza
perché si privilegia l’artificiale sul reale e si sceglie istintivamente
ciò che è nocivo, come diceva Nietzsche, ci si lascia sedurre da
motivazioni senza un fine, in un clima di precarietà comunitaria,
crepuscolo politico e decadenza civile facilmente abitato da moderni
mostri come la fobia dei vaccini, o da antichi incubi che tornano, come
la bomba. Proprio la fusione tra l’angoscia primordiale e il timore del
contemporaneo genera la sensazione che stia venendo meno la stessa
concezione di progresso, cioè il tentativo di controllare il divenire
del mondo, di superare il limite regolandolo, suprema ambizione della
modernità, scommessa costante della democrazia. Come se ci accorgessimo
che tutta l’impalcatura culturale, istituzionale, politica, diplomatica
inventata per tutelare il complesso sistema in cui viviamo non ci
protegge più, perché il meccanismo gira a vuoto. La regola democratica
non basta a se stessa.
Naturalmente il venir meno della politica
ha una conseguenza evidente nel sociale. Il primo effetto
dell’indebolimento di governo è l’autorizzazione spontanea a pensare
ognuno a se stesso, liberi tutti. Si sta realizzando la profezia della
Thatcher sulla società che non esiste, ma non attraverso l’affermazione
dell’individuo, bensì col venir meno di ogni spontanea obbligazione di
responsabilità generale, da cui nasce l’ultima forma di solitudine, con
lo Stato e il cittadino indifferenti l’uno all’altro come una vecchia
coppia in crisi, con ogni passione spenta. Ognuno sta solo sul suo pezzo
di destino, esclusivamente individuale. In più il ricco per la prima
volta può fare a meno del povero, che intanto è già diventato
qualcos’altro in attesa di definizione, perché è finito fuori dalla
scala sociale, da una autonoma condivisione d’orizzonte che teneva
insieme i vincenti e gli sconfitti. Alla fine, sotto i nostri occhi sta
mutando lo stesso concetto di libertà, che si privatizza in un nuovo
egoismo sociale: sono libero non in quanto sono nel pieno esercizio dei
miei diritti di cittadino, ma al contrario sono libero semplicemente
perché liberato da ogni dovere sociale, da ogni vincolo con gli altri,
da ogni prospettiva comune, verso cui ciascuno può muoversi con le sue
forze, i suoi meriti e le sue fortune, ma sapendo di non essere solo.
C’è
da stupirsi che l’onda alta delle migrazioni, il ritardo multiculturale
italiano, l’esposizione geografica del nostro Paese, l’indifferenza
dell’Europa abbiano indirizzato verso i disperati dei barconi questo
sentimento smarrito, trasformandolo immediatamente in risentimento? La
paura cercava un bersaglio capace di riassumere l’indicibile e
l’inconfessabile, cumulandoli. Lo “straniero”, il visitatore, il diverso
sono già stati più volte al centro di costruzioni ideologiche, menzogne
sociali, istinti trasformati in politica. In questo caso la persona
ridotta a corpo, il corpo ridotto a ingombro, l’ingombro ridotto a
numero, funzionano alla perfezione. Tutto diventa simbolico, fantasma
sociale, incubo politico. La dimensione concreta del fenomeno, la sua
governabilità su una scala europea e anche su una scala nazionale, non
contano più nulla. Non si fa politica sui migranti, ma sulla loro
proiezione simbolica, sul plusvalore prodotto dalla paura.
È
chiaro che alle paure la politica deve rispondere, ma restituendo
proporzioni corrette al fenomeno, cacciando i fantasmi con la realtà. E
la sinistra deve farlo per prima, se è vero quel che diciamo da tempo e
che oggi certifica Diamanti, e cioè che l’inquietudine cresce nelle zone
più deboli del Paese e nelle parti più fragili della popolazione, con
gli immigrati percepiti come un pericolo principalmente da chi ha un
basso livello d’istruzione (il 26 per cento di “paura” in più di chi ha
un livello alto), e probabilmente da chi vive solo, in piccoli centri,
magari non è mai uscito dai confini del Paese e si trova un mondo
rovesciato nei giardini sotto casa, senza gli strumenti per
padroneggiarlo, senza la costruzione di un contesto dove sistemarlo e
senza più la speranza di governarlo. La paura, l’insicurezza non sono
necessariamente un fattore di ordine pubblico: spesso in questi casi
nascono dal timore della rottura dei fili comunitari di esperienze
condivise, che basta per farti sentire risospinto ai margini in casa
tua, spossessato, geloso del panorama civico abituale, dei riferimenti
consolidati, del deposito di una tradizione comune: una piccola rottura
della storia domestica. Su questo disorientamento bisogna chinarsi,
raccoglierlo, trovare il bandolo di un percorso per uscirne, emancipando
i penultimi dalla paura degli ultimi.
Questo è il modo per non
lasciare alla destra le parole dell’ordine e della sicurezza, che sono
di tutti, in uno Stato democratico. La sinistra ha un dovere in più,
perché deve collegarle al concetto di solidarietà e di integrazione, che
viene dalla sua storia, e risponde alla sua natura. Tenere insieme
legalità e solidarietà, ordine e integrazione è l’unico modo concreto
per garantire davvero sicurezza e combattere la paura. È anche il modo
migliore per tutelare la civiltà italiana dei nostri padri e delle
nostre madri, invocata a vanvera. Perché era costruita con questi
semplici strumenti, non con una ruspa.