Repubblica 14.9.17
Il Cortile di Francesco
Massimo Cacciari è tra gli ospiti degli incontri di Assisi, al Cortile di Francesco da oggi al 17 settembre.
Parteciperanno tra gli altri: Christo, Umberto Galimberti, Oliviero Toscani, Romano Prodi, Carlo De Benedetti, Marco Minniti.
L’attualità della lezione del frate di Assisi: un cammino libero che non è mai fuga dal mondo
San Francesco in viaggio verso l’altro
di Massimo Cacciari
La sua cella era fratello corpo Nessuno spazio può trattenerlo
Ciò che muove questo andare è sempre la misericordia
Quale forma assume il viaggio di Francesco? Rispetto ai molteplici aspetti che ha assunto nella storia della nostra civiltà – dalla navigazione socratico-platonica verso la conoscenza di sé e l’idea dell’eterno e immutabile, al progredire della potenza della Tecnica che sempre s’immagina capace di aprirsi la strada; dalla conversione e ritorno al Padre, all’inabissarsi al Regno delle immagini sciolte da ogni contenuto di cui il Faust di Goethe vuole fare esperienza; dal viaggio di avventura, che è puro azzardo, negazione di ogni idea di fine, a numerosi altri che si potrebbero ricordare – è quello del pellegrino che sembra più assomigliarli, e cioè il viaggio di colui che per ager, oltrepassando ogni città, procede verso il luogo che lo chiama, inizio e meta del suo andare. Per lui il viaggio fa parte integrante della meta, il suo fine è l’esperienza che compie nell’andare. Ma fede nell’inizio e raggiungimento della meta gli sono donati. Per essere questo pellegrino Francesco ama troppo le città e i suoi demoni. Non conosce mete privilegiate. La stessa Terra Santa è un luogo dove praedicare Verbum, come ovunque e a chiunque. Predicare?
Mostrare piuttosto – e mostrarlo in ogni villaggio che si incontra; ognuno è buono per l’evento, come a Greccio. Nostalgia come dolore dell’andare, nostalgia de loinh, dal sapore anche cavalleresco- provenzale, nostalgia irrefrenabile di andare ovunque esista la possibilità di ascolto, dove vivano creature capaci di cum- laudare, di lodare con lui, insieme, donne, uomini, uccelli e fiori.
Andare per il mondo, andarci nudi, senza resistere al male, donando e per-donando – ecco l’unico imperativo – e andarci a piedi, così da predicare e parlare anche alla Madre più antica. “Andate carissimi” suona la sua costante esortazione, benedite chi vi perseguita e ringraziate chi vi ingiuria. Andate a due a due, poiché chi va da solo va col diavolo. Per andare occorre essere liberi; nessuna zavorra con sé. Anche il fissarsi in dimore, possedere una casa significa arrestarsi nel viaggio. Il viaggio di Francesco non è addomesticabile.
Quando passa per Bologna e sente che vi era stata edificata una casa per i frati comanda loro seccamente che vi escano in fretta e non vi abitino mai più – perfino gli ammalati fa uscire! Alla Porziuncola il popolo di Assisi compie la stessa opera di carità per i frati, ma Francesco si arrampica sul tetto, vuole che i frati vi salgano con lui per gettar giù insieme le lastre di cui quella casa era coperta, volendo distruggerla dalle fondamenta, e desiste dall’impresa solo allorché le guardie lo assicurano che essa era proprietà del Comune. Perfino la cella gli pare una dimora eccessiva. La sua cella era fratello corpo (il corpo è fratello in Francesco, nessuno “spiritualismo” nella sua mistica). Nessun claustrum può trattenerlo né frenarlo. La nostalgia dell’andare rivela una nostalgia di resurrezione. Eremi e celle “minime” nel fitto del bosco sono i luoghi dove ritemprarsi, il cubiculum della sua anima. Ma da lì sempre riprecipita a valle, nelle città e per le strade degli uomini. Sistole e diastole del suo straordinario pellegrinare. Teologicamente l’esperienza francescana del viaggio si sostiene sull’idea biblica di paroikia. Con paroikos, paroikein già la traduzione greca della Bibbia indica il confinante o l’abitare un paese senza esserne cittadino a tutti gli effetti. Paroikia è però quella dello stesso Israele: il “popolo eletto” deve considerare in questa luce la sua esistenza in terra, nella stessa Terra promessa. È Abramo che dice di sé: io sono
paroikos kai parepidemos, nessuna terra è veramente la mia, ovunque soggiorno sono solo di passaggio. Davide ribadisce questa idea: siamo tutti paroikoi al cospetto del Signore, i nostri giorni sulla terra sono un’ombra. Credere di possedere una terra è idolatria.
Il linguaggio neotestamentario assume questo significato del termine, rendendone ancora più violenta, direi, la paradossalità. Pur potendo nel secolo, nell’impero e nella pax augustea, godere di tutti i diritti di cittadinanza, i cristiani si ritengono in essa perfetti paroikoi e ad un tempo si proclamano concives sanctorum et domestici Dei ( Efesini 2,19). Una forma di paroikia quasi prossima all’esilio si combina qui, nella stessa figura, a una forma di cittadinanza tanto perfetta da presagire la stessa cittadinanza celeste, di cui dice Paolo in Filippesi 3,20. Il documento più drammatico di tale tensione è forse la Lettera a Diogneto.
Come si colloca alla luce di questa idea Francesco? È del tutto assente nella sua paroikia ogni accento di estraneità, di xeniteia nei confronti del mondo. In paroikia ciò che per lui vale è anzitutto il para, l’accanto. Egli passa sempre, ma il suo non è un passare-oltre, un oltrepassare, è sempre un farsi-accanto, un approssimarsi. Non è estraneo all’oikos, ma partecipa a tutti. Il cammino di Francesco è un correre verso l’altro. Ogni staticità nella relazione di prossimità viene travolta dalla gioia che dona questo volare all’altro, libero da ogni impedimento. Sono le formidabili immagini dantesche: corre Francesco – alla lotta col padre che lo vuol trattenere, corre Francesco dietro alla sua amata, Madonna Povertà, e dietro a lui corre Bernardo, e correndo gli parve esser tardo. Nessuna pesantezza, nessun spirito di gravità domina più in questa folle corsa. E guai a essere nebulosi quando la si danza!
Ciò che muove questo andare, la sua causa efficiente, è però misericordia. Termine esigentissimo, esente da ogni timbro sentimentale. Il samaritano vede l’uomo massacrato sulla strada e il suo cuore – così dice il termine dell’originale greco – va a pezzi. Il suo cuore viene ferito così come il corpo dell’altro. Una ferita che potrà essere guarita soltanto guarendo la ferita dell’altro. La meta di Francesco non è Santiago o Roma, è la cura di chi chiama, della ferita aperta. Tra tutti i viaggi il più dimenticato, poiché è quello che minaccia lo stesso cuore di chi accorre, è quello che rende più insicuri. Ma l’unico che può aiutarci a guarire dall’insaziabile amore per noi stessi.
È possibile partecipare prenotandosi sul sito www. cortiledifrancesco. it dove è pubblicato tutto il programma
La Stampa 14.9.17
Stupri, nel 60 % dei casi i colpevoli sono partner o ex
In oltre sei casi su dieci il carnefice è il partner o un ex
Solo il 4,6% degli abusi sessuali è commesso da estranei Ora gli uomini reagiscano e la smettano col bullismo sessista
di Linda Laura Sabbadini
Molti casi di stupro sono al centro della cronaca di questi giorni e non è un caso visto che questo tipo di violenze succedono di più in estate, secondo l’Istat. Nel nostro Paese, 1 milione e 150 mila donne, il 5,4% del totale, hanno subito uno stupro o un tentativo di stupro nel corso della vita.
Numeri agghiaccianti se si considera anche che in tutta Europa le donne che hanno vissuto tali esperienze sono più di 9 milioni. Ne sono vittime le operaie (5,5%), così come le libere professioniste, le imprenditrici o le dirigenti (7,5%); le donne più colte così come quelle con titolo di studio più basso. Non emergono differenze marcate tra le generazioni. Lo subiscono sia le italiane che le straniere, anche se queste ultime di più. Una forma di violenza gravissima, vissuta spesso in solitudine, visto che quasi la metà delle vittime non ne ha parlato con nessuno. Un enorme sommerso, quindi, che l’Istat è riuscito a misurare. Le straniere denunciano di più delle italiane, merito soprattutto delle donne moldave, romene e ucraine che con più frequenza decidono di uscire allo scoperto dopo aver subito violenze da parte di partner della loro stessa nazionalità.
Lo stupro e il tentato stupro lasciano ferite terribili e profonde. Le vittime si sentono peggio in salute rispetto alle altre donne, soffrono di più di insonnia, nausea, disturbi di affaticamento, palpitazioni, depressione. A differenza delle violenze fisiche, sessuali e psicologiche meno gravi, che sono in diminuzione, l’incidenza degli stupri è rimasta sostanzialmente invariata nel tempo, così come quella dei femminicidi. I casi di cui si parla in questi giorni, stupri ad opera di estranei, sono quelli più rari. Se si guardano i dati emerge infatti una realtà sconcertante: la maggioranza degli stupri è opera di partner o ex (62,7%) e solo il 4,6% di estranei; frequenti sono anche quelli ad opera di amici e conoscenti. Il violentatore è spesso una persona che si conosce, che si ama o si è amata.
Il 10% delle donne separate o divorziate ha subito stupro o tentato stupro dal proprio ex. Tra gli eventi scatenanti della violenza da partner, emergono, neanche a dirlo, atti di libertà della donna: la volontà di lasciarlo, di separarsi, il rifiuto ad avere un rapporto sessuale o di fare quello che le viene ordinato. Nella maggioranza dei casi la donna reagisce: urla per paura e dolore, cerca di difendersi, prova a dialogare con il violentatore, cerca di trattenerlo o immobilizzarlo, tenta di chiamare la polizia o addirittura di aggredirlo a sua volta.
È bene che le donne sappiano che è meglio difendersi perché la reazione, nella maggioranza dei casi, ha conseguenze positive, perlomeno così dicono le donne che l’hanno sperimentato. Nonostante nel 17,5% dei casi di stupro da non partner siano presenti altre persone, la peggiore delle violenze avviene in un clima di indifferenza generale. In tre quarti dei casi nessuno interviene. Niente può giustificare questo quadro, men che meno il fatto che una donna possa aver bevuto troppo, essersi messa una minigonna, essere uscita da sola di notte. Nessuno uomo, neanche il suo partner, può permettersi di approfittare di lei o anche solo toccarla contro la sua volontà. La donna non è proprietà del marito o del fidanzato. Nessun uomo può prendere una donna con la forza. Nessun uomo può abusare del suo ruolo di potere, non esiste il consenso della donna di fronte a un’arma e a una divisa. Oltre ad una reazione forte ed indignata delle donne, senza più alcuna tolleranza, serve che vengano allo scoperto sempre più numerosi gli uomini, i tanti, che hanno chiaro quanto sia vile quella forma di bullismo sessista, che parte dall’«ingenua» e condivisa battuta da bar, e slitta spesso, verso derive violente e criminali contro madri, sorelle, figlie «di altri», contro persone che hanno diritto alla libertà e alla sicurezza. Vanno stroncate le premesse, per fermare le estreme conseguenze.
La Stampa 14.9.17
Uomini che non accettano la nostra emancipazione
di Dacia Maraini
Stupri, violenze, femminicidi? Tutte reazioni all’emancipazione femminile: più le donne diventano libere e autonome, più provocano reazioni violente negli uomini che identificano la loro virilità nel possesso, nel dominio, nel potere.
C’è stato un rivolgimento dei ruoli della famiglia, la famiglia è cambiata, le donne hanno acquistato la capacità di scegliere per se stesse, di decidere della propria vita. Questo per molti uomini è insopportabile, diventano matti. Sono uomini apparentemente normali, bravi ragazzi, padri di famiglia, ma non reggono alla perdita del privilegio, del potere. Non reggono allo smacco, alla sconfitta. Non si uccide per amore, si uccide quando si perde qualcosa e non si sopporta di averla perduta.
In fondo, in altro ambito, pensiamo alle lotte terribili tra operai e proprietari, pensiamo alla canzone «Se potessi avere mille lire al mese», a quel tempo in cui lavorare otto ore al giorno era un miraggio. Quelle otto ore sono state una conquista che è costata tante vite. Perché anche lì, in un ambito diverso, era una questione di potere, di privilegio di una parte su un’altra parte.
Per accettare la volontà di autodeterminazione della donna, bisogna essere maturi, razionali, bisogna avere la capacità di adeguarsi, Non sempre gli uomini lo sanno fare. E hanno paura. La violenza nasce sempre dalla paura. La violenza non appartiene alle persone sicure, forti, armoniose, la paura appartiene agli insicuri, ai deboli, ai malati di nervi.
Prima dell’autonomia magari la donna odiava il marito, ma lo sopportava perché fuori dal matrimonio la donna semplicemente non esisteva. Non è che i sentimenti fossero diversi, ma nessuna osava ribellarsi. Magari aveva un amante, magari più di uno. Ma non rompeva il matrimonio. Pensiamo ad Anna Karenina, una donna che si separa dal marito ma poi si butta sotto un treno perché non può restare in vita, perché la società la ostracizza. Pensiamo a Effi Briest, il romanzo di Theodor Fontane, che sostanzialmente racconta la stessa storia.
Lo stupro poi è l’atto di violenza estremo. Simbolicamente è l’aggressione verso la sacralità del ventre della donna, dove nasce la vita, dove nasce il futuro. In guerra era lecito, faceva parte dei diritti del vincitore perché in questo modo si agiva sul futuro della generazione vinta. Tutti coloro che lo compiono, anche inconsapevolmente, fanno questo. Umiliare la donna nel suo potete di procreare.
La cosa che fa ridere - se non fosse tragica - è che tutti gli stupratori si difendono dicendo la stessa cosa, che la donna era consenziente. Se si vanno a studiare i verbali, il copione non cambia. È la loro unica difesa, soprattutto quando, come nel caso che ha visto coinvolti i due carabinieri, ci sono tracce biologiche di un rapporto fisico. Non possono dire che non è vero. Dicono che la donna ci stava. Perché nessuno dice di una persona rapinata che quella era consenziente? Basta pensarci, è la stessa cosa.
Testo raccolto da Laura Anello
il manifesto 14.9.17
La libertà delle donne cuore dello scontro
di Bia Sarasini
È senza fine, lo strazio della violenza contro le donne. Ieri Lucio Marzo, 17 anni, ha confessato di avere ucciso Noemi Durini, 16 anni, scomparsa dal 3 settembre. E ha portato i carabinieri nel luogo dove ne aveva nascosto il corpo, sotto alcuni massi. Sempre ieri, è stato denunciato un tentativo di stupro sulle scale del Campidoglio, a Roma. L’aggressore sarebbe un israeliano. La notte precedente ancora a Roma lo stupro di una ragazza finlandese, da un ragazzo del Bangladesh.
Di qualche giorno fa la denuncia delle ragazze americane a Firenze, appena prima la giovane donna polacca stuprata a Rimini. Lo strazio è infinito, mille connessioni che si allargano come onde, dal punto in cui è stata esercitata la violenza. Avranno conseguenze nelle vite di tutte le persone coinvolte. Penso ai genitori di Noemi, alla madre, che non è riuscita a convincerla che quel ragazzo era violento. Non è servita neanche la denuncia che aveva presentato per ottenere l’allontanamento di quel ragazzo dalla figlia, non era stato preso nessun provvedimento.
Le adolescenti sfidano i genitori, la madre in special modo, come fare a proteggerle senza renderle prigioniere? È una domanda che non ha facili risposte. O meglio. Non le ha oggi. Oggi che le ragazze sono libere, nei paesi come nelle metropoli. Oggi che i divieti e le proibizioni non sono più la regola condivisa.
E la libertà – delle donne, delle ragazze – è il punto geometrico del conflitto. La solidarietà, perfino il dolore, sono pieni di ombre, di dubbi. Perché quelle ragazze sono in giro di notte? Perché si fidano di chiunque? Perché si permettono di andare in giro come se fossero dei ragazzi, dei maschi? Si ipotizza che Noemi sia stata uccisa al culmine di una lite.
Sulla sua pagina facebook l’ultimo post fa pensare. L’immagine è il viso di una donna malmenata, a cui qualcuno tappa la bocca. Il testo comincia cosi: «non è amore se ti fa male». Su instagram il profilo è più esplicito: «Il giorno che alzerai le mani ad una donna, quello sarà il giorno in cui ufficialmente non sarai più un uomo». Aveva capito? È stata punita perché voleva la libertà? Un’azione diretta, un atto di guerriglia individuale, lo definisco. Come lo stupro, le aggressioni sessuali. Tentativi di sottomissione, per mantenere l’ordine patriarcale. Contro tutte queste donne che si permettono di aggirarsi libere per il mondo. E per questo è così difficile ascoltarne la voce, a parte la retorica della vittima, che si rivela sempre più finta. Non è solo l’antico gioco delle donne perbene messe contro quelle per male. Il conflitto è a tutto campo, nelle vite private come nello spazio pubblico, nelle forme inedite della vendetta. Anche nella scena mediatica. Che non vuole lasciare la parola alle donne, alla loro visione.
Quel grande interprete del sentimento medio che è Bruno Vespa l’ha detto senza esitazione a Porta a Porta: «La prima vittima è l’Arma». Il corpo delle donne rimane un pretesto. Usato contro i migranti, per legittimare il razzismo. Occultato di fronte alla “grande onta” della perdita di onore maschile. Eppure le femministe lo dicono da sempre. La violenza, lo stupro sono compiuti da uomini. Giovanissimi e anziani, di qualunque nazionalità, colore, religione. Qualunque divisa indossino. Oggi è tempo di dire di nuovo che le donne sono, siamo, libere. Che stiamo nel mondo. Perché non tornare nelle strade di notte, insieme?
Corriere 14.9.17
Ma qualcosa si deve fare
di Barbara Stefanelli
Davanti ai nostri ragazzi che diventano adulti, ogni volta ci chiediamo che cosa fare. Noi possiamo metterci di traverso. Si chiama «prevenzione primaria». Comincia dai bambini e arriva agli adolescenti, parte nelle case ed entra nelle scuole.
C’ è un ragazzo di 17 anni che — se tutto verrà confermato — lapida una ragazza di 16, poi va e nasconde il corpo nelle campagne, qualche decina di chilometri più a sud, do-ve il Salento si chiude a punta nel Mediterraneo. Lo chiamano «il fidanzatino». Lo chiamano in quel modo che pare affettuoso, ma tanti sanno — sapevano — che è un giovane uomo vio-lento. Noemi ha postato su Facebook e Instagram frasi sull’amore che non è amore «se ti fa male» e sull’uomo che «non è più un uomo dall’istante in cui alza le mani». La madre di Noemi è pure andata a denunciare tutto. Due procedimenti av-viati: uno penale, uno civi-le. Nessun provvedimento cautelare. Ancora una volta, qualcuno dirà che è la cro-naca di una morte annun-ciata. Che non era compli-cato leggere tra le righe, o direttamente nelle righe, la minaccia diventata poi lapi-dazione. In questa storia resteranno due video che hanno incastrato l’assassino e tutt’intorno lo sguardo in-sufficiente di chi, prima, non avrebbe mai immagi-nato una fine così nera. O forse sì, qualcuno tra gli amici avrà anche temuto il peggio: e tuttavia non si è mosso, non è bastato. Re-steranno una madre che ha cercato di alzare lo scudo dell’autorità a protezione di sua figlia e un padre che ha aiutato il figlio a cancellare le tracce. E restiamo noi che, in un rito spaventoso, ci domandiamo — davanti ai nostri ragazzi che diven-tano adulti — che fare. Noi possiamo metterci di tra-verso: si chiama «preven-zione primaria» e comincia dai bambini per arrivare agli adolescenti, parte nelle case ed entra nelle scuole. Non stanchiamoci di ripe-tere — e di dimostrare — che l’amore non ha proprie-tari. Insegniamo alle fem-mine a non scambiare il controllo per attenzione o dedizione, a non farsi lusin-gare dalle ossessioni, a non cedere mai alla richiesta di una prova d’amore e d’e-roismo. E trasmettiamo ai maschi la bellezza e la radi-calità della forza che rico-nosce la libertà, le fragilità, anche il fallimento. L’amore non è una pietra, né un coltello, l’amore non è un colpo di pistola.
Corriere 14.9.17
Firenze, il carabiniere: «Ho fatto tutto quello che decideva il capo»
Le studentesse Usa erano ubriache. Il mistero del Gps
di Fiorenza Sarzanini
FIRENZE «Ho sbagliato, ma ho fatto tutto quello che decideva il capopattuglia Marco Camuffo». È questa la versione consegnata ai pubblici ministeri da Pietro Costa, uno dei due carabinieri accusati di aver violentato insieme al suo superiore le due studentesse statunitensi, una settimana fa a Firenze. E la strategia difensiva appare evidente: sminuire il proprio ruolo, dimostrare di essersi adeguato, anche se poi non può negare di aver avuto con la ragazza un rapporto sessuale. Entrambi i militari lo ammettono, anche se sostengono che «non c’è stata alcuna violenza, si è trattato di un momento di debolezza, perché le ragazze insistevano a invitarci a casa». Dichiarazioni che aprono nuovi e inquietanti interrogativi proprio sulla loro condotta, ma anche su quanto accade di notte durante i servizi di pattuglia.
I numeri di cellulare
Costa racconta di essere stato consapevole che «non era consentito far salire le ragazze in macchina e accompagnarle a casa», e lascia intendere di non aver fatto alcuna obiezione «perché decideva Camuffo». In realtà entrambi sono entrati nella discoteca Flo e si sono intrattenuti con le due ragazze. E poi le hanno accompagnate a casa. Sono riusciti anche a farsi dare il numero di cellulare delle due ragazze, come conferma l’avvocato di Costa Andrea Gallori. Le giovani evidentemente si fidavano, erano rassicurate dal fatto che a scortarle fino alla casa dove abitavano da qualche settimana fossero due uomini in divisa. E invece — questo hanno denunciato — quella disponibilità si è trasformata in un incubo con entrambi i carabinieri «che ci hanno aggredito e violentato».
Alcool oltre la norma
«Non ci eravamo accorti che erano ubriache», sostengono i due carabinieri. Ieri sono stati consegnati i primi risultati delle analisi effettuate sulle ragazze: il loro tasso alcolico era di «rilevante quantità» quattro ore dopo il rapporto sessuale, cioè quando sono state visitate in ospedale. Possibile che i militari — peraltro impiegati proprio nei servizi su strada — non abbiano notato nulla di strano? E in ogni caso, se le ragazze stavano così bene, perché hanno deciso di accompagnarle? Forse perché avevano già deciso di approfittare della situazione? «Le perizie dovranno stabilire quanto gli alcolici abbiano influito sulla lucidità delle due giovani donne», precisa il procuratore Giuseppe Creazzo.
I turni di notte
In attesa dell’esito dei nuovi accertamenti, i magistrati si concentrano su quanto accaduto quella notte. Anche per capire come mai dalla centrale operativa nessuno si sia accorto che la macchina aveva deviato il percorso entrando nella zona che non era di sua competenza e per oltre due ore non aveva dato alcuna indicazione sulla propria posizione. Con l’entrata in vigore delle norme antiterrorismo la maggior parte delle auto in uso alle forze dell’ordine sono dotate di Gps. Possibile che la Fiat Bravo ne fosse sprovvista? Nei prossimi giorni la magistratura militare interrogherà su questo i due carabinieri e i loro colleghi.
Anche per verificare se le soste in discoteca, in particolare alla Flo, e la possibilità di effettuare «deviazioni» non fossero casi isolati e se sia capitato a numerosi altri carabinieri di frequentare il locale anche durante il servizio di pattugliamento notturno.
Corriere 14.9.17
«Niente voto al bilancio se non ci danno ascolto Con Pisapia oltre il 10%»
di Monica Guerzoni
Il leader Mdp: fiducia sulla cittadinanza a costo della crisi
ROMA Bersani e il «mistero» Pisapia. Sarà il leader di «Insieme»? O può ancora sfilarsi? L’ex segretario assicura che le cose sono più semplici di come vengono raccontate: «Stiamo entrando in un altro universo, dove la parola leadership tornerà a essere sinonimo di regia di un collettivo».
Pisapia è l’anti—Renzi?
«Ci stiamo lasciando alle spalle vent’anni scanditi dall’idea dell’uomo solo al comando, per entrare in una fase in cui quel che conta sarà il profilo ideale, culturale e programmatico del soggetto politico. Non può esistere una leadership senza meccanismi di collettivo e partecipazione».
L’ex sindaco è finito nella trappola di Mdp?
«C’è chi lo ha definito riluttante e chi si preoccupa perché non vuole candidarsi. Io invece sostengo che il profilo di Giuliano risponda molto più alla fase che abbiamo davanti e meno a quella che abbiamo alle spalle. Nemmeno Renzi può fare più l’uomo solo al comando, non a caso ora si parla di Gentiloni e Minniti. Qualcosa di profondo sta cambiando».
Molti pensano che «Insieme» non nascerà mai. E lei?
«Per le elezioni avremo raccolto una forza alternativa al Pd e potremo promettere la costruzione di un nuovo soggetto politico. Il processo costituente è lungo. Forse in pochi mesi non arriveremo a un soggetto compiuto, ma nella battaglia elettorale ci saremo e porremo le premesse fondamentali».
Una lista di testimonianza, o puntate alle due cifre?
«Vogliamo un risultato a due cifre. Il sommovimento in corso può darci uno spazio molto ampio se ci mettiamo intelligenza, pazienza, generosità. La riunione con Campo progressista, seppure in embrione, ha riaffermato l’idea di un movimento che ha l’ambizione “gravitazionale” di rivolgersi a energie sopite che sono sia nel civismo e nel centro democratico sia nella sinistra radicale».
L’Ulivo? Si dice che stiate preparando un «giocattolo» per Prodi o per Letta, nel caso Pisapia dovesse sfilarsi...
«Chiacchiere, lasciamo stare. In bersanese dico che stiamo portando l’acqua con le orecchie a un centrosinistra che ha perso un terzo di elettori. Dobbiamo andare nel bosco a riprenderli, al prezzo di una alternativa a un centrosinistra che non ha convinto».
E se il candidato premier fosse Gentiloni?
«Siamo sempre sul politicismo, non si esce dal problema senza correggere la sostanza. Rinviare lo ius soli è un errore drammatico. Mettendolo in un limbo diciamo al figlio di immigrati regolari che va a scuola coi nostri figli “tu non puoi essere italiano per i barconi e per gli stupri”. È una ingiustizia sferzante che semina una roba cattiva, un passaggio che può avere esiti drammatici».
L’alleanza tra Renzi e Alfano è a caro prezzo?
«Ho il sospetto, spero infondato, che tutto l’accrocchio sia tra Sicilia, legge elettorale e ius soli. Per smentirlo basta mettere la fiducia sullo ius soli».
Se è vero che non ci sono i numeri, cade il governo.
«La metterei a costo di verificarlo in Aula, per mostrare al milione di persone in attesa di cittadinanza che almeno mezza Italia è con loro, nel momento in cui il governo mostra un problematico volto securitario per fermare i barconi».
Voterete il def e la legge di bilancio, o no?
«Non vorremmo essere trattati come su voucher e banche. A Gentiloni, se mai ci riceverà, porteremo alcune esigenze da partito di governo».
O le accetta, o tutti a casa?
«Bisogna trovare un equilibrio a partire dal lavoro. Prima torni sulle regole del jobs act che consentono la giungla di tirocini e stage, poi parli di sgravi per i giovani. Gli investimenti sono in drammatica diminuzione e parlo di acqua, condomìni, periferie, Sud. Anche su sanità e fisco drammatizzeremo le proposte che non costano, poi il governo deciderà».
Volete il caos?
«Nessuno vuole il caos, o la Troika, ma non diamo il via libera se non ci sono delle cose. Il nostro voto non basta chiederlo, bisogna volerlo».
C’è un patto tra Renzi e Alfano sulla legge elettorale?
«Andare avanti con questi due moncherini tra Camera e Senato sarebbe una vergogna. Vedo tre strade per la governabilità, comunque togliendo i capilista bloccati. Collegi, sistema tedesco o alla disperata armonizzare le due leggi. Trincerarsi dietro l’Svp è comico».
Lei si candida, Bersani?
«Generosità vuol dire disponibilità a esserci e a non esserci. Il rinnovamento è un valore, ma il giovanilismo non è più digerito».
Corriere 14.9.17
Quella violenza a Firenze e il nuovo volto delle città
di Federico Fubini
Due studentesse americane vengono accompagnate a casa da due carabinieri in una notte di fine estate a Firenze. Poche ore dopo, si presentano al pronto soccorso per farsi curare e presentare una denuncia terribilmente precisa. Dal punto di vista etico è inaccettabile, qualunque sia l’esito delle indagini che adesso faranno il loro corso. Dal punto di vista delle ragazze che partecipano alla vita notturna nelle città italiane, da qualunque Paese provengano, è sconcertante; da venerdì milioni di genitori hanno una ragione di più per non chiudere occhio quando restano a casa da soli. C’è però poi un’altra prospettiva dalla quale guardare a questa vicenda che sta catturando l’attenzione dei media americani. Una visuale che non spiega e ancora meno giustifica l’accaduto, ma ne rivela il contesto. Un reato non avviene mai nel vuoto. Quello di Firenze lascia intravedere come stia cambiando l’Italia in questi anni di ripresa economica e anche come non stia cambiando abbastanza in fretta. Perché tutta questa storia, fin dai minimi dettagli emersi l’altra notte, ricorda cosa è in gioco per il Paese.
Le due ragazze americane hanno accettato il passaggio dei carabinieri per un semplice motivo: non avevano un altro modo per rientrare da sole. Firenze è una di quelle città italiane dove a volte trovare un taxi sembra impossibile e quella notte tutto è iniziato così. In un’area metropolitana di un milione di abitanti, che in alta stagione ospita quasi centomila turisti al giorno solo negli stretti confini comunali, Firenze ha 780 licenze per auto bianche. In ogni singolo momento ce ne sono in circolazione quattrocento al massimo, una ogni tremila persone spesso molto mobili. I tassisti si sono organizzati per coprire le ventiquattro ore, ma il governo locale che concede i permessi non usa le normali tecnologie per controllare che i turni di notte vengano realmente coperti.
Se ai seimila studenti delle decine di università americane a Firenze tutto questo può suonare simpaticamente folkloristico, ecco il resto: questa capitale del turismo globale ha cacciato Uber. Letteralmente. Forse perché i dirigenti dei due grandi sindacati dei tassisti vengono da Firenze (Claudio Giudici di Uritaxi, Roberto Cassigoli di Cgil Taxi), qui chi possiede una licenza appare particolarmente agguerrito. Uber aveva aperto a inizio 2016, ma dopo sei mesi ha gettato la spugna. Gli autisti lo stavano abbandonando: venivano continuamente denunciati dai tassisti alla polizia municipale, che li fermava in servizio, controllava i documenti loro e dei clienti, quasi fossero pericolosi sospetti. Uber a Firenze era sommerso di richieste dei turisti, ma non riusciva a farvi fronte.
Avesse funzionato, alle due americane sarebbe bastato un tocco sullo smartphone per andare a dormire sane e salve. Lo stesso per la finlandese aggredita a Roma pochi giorni dopo. Del resto anche il normale noleggio con conducente non decolla per ragioni, in effetti, molto romane: la delega al governo per dare certezze al settore è arrivata nella legge per la Concorrenza, ma in ritardo di tre anni: dunque morirà incompiuta a fine della legislatura. Nessuno in queste condizioni osa investire in nuove auto a noleggio.
Poi c’è il contesto più ampio. Il matrimonio fra i flussi turistici e le grandi piattaforme tecnologiche sta generando una trasformazione sociale e geografica delle città italiane di cui Firenze è emblematica. Provate a digitare «Florence» sul portale «Home to Go» e per fine settembre vi appariranno 13.926 alloggi in offerta in un comune di 375 mila abitanti. Solo su Airbnb, il colosso californiano della rete, appaiono per Firenze 8.500 possibilità di locazione breve; di queste la netta maggioranza sono interi appartamenti. Stefano Picascia, Antonello Romano e Michela Teobaldi dell’Università di Siena stimano che l’anno scorso il 18% degli appartamenti del centro di Firenze, il 9% di quelli di Venezia, l’8% del vasto centro di Roma e un quarto del centro di Matera erano affittati tramite Airbnb. Quasi tutti turisti di passaggio, sempre per brevissimi periodi.
Dall’anno scorso questa industria pulviscolare dell’accoglienza è cresciuta a Firenze e in Italia almeno un ulteriore 20%, probabilmente molto di più, senza contare le offerte sul web di appartamenti per periodi di mesi come quello che ospitava le due americane. Oggi gli albergatori italiani detestano cordialmente Airbnb come i tassisti Uber. Ma non sorprende che tutto questo accada: in Italia il patrimonio delle famiglie vale quasi nove volte il reddito nazionale di un anno — il multiplo più alto dell’Occidente — questa fortuna è investita per due terzi in immobili, mentre il tasso di occupazione resta il più basso fra le economie avanzate.
Con un Paese bellissimo, il turismo globale e i giganti del web che rendono tutto facile, si sta formando un ceto di italiani che fa quadrare i bilanci familiari grazie agli affitti tramite Airbnb e simili. Non è un male in sé. Ma cambia il volto dei centri urbani, allontana chi ci è nato, genera problemi di sicurezza. Tutto questo fa emergere la nostra stessa impreparazione di fronte alla metamorfosi delle città e l’arretratezza dei costumi di alcuni dei nostri connazionali. La disinvoltura con cui i due carabinieri pensavano di farla franca magari è frutto di un caso infelice, ma fa riflettere.
Fanno riflettere anche certe uscite fuori tempo dei politici. Matteo Salvini della Lega ha provato a insinuare che ci fosse qualcosa di «strano» nella vicenda di Firenze. Il sindaco Dario Nardella ( che poi si è chiarito) se l’è presa con chi vede nella sua città «una Disneyland dello sballo». Purtroppo è più complicato di così. Prima lo capiamo, meglio sapremo dare un ordine a questo caos.
Repubblica 14.9.17
L’asse tra Quirinale e Vaticano blinda la linea Gentiloni-Minniti
di Carmelo Lopapa Paolo Rodari
ROMA. Se non fosse irriverente, si parlerebbe di feeling. E anche consolidato. Non erano necessarie nemmeno le ultime uscite di Papa Francesco e del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sul fenomeno migranti, sulla gestione italiana e internazionale della crisi, per confermare una concordanza di vedute ormai sempre più ampia.
Integrazione, ma con ragionevole capacità di accoglienza, dice il capo dello Stato da Malta, quasi ricalcando per intero il solco tracciato dal Pontefice appena 48 ore prima, di ritorno dal viaggio apostolico in Colombia. Nessun cenno, volutamente, invece al tema dello ius soli, da parte di Mattarella. In nome del principio per cui se il Parlamento parla, il Quirinale tace, capitolo ancora scottante e irrisolto: piena libertà alle Camere.
Sul fenomeno migranti è la “linea della prudenza” a ispirare Francesco. Quella che, come ha detto il Papa, significa domandarsi prima di accogliere: «Quanti posti ho?» Quella che il presidente della Conferenza episcopale italiana Gualtiero Bassetti sintetizza nell’espressione «etica della responsabilità e rispetto della legge». Linea pienamente condivisa dal Colle. In occasione della storica visita del 10 giugno al Quirinale, il Papa aveva già ringraziato l’Italia per quanto sta facendo per gestire la crisi, sottolineando come «poche Nazioni non possono farsene carico interamente » e invocando maggiore cooperazione internazionale.
Da quella posizione Casa Santa Marta non si è discostata. Ed ecco perché è stata apprezzata la difficile mediazione tra emergenza e “dignitosa accoglienza” che il governo Gentiloni ha cercato di mettere in atto con le direttive del ministro dell’Interno Marco Minniti. Ma l’apprezzamento è più ampio nei confronti di un esecutivo che affronta questa difficile fase che precede le elezioni, come dicono Oltretevere, con «mitezza ». In Vaticano ancora ricordano che il premier ha scelto significativamente come prima uscita romana dopo l’incarico la mensa dei poveri di Sant’Egidio.
A luglio l’incontro rimasto per qualche settimana “secretato” tra Gentiloni e Papa Francesco a casa dell’arcivescovo Angelo Becciu, numero due della Segreteria di Stato. Colui che più di altri cura il rapporto con chi governa da questa parte del Tevere. Il tema migranti non è stato al centro di quell’incontro “privato”, è stato detto. Ma nelle settimane seguenti, quando la crisi ha toccato picchi da emergenza, col flusso di sbarchi senza sosta, il capo del Viminale Minniti in più di un’occasione ha raggiunto lo stesso arcivescovo Becciu per uno scambio di vedute. Proprio a ridosso dell’adozione delle direttive che hanno impresso una svolta all’emergenza.
Apprezzamento che, fanno notare, non vuol dire nulla in vista della campagna elettorale imminente. Le più alte gerarchie vaticane non si schiereranno, seguendo l’indirizzo del Pontificato di Francesco in politica. Piuttosto, proprio la Conferenza episcopale si farà sentire sui temi di più stretta attualità, a cominciare proprio da migranti e occupazione. La 48esima Settimana sociale dei cattolici è stata organizzata a Cagliari dal 26 al 29 ottobre sulla “dignità del lavoro”, appunto, con un documento preparatorio firmato da monsignor Filippo Santoro che si offre già come una piattaforma con cui la politica farà i conti.
Ora, se Becciu è figura di riferimento per Palazzo Chigi, quella che cura i rapporti tra Vaticano e Colle è il nuovo presidente della Cei Gualtiero Bassetti. Votato per sostituire Bagnasco anche dall’ala più conservatrice dell’episcopato, è lui che garantisce dentro e fuori la Chiesa una discontinuità rispetto alla linea più aperturista del segretario Nunzio Galatino. Bassetti, dopo l’incontro con Mattarella di giugno, ha sentito diversi vescovi sul territorio. E il loro allarme per i numeri crescenti di richiedenti ospitalità a dispetto dei posti gli ha fatto comprendere la reale necessità della cautela. In questo senso, le parole pronunciate ieri del cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Cei per il servizio della carità, che si dice «meravigliato » per lo stop sullo Ius soli («La politica spesso prende il sopravvento e non permette di ragionare sul serio ») più che una bocciatura sono un invito da parte di uno dei prelati più vicini a Francesco a riflettere ancora per arrivare a una reale integrazione.
Repubblica 14.9.17
Anche il fine vita è sotto scacco al Senato tremila emendamenti
Centristi e destra frenano. Ma il Pd: “Si va avanti”. Tempi stretti, rischia la legge Fiano
di Giovanna Casadio
ROMA. Tremila emendamenti bloccano al Senato il testamento biologico. Dopo il via libera della Camera ad aprile, nella trincea di Palazzo Madama rischia di soccombere anche la legge sul fine vita. I centristi di Ap, la destra e la Lega non sono disposti a dare il via libera, se non si modifica quella parte in cui idratazione e nutrizione artificiale possono essere rifiutati e quindi sospesi.
Ma sono giorni decisivi. Donata Lenzi, che ha condotto in porto il testamento biologico a Montecitorio, oggi in un incontro con i senatori dem chiederà di accelerare: «L’abbiamo approvata alla Camera con una maggioranza di Pd, 5Stelle, Mdp e Sinistra italiana e alcuni voti trasversali. È una legge attesa da anni , che non incide sulle questioni di governo ». E del resto la presidente della commissione sanità del Senato, Emilia De Biasi ha ormai istruito il dossier: «Entro la fine della prossima settimana, se non c’è lo spazio per un accordo che consenta un numero non ostruzionistico di emendamenti, rimetto tutto all’aula». Alza la voce e cerca una intesa che sottragga alla campagna elettorale questa riforma.
A quel punto però spetterebbe al presidente Pietro Grasso e ai capigruppo decidere se, e quando, si va avanti. Il presidente del Pd, Luigi Zanda nel giorno in cui ha dovuto ammettere che per lo ius soli non c’è maggioranza, ha indicato il testamento biologico come una delle priorità. «Zanda ha detto che si voterà la legge sulle Dat, le Disposizioni anticipate di trattamento. Anche come cattodem, ritengo che si sia trovato un buon equilibrio », afferma Rosa Maria Di Giorgi, vice presidente del Senato. C’è però un fronte cattolico intransigente di tutt’altro avviso, che va da Maurizio Sacconi a Roberto Formigoni e Maurizio Gasparri per i quali il testamento biologico è semplicemente eutanasia camuffata e che agita lo spauracchio del “caso Englaro”. Anche Laura Bianconi, capogruppo degli alfaniani, frena. Tuttavia il Pd potrebbe non volere sacrificare sull’altare dell’alleanza con i centristi il testamento biologico. Nell’occhio del ciclone di Palazzo Madama rischia di finire anche la legge Fiano approvata martedì dalla Camera. In teoria, sulla base dei voti espressi a Montecitorio, il testo dovrebbe avere i numeri per passare senza creare molte tensioni nella maggioranza. Ai cui voti si aggiungono quelli di Sinistra italiana. Il problema vero è la mancanza di tempo. Sembra molto difficile pensare che la legge Fiano possa andare in aula prima della nota di aggiornamento del Def e della legge di Stabilità. Il Pd potrebbe chiederne il richiamo in aula. Ma questo nel calderone ribollente di Palazzo Madama potrebbe urtare sensibilità e mettere a rischio la legge. Dunque se ne parlerebbe dopo la Stabilità. Ma con tutte le incertezze politiche che aleggiano nessuno può scommettere su un sì finale.
Il Fatto 14.9.17
I giudici e la strage di Brescia: “Ecco le prove sui neofascisti”
Piazza della Loggia - Per la Cassazione Carlo Maria Maggi fu il mandante oltre ogni ragionevole dubbio. Esecutore materiale l’ex spione Maurizio Tramonte
di Andrea Tornago
Il capo di Ordine Nuovo nel Veneto, Carlo Maria Maggi, l’informatore dei Servizi segreti Maurizio Tramonte. Per la Cassazione, che nel giugno scorso ha reso definitiva la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Milano, non c’è alcun dubbio sulla loro responsabilità nella strage di Piazza della Loggia a Brescia: otto morti e più di cento feriti, il 28 maggio 1974, per l’esplosione di un ordigno collocato in un cestino durante una manifestazione antifascista. Morirono insegnanti, operai, pensionati. Una ferita al cuore per la città di Brescia, che vantava allora il movimento operaio e sindacale più forte d’Italia e per più di una generazione. E una vicenda giudiziaria durata 43 anni, con il rischio fino all’ultimo che anche quella di Piazza Loggia restasse un’altra strage italiana in cerca d’autore. Ma ora, per la giustizia italiana, ci sono delle certezze: il medico veneziano Maggi, capo della formazione estremista veneta Ordine Nuovo, fu l’organizzatore della strage di Brescia, mentre Tramonte, collaboratore del Sid – il Servizio informazioni difesa, così era chiamato allora il servizio segreto militare – non fece nulla per impedirla. “Il compendio probatorio acquisito nei confronti di Maggi – si legge nelle motivazioni della sentenza depositate ieri – non lascia alcuno spazio per dubitare del suo ruolo organizzativo nella strage di Piazza della Loggia”, un ruolo “incontroverso e corroborato dal compendio probatorio acquisito nei giudizi di merito”.
Anche Tramonte, la “fonte Tritone” (con questo nome in codice erano firmate le sue veline) al soldo del controspionaggio militare guidato dal generale piduista Gianadelio Maletti, “aveva conoscenza piena e diretta della fervente attività di riorganizzazione degli ex ordinovisti – scrivono gli ermellini confermando in pieno la sentenza d’appello – della creazione di una struttura clandestina in grado di attuare il piano eversivo elaborato, dell’operatività della stessa in varie città del Nord prima della strage”. Tramonte prese anche parte alle riunioni in cui si parlò dei dettagli operativi della strategia stragista, in particolare “quella del 25 maggio (tre giorni prima della bomba, ndr) nella quale si erano messi a punto i particolari esecutivi della strage ed egli era stato individuato come uno dei possibili esecutori del collocamento dell’ordigno esplosivo nel cestino dei rifiuti”. Nelle informazioni fornite in quei giorni da Tramonte, e condensate nelle informative del maresciallo Luca Felli del Centro di controspionaggio di Padova, non ci sono riferimenti alla strage pianificata per il 28 maggio.
La nota con cui i Servizi militari riportano i dettagli dei preparativi dell’attentato porta la data del 6 luglio 1974, a strage ormai avvenuta. In compenso Tramonte, per i supremi giudici, “era presente in Piazza della Loggia il 28 maggio (riconosciuto in una fotografia sulla base di una perizia della Procura) e ha fornito un alibi falso” per quel giorno. Tutte circostanze che in primo grado nel 2010 e in appello nel 2012 a Brescia erano state valutate diversamente, tanto da indurre la Cassazione ad annullare e rinviare per un nuovo giudizio alla Corte d’appello di Milano a causa di un “ipergarantismo distorsivo della logica e del senso comune” operato, secondo gli ermellini, dai giudici bresciani. Nel 2012 le parti civili, tra cui i famigliari delle vittime, erano stati anche condannati a pagare le spese processuali (anche se in seguito il Consiglio dei ministri aveva deliberato di assumere le spese a carico del governo).
La revisione del processo a Milano, nel 2015, aveva ribaltato quella decisione. Usciti di scena gli altri imputati, mandati assolti (gli ordinovisti Delfo Zorzi e Pino Rauti e il generale dei carabinieri Francesco Delfino) erano rimaste da riesaminare le posizioni di Maggi e Tramonte, condannati all’ergastolo con tre anni di isolamento diurno. Una decisione confermata in pieno dalla Cassazione, che ha rigettato tutti i ricorsi degli imputati pronunciando la parola finale sulla lunga e articolata storia processuale di Piazza Loggia. Quarantatré anni dopo, è un verdetto reso amaro anche dal tempo: Maggi, ormai ottantenne, è agli arresti domiciliari nella sua casa di Venezia e per lui difficilmente si apriranno le porte del carcere.
Il 65enne Tramonte, scomparso pochi giorni prima della sentenza definitiva, è ora detenuto in Portogallo, dov’è stato arrestato dai carabinieri del Ros al termine di una breve fuga. La Corte d’Appello di Lisbona a fine luglio ha dato parere favorevole all’estradizione, ma sul rientro in Italia di Tramonte deve ancora esprimersi definitivamente la Corte Suprema portoghese.
il manifesto 14.9.17
Legge elettorale, il grande freno renziano
La camera tiene la riforma nel calendario di settembre, ma non c'è né un testo né un accordo. Il segretario Pd punta a conservare i due sistemi ritagliati dalla Corte costituzionale (che non potrà intervenire di nuovo prima del voto). Nel frattempo nel partito si salda l'intesa tra Franceschini e Orlando per introdurre il premio di coalizione. In attesa di un rovescio del leader in Sicilia, che nel caso arriverà troppo tardi
di Andrea Fabozzi
Non c’è alcun accordo sulla legge elettorale e la decisione della camera, ieri, di confermare l’esame del testo in aula entro la fine del mese è fumo negli occhi. Anche perché non c’è alcun testo. La mossa serve soprattutto per dare un segno di vita e resistere alla tentazione di spostare tutto al senato, dove non ci sono voti segreti come quello che a giugno ha fatto naufragare l’intesa sul sistema tedesco rivisitato.
La formula con cui la conferenza dei capigruppo ha voluto tenere la legge nel calendario di settembre – «ove concluso l’esame in commissione» – è appena un auspicio. Perché possa realizzarsi in due settimane bisognerebbe: 1) trovare i voti per un testo base, quello firmato Pd-M5S-Fi e impallinato a giugno nel frattempo non va più bene né al Pd né ai grillini; 2) risolvere il pasticcio del Trentino Alto Adige, per il quale l’aula ha stabilito che dovranno valere le stesse regole proporzionali applicate al resto del paese. Per questo i sudtirolesi di Svp minacciano di togliere la fiducia al governo, eppure tornare indietro da un voto dell’assemblea non si può. Si potrebbe rinviare al senato per le correzioni, ma Svp non si fida. E allora – idea del berlusconiano Brunetta – ecco il cavillo: il Trentino potrebbe essere equiparato alle altre regioni solo dalle elezioni successive alle prossime, cioè nel 2023 (e nel frattempo ci si può ripensare). Adesso gli uffici della camera, su mandato della presidente Boldrini, «approfondiranno la questione» per vedere se è possibile prevedere questo rinvio, evidentemente assai sgraziato ma si è già visto di tutto. Compresa un’intera legge elettorale – cioè il vigente Italicum – rinviata nella sua applicazione di oltre un anno dall’approvazione. In ballo non c’è tanto la saldezza della maggioranza (i tre o quattro senatori Svp sono importanti ma non decisivi) quanto la tenuta dell’accordo decennale tra sudtirolesi e Pd che ha fin qui garantito all’alleanza di fare il pieno di parlamentari in Trentino. Il sodalizio, se regge, con il maggioritario può portare a casa anche l’anno prossimo sei senatori su sette e dieci deputati su undici.
Ammesso che si risolvano i nodi tecnici, restano tutti quelli politici. Ed è assai improbabile che a scioglierli possa essere la Corte costituzionale, come si è sentito ieri, in forza di ricorsi nuovi (Besostri al tribunale di Bolzano, Campobasso o Caltanissetta) o vecchi (Besostri attende una decisione a Lecce il 21 settembre, Palumbo il 29 a Messina), perché i tempi della giustizia costituzionale sono assai più lunghi. Nei due precedenti di leggi elettorali bocciate ci sono voluti otto mesi per il Porcellum e undici per l’Italicum dalla rimessione della questione da parte di un tribunale alla decisione della Consulta, tempi che adesso non ci sono (e non c’è ancora, del resto, un’ordinanza). Oltretutto è inverosimile che la Corte costituzionale possa decidere di accelerare bruscamente l’iter per intervenire a comizi elettorali già convocati. Più facile che le due diverse leggi elettorali verso le quali si sta inevitabilmente scivolando possano essere dichiarate incostituzionali quando ormai avranno già prodotto disastri. Ma intanto e a questo che Renzi con ogni evidenza sta puntando. Alimentando, però, il malessere del Pd.
Ieri i ministri Orlando e Franceschini si sono lungamente intrattenuti a colloquio a Montecitorio, il genere di siparietto che si fa per farsi vedere dai cronisti. E lanciare così l’appuntamento di sabato a Roma con il quale Orlando avanzerà una proposta di legge elettorale che contiene il premio alle coalizioni. Una smentita del modello isolazionista (o annessionista) renziano che Franceschini fa sapere di condividere. Peccato che i deputati delle due aree restino una minoranza nei gruppi Pd, a meno che un clamoroso rovescio siciliano finisca con il rimescolare le carte. Improbabile, e per la legge elettorale sarebbe comunque troppo tardi.
l’inerzia gioca per Renzi e per la conservazione del Consultellum sia alla camera che al senato. L’unica novità sarebbe una discesa in campo del governo Gentiloni. «Politicamente una nuova legge è necessaria per dare la prospettiva di un governo stabile», ha detto la ministra Finocchiaro (area Orlando). La capogruppo di Si De Petris la prossima settimana proporrà una risoluzione al senato per interrogare l’esecutivo. La prevede il regolamento, ma è già chiaro che il Pd farà mancare il sostegno.
La Stampa 14.9.17
Orlando: cambiare la legge elettorale anche se i Cinquestelle non ci stanno
“Il Pd è con me: con il Consultellum non ci sarà un governo Alleanza con Bersani e D’Alema, non facciano i gruppettari”
di Andrea Carugati
«È una pura illusione pensare che il Pd possa arrivare al 40% alle politiche: le ultime elezioni comunali hanno dimostrato che non c’è nessuna equivalenza tra chi ha votato Sì al referendum e chi ha poi scelto il Pd. Ed è altrettanto illusorio pensare, come fanno Bersani e D’Alema, di costruire un nuovo centrosinistra contro il Pd. I dati dicono che quando ci dividiamo i nostri elettori restano a casa». Andrea Orlando, ministro della Giustizia e leader della minoranza dem, annuncia la sua battaglia d’autunno con due obiettivi: «Cambiare la legge elettorale con i collegi e il premio alla coalizione e ricostruire il centrosinistra, anche con Mdp».
Obiettivo ambizioso: i rapporti tra i vertici del Pd e gli scissionisti di Mdp sono al minimo storico.
«Io non mi rassegno, e non sono il solo. Di legge elettorale si torna a discutere alla Camera grazie alla nostra iniziativa. E, al di là di un certo conformismo di facciata, sono convinto che la maggioranza dei dirigenti del Pd, e soprattutto del nostro popolo, non si rassegna ad andare al voto con questa legge elettorale che condannerebbe l’Italia a restare per mesi senza un governo sotto l’attacco della speculazione».
Ieri alla Camera lei ha parlato a lungo con Dario Franceschini. Siete uniti in questa battaglia?
«Non abbiamo parlato di questo. Credo che in una parte del gruppo dirigente del Pd ci sia la tentazione di mettere la legge elettorale su un binario morto. Errore gravissimo. Dobbiamo smettere di dire che si cambia solo con il consenso di tutti i partiti, perché è evidente che il M5S non ci sta. Dobbiamo cercare il consenso più largo possibile ma andare avanti comunque. Chi vuole votare con questa legge dovrà metterci la faccia davanti al nostro popolo».
Troverà i numeri dentro il Pd?
«È una battaglia che va oltre le correnti. Sento esponenti renziani come Maurizio Martina e Matteo Richetti che tornano a parlare di centrosinistra. E ovunque si vota, nelle Regioni, si fanno le coalizioni. Ci sarà una pressione esterna del nostro popolo, fondatori dell’Ulivo e del Pd come Prodi e Veltroni non staranno a guardare. Con il proporzionale il Pd dopo il voto avrebbe come unico sbocco l’alleanza con Berlusconi».
Renzi pare intenzionato a lasciare tutto com’è.
«Per anni ha detto che voleva conoscere il governo la sera del voto. Ora rischia di averlo un anno dopo. Un salto mortale».
Renzi può essere il leader che riunisce il centrosinistra?
«Se l’avessi pensato non mi sarei candidato alle primarie. È evidente, però, che Matteo è un leader legittimato. Non si possono accettare veti sulle persone, anche se è necessario confrontarsi con i partner».
C’è chi evoca un ribaltone dentro il Pd dopo una eventuale sconfitta alla regionali in Sicilia. Lei crede che quel voto abbia valore nazionale?
«Con oltre 5 milioni di persone chiamate alle urne mi pare evidente il valore politico del voto. Ma ora penserei a vincere piuttosto che al dopo. Non sono i ribaltoni a sciogliere i nodi che si sono aggrovigliati».
Nel suo centrosinistra c’è anche Alfano?
«Serve una coalizione allargata a sinistra e al centro. Anche a forze moderate che hanno rotto col berlusconismo».
Bersani, ma anche Pisapia, dicono che con Alfano non esiste il centrosinistra.
«Non era questo il ragionamento quando D’Alema fece l’alleanza con Lamberto Dini e Bersani con l’Udc. Ci hanno insegnato che per vincere occorre anche dividere il campo avversario».
I leader di Mdp sostengono che il Pd con Renzi abbia cambiato la sua natura.
«Bersani e D’Alema da leader riformisti si stanno trasformando in gruppettari. Tutta la sinistra degli Anni Novanta non ha contrastato l’austerità e ha pensato alla globalizzazione come l’Eden. È semplicistico pensare che queste contraddizioni si superino solo facendo cadere Renzi. In questa storia ognuno ha una parte di colpa, tutti dobbiamo fare autocritica».
D’Alema come Bertinotti?
«In Sicilia mi pare evidente, hanno l’unico obiettivo di far perdere il Pd».
La legge elettorale potrebbe cambiarla ancora una volta la Consulta?
«Mi pare un errore caricare tutto il peso ancora una volta sui giudici della Corte. Per avere la governabilità non bastano dei ritocchi, deve muoversi il Parlamento».
Il presidente della Commissione Ue Juncker ha aperto all’idea di dotare la Procura europea di poteri antiterrorismo.
«Il terrorismo, quando colpisce, non guarda ai confini nazionali. Questo è un importante riconoscimento della posizione che ha sostenuto l’Italia in questi anni, molto spesso in maniera isolata».
La Stampa 14.9.17
Sistema di voto, la Camera rinvia ancora l’esame
di A.C.
«Pensare che a colpi di ricorsi la Corte costituzionale diventi una vera e propria camera legislativa è un’ipotesi golpista, inaccettabile, assurda». Maurizio Gasparri (Forza Italia) boccia senza appello l’ipotesi- raccontata ieri da La Stampa- di nuovi ricorsi che spingerebbero la Consulta a un nuovo intervento per uniformare le leggi di Camera e Senato.
E tuttavia il lavoro di modifica in corso alla Camera registra una nuova battuta d’arresto. Ieri la riunione dei capigruppo ha stabilito che la riforma andrà in Aula entro la fine di settembre, ma solo se prima sarà concluso il lavoro in commissione Affari costituzionali. Tradotto: in assenza di un accordo tra i principali partiti si va verso un altro rinvio.
In primo luogo c’è da risolvere il problema del sistema di voto del Trentino. Svp ha minacciato di abbandonare la maggioranza se non sarà neutralizzato il voto dell’Aula dello scorso giugno, quando è stato approvato un emendamento che dimezza i deputati per quella regione. Renato Brunetta di Forza Italia ha proposto un “lodo” per far slittare la nuova regola tra due legislature. Ma Svp non si accontenta. Nel Pd resta alta la tensione tra i renziani («Non credo riusciremo a cambiarla», dice Orfini) e l’asse Orlando-Franceschini (si sono visti ieri a Montecitorio) che punta a introdurre il premio di coalizione. Nei prossimi giorni presenteranno una proposta ad hoc in commissione. Probabile una intesa con Forza Italia.
La Stampa 14.9.17
La mannaia dei bersaniani e dalemiani sulla manovra
di Marcello Sorgi
Si annuncia più complicata del previsto la trattativa fra Gentiloni e la sua maggioranza sulla legge di stabilità, delicata e forse ultima scadenza della legislatura in via di chiusura. E non solo perché si svolgerà in clima di campagna elettorale, né perché i tempi sono stretti (entro fine mese il Senato deve approvare la correzione al Def, poi restano un paio di settimane per definire i testi che il Parlamento deve varare entro fine anno), e neppure perché i margini sono assai limitati, come lo stesso premier e il ministro dell’Economia Padoan non si stancano di dire.
La ragione vera per cui stavolta il passaggio è più critico è che Mdp, la formazione bersanian-dalemiana fuoruscita dal Pd, potrebbe decidere di non votare la manovra, al termine di una trattativa usata per dimostrare che Gentiloni non vuole accettare le richieste della sinistra e punta invece ad accontentare le istanze rigoriste di Bruxelles. Non a caso ieri è partito il primo attacco di Roberto Speranza contro il presidente della Commissione europea Juncker, proprio nel giorno in cui aveva espresso, in termini molto elogiativi, la sua gratitudine all’Italia per il contributo dato a cercare una soluzione per il problema dell’immigrazione.
Se davvero, come vuole D’Alema, ma non ancora tutto il gruppo degli scissionisti, Mdp dovesse scegliere per il «no» alla manovra, dopo un tira e molla fatto solo per dimostrare a Pisapia, al contrario più possibilista su una soluzione negoziata, che un accordo è impossibile, a Gentiloni si troverebbe a un bivio. Dovendo scegliere tra una crisi, che sarebbe disastrosa, porterebbe il governo verso l’esercizio provvisorio di bilancio, e pertanto, nelle condizioni attuali dell’Italia, sarebbe da escludere a priori, o rivolgersi a Forza Italia per ottenere un aiuto che difficilmente, in vista delle urne, il partito dell’ex-Cavaliere potrebbe dare, o almeno un aiutino sottobanco, di quelli che tante volte negli ultimi tempi si sono visti al Senato e hanno consentito di far passare provvedimenti altrimenti destinati al fallimento.
Al di là della maggior propensione di Gentiloni a trattare e dell’orientamento finale che Bersani e D’Alema prenderanno non certo domani, colpisce comunque la trasformazione del gruppo dell’ex-segretario del Pd e dell’ex-presidente del consiglio (primo post-comunista ad arrivare a Palazzo Chigi diciannove anni fa) in una sorta di Rifondazione-bis, sul modello del partito di Bertinotti che, dopo qualche indugio, fece cadere Prodi nel ’98, e mancò lo stesso obiettivo nel 2008 solo perché a centrarlo arrivò prima Mastella.
il manifesto 14.9.17
Delrio: stop a Ius soli è un atto di paura. I renziani lo zittiscono subito: sbagli
Pd&Migranti. Sulla manovra Mdp avverte: se Alfano detta la linea noi non reggeremo il moccolo
di Massimo Franchi
Lo stop allo Ius Soli si porta dietro strascichi sia tra i rapporti all’interno della maggioranza che dentro il Pd. Ed è ancora una volta l’ala cattolica fra i Dem a distinguersi sul tema. Ieri le parole più dure sono arrivate dal ministro Graziano Delrio in un’intervista – non a caso – al tg di Tv2000, l’emittente della Cei. Per Delrio il dietrofront del Senato sullo ius soli è «certamente un atto di paura grave. Abbiamo bisogno di non farci dominare dalla paura. Questa – ha aggiunto – è una legge di civiltà e diritti. Uno sguardo diverso verso l’immigrazione significa anche riconoscere ai bambini nati qui i loro diritti». Nonostante un vago riferimento all’impegno «del capogruppo a trovare i voti», il messaggio è chiaro: «Ultimamente – ha proseguito Delrio – è stato creato un clima molto grave, sono state utilizzate parole sbagliate, è stata sparsa benzina: oggi tocca ai migranti, domani può capitare a nemici politici o persone diverse».
Una uscita che ha fatto infuriare i renziani – mentre il capo rimane in silenzio – che evidentemente a Delrio non hanno ancora perdonato il fuorionda in cui criticava il segretario «per non aver fatto neanche una telefonata per evitare la scissione». Tocca all’ineffabile duo di parlamentari Andrea Marcucci e Franco Mirabelli tirare per le orecchie il ministro. “Dispiacciono le parole del Delrio. Il ministro sa bene che per il gruppo del Pd al Senato il provvedimento rimane prioritario e sa altrettanto bene che portarlo in aula in questi giorni avrebbe significato affossarlo perchè non c’erano i numeri».
Dal Nazareno nel frattempo «fonti» si precipitano a sottolineare come «la posizione del Pd sullo ius soli è nota ed è pienamente in sintonia con il governo». Insomma, sull’immigrazione le acque nel Pd si stanno – finalmente – agitando.
Conseguenze allo stop allo Ius Soli potrebbero esserci sulla legge di bilancio che sta per arrivare. La pace con Pisapia infatti non ha fatto abbassare i toni degli esponenti di Mdp contro la sordità del governo alle istanze «da svolta sociale». L’avvertimento lo fa Alfredo D’Attorre: «Se questi sono i frutti avvelenati del rinnovato fidanzamento tra Renzi e Alfano, nessuno può pensare che noi staremo lì a reggere il moccolo. Per Mdp varrà dunque il “liberi tutti”, non saremo corresponsabili di una conclusione insensata della legislatura», avverte.
Repubblica 14.9.17
La politica senza autonomia
di Ezio Mauro
DUNQUE la legge sullo Ius soli non si farà. E così arriva a compimento, per questa fase, quello spostamento di opinione pubblica che lega ormai immigrazione paura e sicurezza, coltivato e concimato da mesi di predicazione dei partiti delle ruspe, senza che la sinistra sapesse opporre una visione diversa del fenomeno, basata sulla realtà dei fatti, mentre il centro rinuncia alla tradizione italiana del solidarismo cristiano, e i Cinquestelle rivelano qui più che mai la loro natura di ibrido politico, con una postura di sinistra e un’anima di destra. Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti, gregarie, con la politica che rinuncia a ogni sua autonomia di giudizio, di indirizzo e di responsabilità rispetto al senso comune dominante.
CI SONO certo differenze di metodo, di linguaggio e di tono, nel panorama politico italiano. Ma non c’è una vera differenza culturale, un’opzione responsabile come quella di Angela Merkel, che guidi un’opinione disorientata invece di inseguirla, come se la politica fosse un fascio di foglie al vento.
Bisogna avere la pazienza di leggere dentro la paura, come fa Ilvo Diamanti. È la nuova cifra dell’epoca. Nasce con ogni evidenza dal passaggio di fase che stiamo vivendo, ben più ampio del fenomeno migratorio: una crisi economica che non è un tunnel da attraversare sperando di rimanere indenni, ma un agente sociale che modifica i percorsi individuali e collettivi, le gerarchie, persino i sentimenti (la nuovissima gelosia del welfare), deformando le aspettative di futuro. Una crisi del lavoro più lunga della bufera finanziaria, che per la prima volta produce in alto e in basso nelle generazioni una vera e propria esclusione sociale, vissuta come l’inedito di una mutilazione della cittadinanza. Un terrorismo che ideologizza la religione riportando gli omicidi rituali nel cuore dell’Europa. Uno scarto tra la dimensione mondiale delle emergenze e lo strumento della politica nazionale, l’unico che il cittadino conosce e a cui è abituato a rivolgersi. Col risultato inevitabile di una crisi della democrazia che lascia scoperti i non garantiti, producendo vuoto nella rappresentanza, solitudine repubblicana, secessione individuale nell’altrove, che è un luogo frequentato ma immaginario della politica.
Tutto questo si riassume nel sentimento impaurito di perdita di controllo del mondo, di mancanza di ogni governo dei fenomeni. È un sentimento da fine d’epoca, quando si smarrisce la fiducia nella storia, si vive ipnotizzati dal male nel mondo, si rifiuta la conoscenza e si respinge la competenza perché si privilegia l’artificiale sul reale e si sceglie istintivamente ciò che è nocivo, come diceva Nietzsche, ci si lascia sedurre da motivazioni senza un fine, in un clima di precarietà comunitaria, crepuscolo politico e decadenza civile facilmente abitato da moderni mostri come la fobia dei vaccini, o da antichi incubi che tornano, come la bomba. Proprio la fusione tra l’angoscia primordiale e il timore del contemporaneo genera la sensazione che stia venendo meno la stessa concezione di progresso, cioè il tentativo di controllare il divenire del mondo, di superare il limite regolandolo, suprema ambizione della modernità, scommessa costante della democrazia. Come se ci accorgessimo che tutta l’impalcatura culturale, istituzionale, politica, diplomatica inventata per tutelare il complesso sistema in cui viviamo non ci protegge più, perché il meccanismo gira a vuoto. La regola democratica non basta a se stessa.
Naturalmente il venir meno della politica ha una conseguenza evidente nel sociale. Il primo effetto dell’indebolimento di governo è l’autorizzazione spontanea a pensare ognuno a se stesso, liberi tutti. Si sta realizzando la profezia della Thatcher sulla società che non esiste, ma non attraverso l’affermazione dell’individuo, bensì col venir meno di ogni spontanea obbligazione di responsabilità generale, da cui nasce l’ultima forma di solitudine, con lo Stato e il cittadino indifferenti l’uno all’altro come una vecchia coppia in crisi, con ogni passione spenta. Ognuno sta solo sul suo pezzo di destino, esclusivamente individuale. In più il ricco per la prima volta può fare a meno del povero, che intanto è già diventato qualcos’altro in attesa di definizione, perché è finito fuori dalla scala sociale, da una autonoma condivisione d’orizzonte che teneva insieme i vincenti e gli sconfitti. Alla fine, sotto i nostri occhi sta mutando lo stesso concetto di libertà, che si privatizza in un nuovo egoismo sociale: sono libero non in quanto sono nel pieno esercizio dei miei diritti di cittadino, ma al contrario sono libero semplicemente perché liberato da ogni dovere sociale, da ogni vincolo con gli altri, da ogni prospettiva comune, verso cui ciascuno può muoversi con le sue forze, i suoi meriti e le sue fortune, ma sapendo di non essere solo.
C’è da stupirsi che l’onda alta delle migrazioni, il ritardo multiculturale italiano, l’esposizione geografica del nostro Paese, l’indifferenza dell’Europa abbiano indirizzato verso i disperati dei barconi questo sentimento smarrito, trasformandolo immediatamente in risentimento? La paura cercava un bersaglio capace di riassumere l’indicibile e l’inconfessabile, cumulandoli. Lo “straniero”, il visitatore, il diverso sono già stati più volte al centro di costruzioni ideologiche, menzogne sociali, istinti trasformati in politica. In questo caso la persona ridotta a corpo, il corpo ridotto a ingombro, l’ingombro ridotto a numero, funzionano alla perfezione. Tutto diventa simbolico, fantasma sociale, incubo politico. La dimensione concreta del fenomeno, la sua governabilità su una scala europea e anche su una scala nazionale, non contano più nulla. Non si fa politica sui migranti, ma sulla loro proiezione simbolica, sul plusvalore prodotto dalla paura.
È chiaro che alle paure la politica deve rispondere, ma restituendo proporzioni corrette al fenomeno, cacciando i fantasmi con la realtà. E la sinistra deve farlo per prima, se è vero quel che diciamo da tempo e che oggi certifica Diamanti, e cioè che l’inquietudine cresce nelle zone più deboli del Paese e nelle parti più fragili della popolazione, con gli immigrati percepiti come un pericolo principalmente da chi ha un basso livello d’istruzione (il 26 per cento di “paura” in più di chi ha un livello alto), e probabilmente da chi vive solo, in piccoli centri, magari non è mai uscito dai confini del Paese e si trova un mondo rovesciato nei giardini sotto casa, senza gli strumenti per padroneggiarlo, senza la costruzione di un contesto dove sistemarlo e senza più la speranza di governarlo. La paura, l’insicurezza non sono necessariamente un fattore di ordine pubblico: spesso in questi casi nascono dal timore della rottura dei fili comunitari di esperienze condivise, che basta per farti sentire risospinto ai margini in casa tua, spossessato, geloso del panorama civico abituale, dei riferimenti consolidati, del deposito di una tradizione comune: una piccola rottura della storia domestica. Su questo disorientamento bisogna chinarsi, raccoglierlo, trovare il bandolo di un percorso per uscirne, emancipando i penultimi dalla paura degli ultimi.
Questo è il modo per non lasciare alla destra le parole dell’ordine e della sicurezza, che sono di tutti, in uno Stato democratico. La sinistra ha un dovere in più, perché deve collegarle al concetto di solidarietà e di integrazione, che viene dalla sua storia, e risponde alla sua natura. Tenere insieme legalità e solidarietà, ordine e integrazione è l’unico modo concreto per garantire davvero sicurezza e combattere la paura. È anche il modo migliore per tutelare la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, invocata a vanvera. Perché era costruita con questi semplici strumenti, non con una ruspa.
Corriere14.9.17
Quelle riforme che complicano i rapporti tra governo e pd
di Massimo Franco
È singolare vedere quante leggi-bandiera il Pd sta consumando in queste settimane; come ha costretto il governo di Paolo Gentiloni a fare zigzag tra ius soli, reato di propaganda fascista e vitalizi dei parlamentari, per evitare di essere intrappolato in questioni di fiducia che farebbero traballare la maggioranza. E come invece sia stata schivata una riforma necessaria come quella del sistema elettorale, con un gioco di sponda oggettivo col Movimento 5 Stelle, Forza Italia e Lega. Il motivo è poco pubblicizzato, perché inconfessabile: nessun leader di partito vuole che dal Parlamento esca una legge tale da far saltare i capilista bloccati.
Una modifica del genere intaccherebbe in profondità il loro potere. La manciata di candidature sicure indicate dalle segreterie, rappresenta il modo più facile per fare eleggere parlamentari fedeli ai vertici; e dunque per avere una massa di voti da far pesare nelle trattative di governo dopo le Politiche del 2018. Il timore è che qualunque testo possa essere cambiato dalle Camere con modifiche impreviste e indigeste. Dunque, si preferisce parlare d’altro, presentando come prioritari provvedimenti che magari finiranno nel nulla. Dire che è necessario l’accordo tra tutte le forze che hanno tentato la trattativa prima dell’estate, significa lasciare le cose come stanno.
Il problema è che i sistemi emersi dalle sentenze della Corte costituzionale non permettono tecnicamente di andare a votare. E dunque, sarà difficile evitare che comunque qualcosa venga fatto. «La legge è necessaria», ribadisce Anna Finocchiaro, ministra per i Rapporti con il Parlamento. «Abbiamo due monconi che hanno ispirazioni diverse e sono diverse nei contenuti». Ieri si è saputo che una nuova bozza potrebbe arrivare nell’aula della Camera entro il mese di settembre.
La Lega preme perché vede nell’allungamento dei tempi anche quello della legislatura: mentre vorrebbe andare alle urne al più presto. «O si fa una legge o si certifica che non ci sono le condizioni», spiega il capogruppo Massimiliano Fedriga. «Ma non si osi utilizzare questa scusa per ritardare le elezioni». La Lega vorrebbe chiudere la partita prima del voto siciliano, nel timore che sulla scia di quel risultato ritorni l’idea delle coalizioni, cara a FI e insidiosa per le ambizioni del segretario, Matteo Salvini.
L’ipotesi è suggestiva ma improbabile. Inserire nel calendario di settembre una delle riforme più divisive significherebbe mettere a rischio la manovra di bilancio fissata a metà ottobre. Al Senato i numeri sono precari. Articolo 1-Mdp garantisce solo un appoggio condizionato. E il rinvio dello ius soli crea un solco tra il ministro Graziano Delrio, che parla di «atto di paura grave», e il Pd che risponde gelidamente. Palazzo Chigi tutto vuole, tranne che aggiungere problemi a quelli già esistenti. Per questo, è più verosimile che la vera partita cominci dopo il voto siciliano del 5 novembre.
La Stampa 14.9.17
Manovra, la difficile trattativa del premier con Pisapia per placare i falchi di Mdp
D’Attorre: non terremo in piedi il governo a qualunque costo
di Fabio Martini
L’altra mattina, nella sede di Mdp, i notabili della “Cosa rossa” riuniti per decidere se proseguire la loro avventura, stavano tutti ascoltando Pier Luigi Bersani, perché è lui il personaggio-chiave di questa operazione: a seconda di dove si sposta lui, salta, o si salda tutto. E ad un certo punto Bersani ha detto: «Non capisco la decontribuzione che si immagina di inserire nella Legge di stabilità per i giovani fino a 29 anni. E quelli di 30?». In quel momento nessuno ha obiettato, ma qualcuno ha pensato dentro di sé al classico «più uno», alla proverbiale retorica di chi alza puntualmente l’asticella, ma per far saltare il banco.
Nella mobile geografia interna alla “Cosa rossa”, con Massimo D’Alema a “sinistra” e Giuliano Pisapia a “destra”, Bersani per ora occupa il centro e dunque ogni sua parola pesa doppio e infatti quella espressione sulla Legge di stabilità ha lasciato tutti col dubbio: cosa faranno i parlamentari di quest’area al momento di votare la Finanziaria? Se, come ha consigliato D’Alema, voterà contro, accadranno due cose molto significative: il governo si ritroverà quasi certamente senza maggioranza; il nuovo movimento a sinistra del Pd assumerà una connotazione massimalista, l’opposto di quel che auspica Pisapia che ancora in queste ore auspica «una sinistra riformista».
Ecco perché sta per aprirsi un capitolo molto delicato, destinato a decidere le sorti sia del governo che della “Cosa rossa”: la trattativa tra il presidente del Consiglio e i vertici dell’area Pisapia per inserire nella Legge di stabilità elementi qualificanti, che consentano alla sinistra di poterla votare. Ecco perché Mdp ha chiesto un incontro al governo, ma per il momento la risposta è stata interlocutoria: né il Presidente del Consiglio né il ministro dell’Economia sono disponibili ad un confronto ritenuto prematuro. Dunque, per il momento ci sarà un incontro con i tecnici.
L’aggrovigliato nodo richiede tempo. Racconta Bruno Tabacci, tra i più vicini a Pisapia: «Dai contatti preliminari che abbiamo avuto, sappiamo che la manovra è ancora in alto mare, sia nei grandi numeri che nelle misure qualificanti. Le nostre proposte si muoveranno di conseguenza». Ma nella galassia Pisapia-Bersani-D’Alema covano due linee, una trattativista e una oltranzista e infatti a Tabacci, si contrappone nettamente Alfredo D’Attorre di Mdp: «Abbiamo dato la nostra disponibilità a una conclusione ordinata della legislatura, ma il Pd ha affossato lo ius soli e rischia di affossare la legge elettorale. Se questi sono i frutti avvelenati del rinnovato fidanzamento tra Renzi e Alfano, nessuno può pensare che noi staremo lì a reggere il moccolo gratis et amore Deo» e dunque per Mdp varrà «il “liberi tutti”, non saremo corresponsabili di una conclusione insensata della legislatura». E dunque se i “duri” alzano il prezzo, la partita è nelle mani del Pd di Renzi e del presidente del Consiglio: quando arriveranno gli emendamenti di sinistra, saranno respinti o esaminati senza pregiudizi? Perché Renzi dovrebbe favorire la ricomposizione del fronte Pisapia-D’Alema? Dice Daniele Marantelli, area Orlando: «Non è il momento dei giochi: Pd e governo cercheranno di fare la migliore Finanziaria possibile, assieme a chi vorrà contribuire». Prevede D’Attorre: «Molto dipenderà da Gentiloni».
Repubblica 14.9.17
Dubbi di Pisapia su Mdp
Per il leader di Campo Progressista l’esecutivo di Paolo Gentiloni non può essere oggetto di “fuoco amico” da parte della sinistra
“Bersani non può dire no a un patto con il Pd”
L’ex sindaco di Milano contrario alla linea del leader scissionista: “Il centrosinistra senza i dem non si può fare”
di Giovanna Casadio Goffredo De Marchis
ROMA. «Il centrosinistra senza il Pd non si può fare, né si può dire che il Pd sia uguale a Forza Italia». Il giorno dopo il conclave rosso, restano i dubbi di Giuliano Pisapia sul rapporto con Mdp. E a Pierluigi Bersani, leader dei demoprogressisti - che ha nelle mani il dossier sulle modifiche alla manovra economica, ha detto l’altro giorno che non si può tirare la corda fino a fare cadere Gentiloni. Modifiche importanti alla manovra sì. Battaglia per spuntarla anche, ma «non irresponsabilità ». Il rapporto con il governo è uno dei nodi irrisolti del matrimonio tra Mdp e Campo progressista. Il più delicato. L’altro è la prospettiva politica e di alleanze di una sinistra che si vuole alternativa ma di governo. «Le questioni cruciali sono ancora tutte aperte»: ha confidato Pisapia. E Bersani, che ha una grande influenza e una leadership naturale su Mdp, è l’interlocutore principale. Un po’ il parafulmine, su cui si scaricano i malumori sia di chi spera di rifare la “ditta” e vuole imbrigliare la leadership di Pisapia, sia di coloro che in Campo progressista si fidano della parola dell’ex segretario dem sullo stop al “fuoco amico” contro Giuliano. Fuoco amico che ieri sembra tornare quando Alfredo D’Attorre ricorda che in verità sarà l’Assemblea costituente a decidere il leader della nuova sinistra, mica è detto che debba essere Pisapia.
Bersani finisce di fatto nel mirino dei “suoi”. Uscendo dal conclave, mentre si stava ancora scrivendo il comunicato e pesando le parole, era stato lui a dichiarare ai cronisti: «Assolutamente sì, il leader è Giuliano». Dall’altro lato l’ex segretario dem si ritrova il pressing di Campo progressista. Che non ha apprezzato la battuta con cui, durante la riunione della riconciliazione, Bersani ha risposto a proposito del senso di responsabilità necessario sulla manovra. «Se proprio ci fosse la Troika alle porte, allora certo voteremmo una fiducia tecnica»: aveva risposto a Pisapia e a Tabacci che gli facevano notare l’importanza della fiducia al governo sulla legge di Bilancio. «Non si può dire semplicemente che il governo Gentiloni fa politiche di destra»: hanno rincarato loro. Insomma strada lunga per una amalgama, mentre la scadenza delle elezioni politiche si avvicina.
Sulla legge elettorale inoltre Pisapia punta a fare asse con la minoranza dem, insistendo per un premio di coalizione e governabilità. Sabato sarà con Andrea Orlando e Carlo Calenda all’assemblea pubblica al centro di via Alibert sul “nuovo centrosinistra”. Ieri Orlando ha incontrato Dario Franceschini, il ministro dei Beni culturali, grande elettore di Renzi alle primarie, che è sulla stessa lunghezza d’onda in fatto di legge elettorale che favorisca appunto le coalizioni. Legge elettorale la cui discussione nell’aula di Montecitorio è prevista entro questo mese. Sul premio di coalizione Bersani e Mdp invece appaiono freddi. Si rinnovano antichi dissapori. Tra gli orlandiani circola un retroscena sull’elezione del presidente della Repubblica nel 2015. «Bersani venne messo al corrente che c’era una apertura di Berlusconi sul nome di Anna Finocchiaro, lunga militanza dal Pci al Pd, ma ritenuta sopra le parti. Bersani la bocciò subito, affermando che preferiva un democristiano di sinistra a una comunista di destra», raccontano.
Repubblica 14.9.17
Letta-D’Alema, c’eravamo tanto amati
di Alessandra Longo
C’È qualcuno che rimpiange Massimo D’Alema e lo dice apertamente. Approfittando della presentazione romana di «Operazione Levante», uno spy thriller di Gianni Petrella che parla della guerra in Siria, Gianni Letta fa quasi una dichiarazione d’amore al suo avversario, accanto a lui sul palco: «In questo contesto internazionale così difficile l’Europa appare silente, muta, poco considerata. Sarebbe stato meglio affidare la sua voce all’autorevolezza di Massimo D’Alema. Il suo prestigio personale, la sua storia, la sua esperienza, sono beni da conservare, non da rottamare ». Mogherini prendi e porta a casa. D’Alema ricambia con calore: «Grazie presidente per le parole affettuose. Io e te a suo tempo ci siamo occupati di servizi segreti in parallelo. Tu al governo, io come presidente del comitato parlamentare di controllo. Un esempio irripetibile di rapporti tra maggioranza e opposizione. Eravamo quasi sempre d’accordo».
il manifesto 14.9.17
Contro la propaganda fascista non serve un’altra legge
Antifa. La legge Fiano è aggiuntiva di norme già salde e efficaci. L’autore è lo stesso della legge sul negazionismo criticata dalla maggioranza degli storici italiani. Una battaglia politica e culturale, una costruzione laboriosa di egemonia sui valori dell’antifascismo, senza scorciatoie giudiziarie che possono rivelarsi un boomerang
di Gianpasquale Santomassimo
Negli scampoli di una legislatura particolarmente infelice un parlamento che rinuncia ad approvare una norma di elementare civiltà come lo ius soli trova il tempo per approvare – non sappiamo se in forma definitiva – la proposta di legge dell’onorevole Fiano.
Che amplia ed estende la norma già esistente del codice penale concernente «il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista». Il nuovo dispositivo promette reclusione da sei mesi a due anni per «chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità».
IMMAGINO che molti lettori di questo giornale accoglieranno istintivamente con favore un provvedimento di questo tipo. Ma qui vorrei sommessamente evidenziare le molte perplessità che la legge suscita. Ci si chiede se era davvero necessario questo provvedimento, in presenza di due solide leggi (Legge Scelba del 1952 e Legge Mancino del 1993) già esistenti sulla materia, ed è lecito e doveroso interrogarsi anche sulle implicazioni che sono insite nella disposizione complessiva, politica e culturale, di chi legifera su questo terreno.
LA LEGGE FIANO non è sostitutiva ma aggiuntiva, pretende di controllare ogni forma di espressione individuale, di pensiero o di gestualità, riconducibili al fascismo. L’autore è lo stesso personaggio che ci ha dato una legge discutibilissima e pericolosa sul «negazionismo», contro la quale si pronunciò la stragrande maggioranza degli storici italiani. Nella vaghezza di quel rinvio a «contenuti propri» (sui quali migliaia di interpreti in tutto il mondo dibattono ancora) sta tutta la sapienza dei legislatori che avevano già prodotto l’Italicum ed altre leggi incostituzionali.
LE CRONACHE giornalistiche parlano di saluti romani, bottiglie di vino, accendini e gadget vari: prendendo alla lettera la legge, dovremmo avere imponenti retate a Predappio, che sicuramente non vedremo. Si noti che l’art.1 della Legge Scelba proibiva già «manifestazioni esteriori di carattere fascista», ma la cosa era sfuggita.
E INFATTI di fronte alla vicenda inquietante di Chioggia il prefetto era intervenuto ordinando lo smantellamento di tutta la propagande fascista dal grottesco «Bagno Dux», a riprova del fatto che le leggi esistono e si possono applicare, senza inventarsene di nuove per esigenze propagandistiche, nei confronti di un elettorato negli ultimi tempi negletto e umiliato con stravolgimenti della Costituzione, per fortuna respinti al mittente dal voto popolare del 4 dicembre.
La pena prevista è aumentata di un terzo «se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici»: non solo quindi ingolfamento dei tribunali quindi, ma anche un massiccio apparato di controllo della rete, abbastanza irrealistico da realizzare e pericoloso nelle sue implicazioni.
MA PROPRIO dalla Costituzione bisognerebbe ripartire, senza dimenticare mai il valore universale e solenne dell’art.21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Così come l’art.18 garantisce la libertà di associazione, vietando però «le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare». Una eccezione, parziale e circoscritta, contenuta anche nella XIIma «disposizione transitoria» della Costituzione, che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Non si fa riferimento al fascismo in generale, ma a una specifica forma di partito, unico, armato e con vocazione totalitaria. A questo quadro di principi si richiamarono le leggi del ’52 e del ’93, e sulla loro base furono sciolti movimenti eversivi di estrema destra con carattere insurrezionale. Questo dovrebbe essere l’equilibrio da mantenere ad ogni costo.
SU QUESTO TERRENO nel corso della Prima Repubblica ci si mosse con estrema prudenza e senso di responsabilità, evitando di perseguire opinioni e comportamenti certamente esecrabili ma che rientravano nella sfera delle garanzie costituzionali.
E AFFIDANDO alla battaglia politica e culturale, alla costruzione laboriosa di egemonia e senso comune, l’impegno per affermare i valori dell’antifascismo, senza imboccare scorciatoie giudiziarie. I politici del tempo erano anche consapevoli che occorreva evitare precedenti molto pericolosi, che potevano aprirsi ad estensioni avventurose. Tanto per capirci, nella Germania Ovest di quel tempo era fuorilegge il partito comunista. Come nell’Europa dell’Est di oggi sono altre le simbologie proibite e perseguite.
Era una saggia preoccupazione che oggi non sembra più condivisa da una sinistra liberal che in Occidente tende a perseguire penalmente tutte le opinioni che contrastano con la sua visione del mondo, nella politica, nella biopolitica, nel costume. Senza rendersi conto che il vento può cambiare e si può rimanere a propria volta vittime di provvedimenti persecutori.
La Stampa 14.9.17
L’Europa non deve limitare la libertà di movimento
di Vladimiro Zagrebelsky
Il Regno Unito ha deciso con referendum di lasciare l’Unione europea, di cui è Stato membro fin dal 1973. La questione resta contrastata, non solo per il ridotto scarto di voti. Critiche al modo di gestire l’uscita sono rivolte al governo May dall’interno stesso del suo partito conservatore. La linea dei Laburisti è difficilmente identificabile. Le trattative con l’Unione non sembrano procedere utilmente. In questa situazione di stallo interviene ora l’ex-premier Blair, il quale rileva che motivo determinante del successo dei brexiters è stato il rifiuto dell’arrivo degli stranieri, siano essi provenienti da Paesi dell’Unione, siano invece di origine extra-comunitaria. Se questo è il motivo determinante per gli elettori favorevoli all’uscita, Blair e la sua fondazione propongono di rimuoverlo. Si tratterebbe di ottenere dall’Unione forti limitazioni alla libertà di circolazione, autorizzando il Regno Unito tra l’altro a condizionare l’arrivo di cittadini europei al possesso preventivo di un contratto di lavoro, a limitare il godimento di diritti sociali, a scegliere certe categorie di lavoratori necessari al Regno Unito, a indurre le Università britanniche ad applicare più elevati costi agli studenti europei e a introdurre una clausola per ammettere in situazioni eccezionali il blocco degli arrivi.
Rimossa la preoccupazione degli elettori favorevoli all’uscita dall’Unione, il Regno Unito potrebbe, secondo Blair, rimanere nell’area europea di libero scambio economico (secondo il prevalente desiderio degli operatori economici e finanziari britannici). Il peso politico di Blair e le sue relazioni consigliano di non sottovalutare l’iniziativa.
L’Unione europea non è solo un grande spazio di libera circolazione di merci, servizi e capitali. Non è soltanto un mercato comune. Lo sviluppo delle istituzioni europee ha ripreso il cuore del progetto politico dei fondatori, designando l’Unione nei trattati istitutivi come «uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone» e stabilendo che i cittadini degli Stati membri siano titolari anche della cittadinanza dell’Unione. La cittadinanza europea ha ancora contenuti concreti limitati, ma non avrebbe senso se non fosse accompagnata dal diritto di muoversi, trasferirsi, attraversare i vecchi confini, sentirsi a casa ovunque nel territorio dell’Unione. E infatti la libera circolazione delle persone nell’ambito dell’Unione è un elemento essenziale tra i principi fondativi, che si accompagnano storicamente alla progressiva armonizzazione dei diritti civili e sociali nell’area europea. Se all’origine delle istituzioni comuni europee si pensava soprattutto ad assicurare la libertà di movimento dei lavoratori, ora si tratta di una libertà che riguarda le persone in quanto tali. Lo scambio di studenti ne è importante aspetto. Recenti controlli dei movimenti interni all’Unione, motivati da esigenze di lotta al terrorismo e di controllo di migranti di provenienza extra-comunitaria, hanno natura eccezionale e temporanea e non mettono in discussione il principio della libertà di circolazione di cui sono titolari i cittadini europei. Il presidente Macron, pochi giorni orsono ha pronunciato, nel luogo stesso della democrazia ateniese, un forte discorso di rilancio e riforma dell’Unione. Egli ha richiamato la necessità di rivendicare la sovranità, da sviluppare «nell’Europa e dall’Europa», rifiutando di lasciare questa parola ai cosiddetti sovranisti statalisti. Il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza comporta la libertà di movimento, che rispecchia un evidente carattere della sovranità dell’Unione.
È naturalmente difficile prevedere se lo schema disegnato da Blair, se accettato dall’Unione, potrebbe superare l’esito del referendum britannico. Esso però implicherebbe la rinuncia a un caposaldo del sistema di norme e valori dell’Unione. Inoltre fornirebbe certo un argomento per altri Paesi membri dell’Unione, per ottenere per sé qualche cosa di simile, su questo o altri aspetti del diritto dell’Unione. I segnali di crisi e disunione sono già troppo forti, per fornire argomenti ai Paesi che lavorano contro l’Unione. Non si dà abbastanza peso alla costituzione di un sottogruppo organizzato di Paesi, quelli detti di Visegrad, che si contrappone all’Unione di cui fa parte. Non c’è, almeno in Italia, abbastanza allarme per le derive antidemocratiche evidenti in Paesi membri come la Polonia o l’Ungheria. Se si accettasse, per il Regno Unito, di rinunciare alla libertà di movimento delle persone, la frana del senso stesso del processo unitario europeo diverrebbe inarrestabile.
Il governo italiano, a differenza soprattutto dei governi tedesco e francese, è silente su troppi, difficili, ma ineludibili temi. Il governo ha una posizione o crede meglio rimanere assente? Nelle trattative con il Regno Unito occorre certo lasciar lavorare la Commissione europea e il suo negoziatore Michel Barnier, ma in generale su troppe questioni fondamentali per la vita dell’Unione il governo non si pronuncia. Prudente opportunismo, mancanza di idee? Blair, prima di render pubblica la sua proposta, ha consultato personalità europee. Dalla stampa britannica risulta abbia incontrato anche Sandro Gozi, sottosegretario con delega agli Affari europei. Sarebbe il caso di aprire un dibattito per capire quale sia la posizione del governo, su questo e su altri aspetti riguardanti la natura e l’avvenire dell’Unione.
il manifesto 14.9.17
Elezioni tedesche, un voto per la Linke contro la bancarotta della civiltà europea
Il 24 settembre si vota in Germania. Un voto di estrema importanza per le sorti di quel Paese e per il futuro dell’Europa. La Germania ha avuto ed avrà un grande peso nelle scelte politiche che l’Europa dovrà affrontare.
In questi anni, purtroppo, questo peso è stato esercitato a sostegno di politiche di austerità che hanno determinato un aumento smisurato delle disuguaglianze e distrutto i sistemi di welfare degli stati membri. Lo stesso processo di integrazione europea è oggi messo in discussione dalle politiche ultraliberiste imposte dalle classi dirigenti tedesche all’intera eurozona.
Le responsabilità di tale disastro sono da ascriversi interamente alle forze politiche che hanno sostenuto in questi anni il governo di Angela Merkel a partire dalla Spd che ha dimostrato nei fatti di condividerne la ricetta economica e finanche quella culturale.
E’ evidente come davanti ad un mondo che sta rapidamente cambiando, segnato da forti spinte nazionaliste e conflittuali la crisi profonda che sta attraversando l’Europa pone enormi problemi anche sul fronte della stabilità.
Basti pensare alle grandi sfide che l’Europa dovrà affrontare a partire da quella migratoria, che sta mettendo a dura prova anche la tenuta morale delle nostre società. Siamo davanti a quella che potremmo definire una vera e propria bancarotta di civiltà in cui i diritti umani ed i valori universali su cui si fondano le costituzioni europee vengono calpestati per dare una risposta securitaria ad un disagio sociale generato dalla crisi economica e dalla speculazione finanziaria avallata dai governi europei con in testa quello tedesco.
In Germania solo la Linke ha saputo tenere aperta un’altra prospettiva per il proprio Paese e per l’Europa. Lo ha fatto con coerenza e con coraggio, come quando ha sostenuto la candidatura di Alexis Tsipras a Presidente della Commissione Europea in controtendenza con le scelte sciagurate fatte dalla Europa e dalla Germania nei confronti della Grecia.
La Linke si batte per un’altra idea di società in Germania e in Europa. È per questo che noi auspichiamo che la Linke possa avere nelle prossime elezioni del 24 settembre una significativa affermazione restituendo a tutta l’Europa una speranza di cambiamento.
Maurizio Acerbo, Fabio Amato, Fausto Bertinotti, Giuseppe Caccia, Loris Caruso, Luciana Castellina, Sergio Cofferati, Marco Consolo, Paolo Cento, Paolo Ciofi, Elisa Corridoni, Celeste Costantino, Angelo d’Orsi, Peppe De Cristoforo, Elettra Deiana, Loredana De Petris, Laura Di Lucia Coletti, Piero Di Siena, Anna Falcone, Roberta Fantozzi, Stefano Fassina, Paolo Ferrero, Enrico Flamini, Eleonora Forenza, Nicola Fratoianni, Stefano Galieni, Marco Gelmini, Alfonso Gianni, Claudio Grassi, Susanna Kuby, Cathy La Torre, Laura Lauri, Guido Liguori, Ezio Locatelli, Curzio Maltese, Giorgio Marasa’, Giulio Marcon, Loredana Marino, Lorenzo Marsili, Graziella Mascia, Giovanni Mazzetti, Sandro Medici, Lidia Menapace, Tomaso Montanari, Roberto Morea, Roberto Musacchio, Fabio Mussi, Paola Natalicchio, Erasmo Palazzotto, Luigi Pandolfi, Gabriele Pastrello, Tonino Perna, Alessia Petraglia, Riccardo Petrella, Elisabetta Piccolotti, Claudia Pratelli, Sara Prestianni, Michele Prospero, Andrea Ranieri, Claudio Riccio, Rosa Rinaldi, Marco Revelli, Giulia Rodano, Antonia Romano, Giovanni Russo Spena, Bia Sarasini, Enzo Scandurra, Raffele Tecce, Massimo Torelli, Vincenzo Vita
Corriere 14.9.17
La richiesta polacca dei danni di guerra: manicheismo storico
di Paolo Valentino
Fanatismo morale, manicheismo storico, de-europeizzazione della politica nazionale. Difficile non condividere il giudizio di Piotr Buras, dello European Council on Foreign Relations , di fronte all’ennesimo tentativo del governo polacco di resuscitare l’annosa questione delle riparazioni di guerra dalla Germania, per le perdite subite nel secondo conflitto mondiale. Sollevato in luglio da Jaroslaw Kaczynski, leader del partito di governo e uomo forte della Polonia, il tema è stato ripreso pochi giorni fa dal primo ministro Beata Szydlo, secondo cui il suo Paese «ha il diritto» di chiedere danni di guerra da Berlino. Lunedì, il servizio legale del Parlamento polacco (Bas) ha confermato che esistono basi giuridiche per la richiesta. Il Bas calcola il valore delle perdite subite dalla Polonia in 48 miliardi di dollari, a prezzi del 1939, ma non ha specificato a quanto ammonterebbe a quelli attuali. La possibilità che Varsavia riceva indennizzi da Berlino è prossima allo zero. Nel 1953 la Polonia, allora sotto il regime comunista, rinunciò a ogni futura rivendicazione alle riparazioni, dichiarazione confermata nel 2004 al momento dell’ingresso nella Ue. Il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert, lo ha ricordato, pur riconoscendo le responsabilità della Germania per gli «incredibili crimini» della Seconda guerra mondiale. Perché allora tanta insistenza? La retorica sulle riparazioni è rivolta in primo luogo all’interno, dove Kaczynski da tempo insegue tutte le pulsioni nazionaliste e cerca «vittorie morali», anche a scapito della riconciliazione con un partner fondamentale come la Germania. C’è poi il manicheismo storico, che rifiuta di prendere atto delle complessità della storia: senza le rinunce del 1953 saremmo ripiombati negli errori di Versailles e del primo Dopoguerra, quando l’umiliazione della Germania contribuì all’ascesa di Hitler. Non ultima, c’è la progressiva deriva dall’Europa, che Kaczynski non accetta e non capisce, preferendo la piccola compagnia dei partner di Visegrad.
Repubblica 14.9.17
E ora la Grecia prova a rialzare la testa
L’obiettivo di Tsipras è riproporre alcune misure sociali per recuperare consensi
di Ettore Livini
PIL IN AUMENTO PER DUE TRIMESTRI CONSECUTIVI E CONSUMI PIÙ DINAMICI, MA IL PESO DEL DEBITO É ANCORA INSOSTENIBILE
MILANO. La Grecia, dopo sette anni di crisi, prova timidamente ad alzare la testa e regala una boccata d’ossigeno ad Alexis Tsipras e a Syriza. I segnali della svolta di Atene si stanno moltiplicando in queste settimane: il Pil ellenico è cresciuto per la prima volta dal 2006 per due trimestri consecutivi, chiudendo la prima metà del 2017 con un +0,6%. I consumi (+0,7%) sono tornati a salire dopo aver perso il 25% dal 2009, l’export è balzato del 9,5% e la fiducia delle imprese è ai massimi dal 2008. Una rondine, ovviamente, non fa primavera. Ma la ripresina e la chiusura a luglio dell’ennesimo tormentato accordo con i creditori hanno riacceso nel paese la speranza che il peggio sia ormai alle spalle. «Stiamo voltando pagina – ha confermato il premier – Il 2018 sarà l’anno in cui la crisi andrà definitivamente in archivio». Il governo mira a chiudere entro gennaio l’ultima fase del programma di aiuti. Poi punta – una volta approvate le ultime riforme imposte dai creditori in cambio di 330 miliardi di aiuti – a ottenere la ristrutturazione del debito (decollato a un insostenibile 180% del Pil) e a togliere definitivamente i controlli dei capitali, riportando la Grecia alla normalità. L’obiettivo di Tsipras è chiaro: provare a cavalcare la ripresa per bilanciare la dura politica di tagli imposta alla nazione dal 2015 con alcune misure sociali. E riuscire così a recuperare il terreno perso nei sondaggi prima delle elezioni dell’autunno 2019 quando austerity e Troika – negli auspici di Syriza – dovrebbero essere ormai nel libro dei ricordi. La strada, naturalmente, non è tutta in discesa. Bruxelles ha iniziato a rimettere pressione sulla Grecia, accusata di essere in ritardo sulle riforme già concordate e di frenare gli investimenti stranieri. Due i casi delicati finiti sotto la lente della Ue: la decisione dei canadesi della Eldorado Gold di bloccare lo sviluppo di una miniera d’oro ad Halkidiki per le resistenze dell’esecutivo e il timore che la burocrazia fermi il maxi-progetto da 8 miliardi per lo sviluppo dell’area dell’Elliniko, l’ex aeroporto di Atene.
Tsipras - in svantaggio di 10 punti nei sondaggi rispetto al centrodestra di Nea Demokratia - ha provato a rassicurare Bruxelles: «Faremo le riforme richieste in tempi stretti», ha promesso. Il ministero dell’Energia ha garantito che «in settimana» saranno approvati i permessi di estrazione per il gruppo canadese. Dribblati questi ostacoli e incassato (come spera Atene) il successo di Angela Merkel alle elezioni tedesche, resta solo da sciogliere il nodo dell’Fmi. Washington deciderà entro gennaio se partecipare ancora alla fase finale del salvataggio della Grecia. E il suo pressing potrebbe essere decisivo per ottenere un taglio consistente al debito.
Repubblica 14.9.17
Ankara.
Turchia, basta con Chopin ai funerali Il ministero impone i versi del Corano
La “Marcia funebre” considerata troppo occidentale e non adatta a onorare i martiri caduti in battaglia. I laici accusano: è un ulteriore passo verso l’islamizzazione
di Marco Ansaldo
ISTANBUL. I turchi vanno pazzi per marce, inni, canti patriottici all’ombra della loro bella bandiera rossa con la mezzaluna e la stella. Lo sapeva bene Mozart dedicandogli, in piena epoca ottomana, quella musica rimastagli addosso come un marchio indelebile che è
La marcia turca.
Ma se Wolfgang Amadeus resta nel cuore degli eredi dell’Impero e nei jingle che li accompagnano mentre fanno spesa al centro commerciale, l’amore per i classici ora non tocca più Chopin. Basta
Marcia funebre
durante le cerimonie in memoria dei soldati morti in battaglia. Addio alle note cadenzate del Grande polacco. Al loro posto, dal prossimo caduto, ci sarà la composizione di un celebre musicista ottomano suonata tra i versi del Corano.
Cambia l’approccio, in questa Turchia, anche sulla musica. E quella di Frédéric Chopin è adesso considerata come troppo occidentale per accompagnare i “martiri” caduti in battaglia, troppo straniera perché il suo ritmo forzato risuoni nell’ora in cui le bare coperte dal vessillo sono portate alla sepoltura. Il momento religioso dei funerali, in un Paese musulmano al 99 per cento, deve seguire i dettami della fede corrente, e non essere toccato da note giunte da altri mondi.
La decisione arriva dal ministero degli Interni di Ankara, competente sui militari per quanto riguarda i funerali, ed è stata presa alla fine di un lungo dibattito, anche pubblico. La discussione partì nel 2016, quando ai funerali di un giovane soldato morto nei pressi della città curda i Yuksekova la banda venne messa a tacere da un gruppo di amici del defunto che preferivano canti e versi sacri al posto di una rappresentazione musicale straniera.
Accantonato Chopin, è così iniziata la disputa su quale tipo di musica fosse la più consona alle cerimonie. I nazionalisti prediligevano canti patriottici, ben vicini a raffigurare quel tremendo tributo di sangue che è tuttora, nel sud est dell’Anatolia, la guerra fra l’esercito turco e i guerriglieri curdi. Di altro avviso i fautori del credo islamico, inclini a suoni più mediati ed eterei. La scelta finale è stata un compromesso, e i diversi enti e personalità intervenute, fra cui il Gran Mufti e il Direttore degli Affari religiosi, hanno optato per una composizione che coniugasse entrambe le esigenze: un canto di Mustafa Itri, musicista e poeta ottomano di fine Seicento, e il Segah Tekbir, musica di origine sufi. Il ministero ora mostra di non avere dubbi. La nuova cerimonia, che verrà applicata pure ai funerali di tutti i dipendenti, è «conforme all’etica dei martiri e al loro posto nel cuore della nostra nazione». Non solo, ma contribuisce a recuperare «le radici della nostra civiltà». La modifica appare del tutto in linea con la recente spinta del presidente Recep Tayyip Erdogan al recupero completo delle tradizioni ottomane.
In Turchia la passione per le sette note comincia già da piccoli, nelle scuole. Ogni mattina alle 8.30, in ogni istituto di ordine e grado della Repubblica, docenti, personale non insegnante e alunni sono tutti sull’attenti davanti alla bandiera e alla statua di Ataturk, padre della Turchia moderna, a cantare l’inno nazionale. E quante volte la tv inquadra, prima delle partite della Nazionale, i giocatori con la mano sul cuore e il loro pubblico che sventola con commozione il vessillo rosso.
Le polemiche, però, sono già partite. I laici che compongono l’altra metà del Paese dicono che con questo nuovo passo la Turchia prosegue il suo cammino verso l’islamizzazione. Ora è Chopin a farne le spese, mentre il canto ottomano seguito dalle parole del Corano diventa l’emblema del Paese che cambia.
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La Stampa 14.9.17
Putin spaventa i Baltici
13 mila soldati al confine
La mossa di Putin può essere letta come una provocazione alla Nato
di Monica Perosino
Questa mattina all’alba si apre il primo atto di Zapad-2017, una tra le più grandi esercitazioni militari russe degli ultimi 30 anni, con un imponente sfoggio della capacità operativa di Mosca tra la Bielorussia e l’enclave di Kaliningrad. Circondati dalla forze russe, i Paesi baltici e quelli del blocco Est della Nato sono in apprensione da mesi, così come i comandi dell’Alleanza, che ostentano tranquillità, ma sono «pronti a reagire».
Fino al 20 settembre saranno impegnati nell’esercitazione - denominata Zapad, «Occidente» - 12.700 militari sul confine più orientale della Nato, in una simulazione di un attacco «di un Paese terzo» alla Bielorussia.
Ma ben prima che iniziassero i trasferimenti di truppe verso la base di Barysau, in Bielorussia, o che un singolo caccia decollasse da Kaliningrad, è iniziata quella che il think-tank di Varsavia Centre for Eastern Studies ha definito il «cuore della guerra di informazioni tra la Russia e la Nato». Da settimane si susseguono ipotesi di ogni tipo: si tratta di una mossa intimidatoria; di una prova di forza in pieno clima da nuova Guerra Fredda; del prologo di una guerra contro Lituania e Polonia o il primo passo per l’occupazione ibrida di un Paese amico, come la Bielorussia, sulla falsariga di quanto successo in Crimea nel 2014?
Secondo i dati del ministero della Difesa russo, le esercitazioni vedranno impegnati 7200 militari delle Forze armate di Minsk, 5500 russi, oltre a 70 tra aerei ed elicotteri, 250 carri armati e dieci navi. Le esercitazioni, ha assicurato il capo di Stato maggiore russo Valeri Gherasimov, «sono di routine e di carattere difensivo e non rappresentano una minaccia a terze parti». Ma non tutti sembrano credere alla versione ufficiale, gli attacchi e le «provocazioni» da entrambe le parti non si fermano, con la Svezia che anticipa Zapad con Aurora 17, l’esercitazione più importante negli ultimi 23 anni, con la partecipazione di 19 mila soldati svedesi e di Paesi alleati come Danimarca, Estonia, Francia, Lituania, Norvegia e Stati Uniti. Lo scenario delle manovre è un attacco a sorpresa contro la Svezia. Attacco da un Paese «X», ma guarda caso l’isola di Gotland, armata fino ai denti, è esattamente davanti all’enclave militarizzato di Kalinigrad. Un’altra battaglia si gioca sui numeri: Zapad - secondo le fonti ufficiali - coinvolge 12.700 militari, meno quindi dei 13 mila oltre ai quali è necessario, secondo le norme dell’Osce, invitare osservatori della Nato. Ma il ministro della Difesa lituano, Raimundas Karoblis, avverte che Mosca userebbe le esercitazioni per coprire un potenziamento aggressivo della sua forza militare sul fianco orientale della Nato e che i soldati impegnati «saranno almeno 100.000». Notizia ripresa da «New York Times» e «Washington Post».
«Tradizionalmente le operazioni militari di Mosca - spiega Marco Di Liddo, analista del Centro Studi internazionali di Roma - hanno un duplice scopo: quello interno per dimostrare i progressi bellici ai russi e quello internazionale per dimostrare le capacità belliche russe». Il timore dei Paesi Baltici è naturale, «ma Putin non è un pazzo e non attaccherebbe mai un Paese Nato». Per Di Liddo, Zapad è più che altro uno sfoggio di potenza, mentre «la vera preoccupazione è ora la cyberguerra: la parità strategica è importante, ma conta davvero chi ha gli hacker migliori».
La Stampa 14.9.17
Il riscaldamento globale trasforma la Russia in superpotenza agricola
Clima più mite, le terre del Nord diventano campi di grano
di Giuseppe Agliastro
L’economia russa si basa principalmente sulla vendita di gas e petrolio: ciò la rende pericolosamente fragile e legata a doppio filo all’andamento del prezzo del greggio, che negli ultimi anni è calato notevolmente trascinando a fondo con sé anche il rublo. Del resto, a parte le armi, la Russia esporta nel mondo davvero pochi prodotti finiti. L’agricoltura rappresenta invece appena il 4% del Pil. Ma ha un fiore all’occhiello: i cereali. E una serie di fattori - tra cui non ultimo l’aumento delle temperature - stanno portando le esportazioni di frumento russo a livelli da record. Mosca è infatti adesso il primo esportatore di frumento del pianeta: dopo essersi lasciata alle spalle gli Usa, ha sorpassato anche l’Unione europea e si prevede che nel prossimo futuro continui imperterrita su questa strada.
Nell’ultimo anno commerciale (luglio 2016-giugno 2017), la Russia ha esportato qualcosa come 27,8 milioni di tonnellate di frumento, e quest’anno - secondo il ministero dell’Agricoltura statunitense - dovrebbe raggiungere i 31,5 milioni puntando ormai al primato in fuga. La produzione nel 2017 dovrebbe toccare invece quota 80 milioni di tonnellate, un altro passo in avanti rispetto agli oltre 73 milioni dello scorso anno.
Ma cosa ha provocato questo boom delle esportazioni di frumento russo? Innanzitutto il riscaldamento globale, che sta estendendo sempre più verso Nord le terre coltivabili. Si calcola che, rispetto alla fine degli Anni 80 del secolo scorso, le temperature nelle aree dell’Europa e dell’Asia coltivate a cereali cresceranno di 1,8 gradi entro il 2020 e di 3,9 gradi entro il 2050. Questo fatto, sommato allo sviluppo tecnologico, dovrebbe portare in breve - scrive Bloomberg - a sfruttare nuovamente 140 milioni di acri di terra che, dopo il crollo dell’Urss, sono rimasti incolti in Russia, e in minor misura in Ucraina e Kazakistan. A tutto ciò bisogna aggiungere la crescita della popolazione mondiale, che sta accelerando sempre di più il consumo di cereali, aumentato mediamente del 2,8% l’anno tra il 2011 e il 2016.
I cambiamenti climatici stanno però favorendo i russi anche sui rivali americani e australiani, che soffrono sempre di più la mancanza di acqua, mentre Mosca con i suoi produttori è da tempo all’arrembaggio nella conquista dei mercati asiatici, e non solo: il frumento russo sta inondando Nigeria, Bangladesh e Indonesia. E soprattutto sembra aver ormai spodestato gli esportatori americani nel Paese in testa alla classifica degli acquirenti: l’Egitto. La ragione principale è il prezzo del prodotto russo, più basso rispetto a quello dei concorrenti europei e statunitensi: molti dei quali sono stati costretti a investire in frumenti di migliore qualità per diversificare la propria offerta e giustificare il prezzo più elevato.
Se i russi possono vendere a meno è perché hanno costi inferiori: addirittura pari alla metà di quelli che devono sostenere i produttori di Usa e Ue, stando a uno studio della Kansas State University. E questo è dovuto in buona parte anche alla svalutazione del rublo, il cui cambio - tra crollo del petrolio e sanzioni occidentali per la crisi ucraina - è passato in pochi anni da 40 a circa 70 sull’euro. Il prezzo del frumento russo sembra aver seguito la stessa tendenza, passando dai 350 dollari a tonnellata del 2012 agli attuali 180 dollari.
Forse un giorno - sicuramente ancora lontano - si avvererà la profezia del ministro dell’Agricoltura Aleksandr Tkaciòv, e i cereali sostituiranno gli idrocarburi come principale fonte di reddito del Paese. Il Cremlino in realtà, più che sui campi coltivati, punta però sullo sviluppo della scienza e della tecnologia: sono questi i settori indicati un paio di settimane fa da Putin quando ha inaugurato l’anno scolastico in un Forum orientativo per studenti di talento. Ma certo anche la tecnologia potrà (e dovrà) aiutare l’agricoltura e in generale la produzione di cibo. Nonostante le tante dichiarazioni dal sapore autarchico nel pieno della «guerra» delle sanzioni con l’Occidente, la Russia continua a dipendere in larga parte dall’estero per i generi alimentari. E il divieto di acquistarli da Ue e Usa ha contribuito a portare alle stelle un’inflazione che sta rientrando solo ora.
La Stampa 14.9.17
L’inerzia di San Suu Kyi davanti al dramma del popolo rohingya
di Gianni Riotta
«Sono i militari buddisti a stuprare le donne musulmane Rohingya in Myanmar? Impossibile, son troppo brutte». «Una donna buddista farebbe meglio a sposare un cane rabbioso piuttosto che un musulmano». «Voglio congratularmi con gli assassini dell’avvocato musulmano Ko Ni, leader islamico a Yangon: han fatto benissimo!». «Alla Aung San Suu Kyi piace aiutare le bestie bengalesi? Io la fermerò». A pronunciare queste frasi di odio non è un blog razzista, ma Ashin Wirathu, serafico monaco buddista di 49 anni, raccolto in meditazione nel saio color zafferano. Wirathu è l’ispiratore del terrorismo buddista contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Myanmar, l’antica Birmania, guidando il movimento 969 e il gruppo Ma Ba Tha, la cui rivista Aung Zay Yatu proclama fiera «Razza e religione ci divideranno, fino alla fine del mondo».
In Myanmar vivono 53 milioni di persone, in maggioranza buddisti, solo il 4% sono i musulmani Rohingya, un milione e centomila concentrati nello stato di Rakhine che i buddisti chiamano con disprezzo «Bengali». Dopo scontri, violenze e repressioni che hanno portato a 400 morti, il saccheggio e l’incendio di molti villaggi e la fuga in Bangladesh di 140.000 Rohingya (10.000 sono invece i profughi buddisti), il mondo pressa la leader Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana, perché fermi la carneficina. Il focoso giornale inglese «The Guardian» chiede che le venga ritirato il Nobel, ignorando le regole del premio, che, si sgola Olav Njolstad, capo dell’Istituto Nobel, non permettono di revocare i riconoscimenti concessi.
Il prestigio della Aung San Suu Kyi è sporcato da quello che molti chiamano genocidio, razzie orrende condannate da Papa Francesco che in novembre ha in programma una missione a Yangon, capitale del Myanmar, come dal Dalai Lama, capo spirituale del buddismo tibetano, certo che «Il Budda aiuterebbe i musulmani» e dal segretario generale Onu Antonio Guterres, che implora «Catastrofe umanitaria, fermate le violenze». Né il pontefice, né il Dalai Lama, né l’Onu intimidiscono però Wirathu: «Posso spiegarvi perché il Buddha insegna a non molestare una zanzara, ma non posso permettere ai musulmani di conquistarci».
Lo stupore per l’inerzia di Aung San Suu Kyi e lo sconcerto nel vedere monaci buddisti aizzare le torme assetate di sangue sono conseguenza della nostra visione romantica del mondo. I buddisti sono per noi, da sempre, i pacifici bonzi vietnamiti che si immolavano in un rogo per protestare negli anni Sessanta contro la persecuzione della giunta cattolica a Saigon, sono le massime ineffabili del Dalai Lama o la saggezza Zen del delizioso libretto Adelphi «101 storie Zen». La verità è purtroppo, come sempre, più complessa e terribile. L’insegnamento buddista, nella sua millenaria tradizione, propone una fede che condanna la violenza e auspica la tolleranza come strada maestra per l‘illuminazione, eppure la comunità buddista appoggiò il programma militarista e imperialista del Giappone durante la Seconda guerra mondiale, con un precetto pari in ipocrisia al «Dio è con noi» dell’esercito nazista: «È necessario che uno muoia, purché tanti vivano», anche se a morire furono milioni. La durezza della repressione, fisica e spirituale, imposta da Pechino al Tibet dopo l’invasione del 1950, porta a simpatizzare, giustamente, con i pupilli del Dalai Lama eredi dell’ancestrale «Libro tibetano dei Morti». Si dimentica, però, che quando l’Armata popolare cinese entra in Tibet non occupa un Eden di pace e amore ma vallate di sfruttamento terribile, con i servi della gleba costretti a spaccarsi la schiena per ingrassare i monasteri buddisti, come nell’Europa feudale.
Wirathu è detto «La faccia del terrore buddista», Madame Aung San Suu Kyi ne era invece la faccia ammirevole, con la sua grazia, eleganza, la lunga sofferenza per la libertà. Nelle più profonde meditazioni Zen, luce e buio non sono opposti, bene e male si intrecciano e neppure la nobiltà del Buddha resta innocente nel caos della Storia. Se il Nobel nessuno può toglierlo alla Aung San Suu Kyi, carisma e candore sono a rischio. Da qui alla prossima visita di Papa Francesco deve dimostrare di saper proteggere i cittadini musulmani dalla ferocia buddista dei Wirathu in saio.
Corriere 14.9.17
Renzo Piano
«Giocavo con la sabbia dei cantieri
e oggi all’improvviso compio 80 anni
Il regalo più bello? La mia squadra»
di Stefano Bucci
C’è un ricordo nella storia di Renzo Piano, un ricordo molto personale che ha però segnato anche il suo futuro di architetto e che più volte riemerge con forza nel giorno del suo compleanno. Un compleanno importante: oggi l’architetto che ha trasformato il Centre Pompidou-Beaubourg di Parigi (1977) e il nuovo Whitney Museum di New York (2015) compie 80 anni. È quello di un Renzo bambino che gioca tra i mucchi di sabbia, non mucchi di sabbia qualsiasi ma quelli dei cantieri della sua famiglia, una famiglia di costruttori, in una Genova che ancora adesso gli è rimasta nel cuore («Qui sono nato»), anche se da tempo la sede operativa del suo studio, nonostante la storica filiale vista mare di Vesina, sembra essere diventata Parigi, al numero 34 di rue des Archives, in pieno Marais. «C’è una linea diretta — racconta — che non si è mai interrotta e che da quei mucchi di sabbia mi ha guidato fino ai miei cantieri di oggi. È quella del fare bene». Perché, in fondo, l’architetto non ama la teoria, ma la pratica: «Sono come il fornaio che per fare bene il pane deve alzarsi nel cuore della notte e mettersi a lavorare».
Tra un summit per il nuovo Forum della Columbia University di New York e un incontro per definire i tempi di apertura del nuovo Palazzo di Giustizia di Parigi (sei mesi), il più grande d’Europa, Piano si confessa. Che cosa si prova a ottanta anni? «Non riesco ancora a capire come possa essere successo, quello di cui sono invece sicuro è che non mi è mai piaciuto pensare a quello che avevo già fatto ma guardare al futuro, ai miei prossimi progetti».
Certo non pochi, almeno scorrendo l’elenco dei cantieri in corso: l’Academy Museum of Motion Picture di Los Angeles, in pratica il museo degli Oscar; il Centro di chirurgia pediatrica a Entebbe in Uganda (in collaborazione con Emergency); il museo archeologico di Beirut; il Lenfest Center for Arts, il Jerome J. Greene Science Center e il Forum, tutti per la Columbia University a Harlem, New York ; l’École normale supérieure Paris-Saclay; la trasformazione di un’ex centrale elettrica oggi in disarmo, subito alle spalle del Cremlino, due ettari di degrado urbanistico destinati a diventare il nuovo polo artistico-culturale di Mosca. Si aggiunge l’impegno continuo, che ha preso corpo dopo la nomina a senatore a vita, legato al gruppo di lavoro G124 che prende il nome dal numero dell’ufficio di Piano a Palazzo Giustiniani, trasformato in un laboratorio per progettare la riqualificazione delle periferie delle città italiane.
Il passato, quello glorioso contrassegnato dal Pritzker Prize (l’Oscar dell’architettura) nel 1998, Piano sembra volerselo costantemente lasciare alle spalle o piuttosto «farlo diventare parte fondamentale della sua storia di oggi». Bando, dunque, ai rimpianti. Non a caso, tra una riunione e l’altra, Piano cita la parabola della moglie di Loth che si volta indietro e diventa una statua di sale: «Non credo di correre questo rischio, nemmeno il giorno del mio compleanno». Ad aiutarlo anche la sua passione «non per la teoria, ma piuttosto per la pratica quotidiana: so benissimo che il lavoro giornaliero nello studio con i miei ragazzi è la mia forza». E conclude: «Guardare avanti mi tiene in vita».
Oggi Piano festeggerà con loro (oltre che in famiglia): una riunione per dire «che loro sono uno dei regali più belli, perché mi hanno permesso di fare cose splendide». A questo proposito, una piccola curiosità: «Nessuno mi dice mai quanti siano davvero, forse 170 a Parigi, forse un centinaio a Genova, più un altro piccolo gruppo disperso negli altri miei cantieri sparsi per il mondo». Tra le tante cose splendide del suo lavoro Piano cita poi «i piccoli problemi tecnici sui cantieri, ad esempio, una falda d’acqua che si rivela più alta del previsto: sono quei problemi che fanno bella la mia professione». D’altra parte nel suo Giornale di bordo (Passigli, 2005) aveva già scritto: «Ho cominciato dal fare: dal cantiere, dalla ricerca sui materiali, dalla conoscenza dei modi concreti di costruire. Il mio percorso è partito dall’immediatezza della tecnica, per arrivare alla complessità dell’architettura come spazio, espressione, forma».
Solo di passaggio si finisce così a parlare del celebratissimo Centre Pompidou (firmato con l’amico Rogers) che a sua volta ha appena compiuto quarant’anni, edificio che ha cambiato in un colpo solo l’idea di piazza e l’idea di museo fondendole in un’unica identità: «Mi piace però pensare stia lì a guardarmi, che sia qui a sorvegliare il mio lavoro quotidiano, sarà per questo che è l’edificio che amo di più». O almeno quanto la Fondazione Renzo Piano nata nel 2004 «per trasferire l’esperienza di Piano alla prossima generazione di progettisti e promuovere il suo pensiero in architettura, attraverso la didattica, le mostre, l’editoria». In pratica, un laboratorio che mette «a bottega» (con tanto di borse di studio) i giovani architetti.
L’impegno di Renzo Piano sembra guardare appunto ai giovani, invitandoli a dimostrare che «la tradizione del nostro Paese è da sempre fatta da grandi architetti e grandi progetti». E insegnando loro «l’importanza della consapevolezza, soprattutto per quello che riguarda i grandi temi come la fragilità della Terra e delle nostre periferie». Dove «la bella architettura può servire a risolvere i conflitti perché un buon progetto è sempre un gesto di pace, di coesione» (i due nuovi progetti parigini, quello del nuovo Tribunale e di Saclay, toccano appunto due banlieue , la Nord e la Sud, della stessa metropoli). Nel segno di un costante impegno civile: «Fa parte del mio Dna, della mia formazione. Da qui sono nati gli spazi pensati per incontrarsi e crescere, un concetto che arriva dagli anni dei miei studi universitari, ma anche dal patrimonio genetico della mia famiglia». Quello, ancora una volta, dei mucchi di sabbia dove Renzo giocava da bambino.
Lo studio è dunque un «centro del mondo» che non ruba spazio al privato («sono appena andato a visitare il Louvre con mia moglie e il mio figlio più piccolo») dove non ci sono «incontri di lavoro con committenti o con i collaboratori ma seminari aperti dove si affrontano i problemi» (e dove «il più delle volte pranzo»). Quei problemi che sono uno dei lati più intriganti del mestiere di architetto, soprattutto «se si trova il modo di risolverli». Come la capacità di vivere e di capire la realtà che ci circonda: «Il progetto di Entebbe, ad esempio, mi ha fatto toccare con mano la forza umana e il potenziale dell’Africa». E, tanto per ribadire le sue radici di costruttore, sempre sulle stesse rive del Lago Vittoria ha scoperto che «l’argilla che si trova lì è fantastica, simile a quella delle nostre vecchie case, un’argilla capace di isolamento termico perfetto». La buona architettura in una realtà difficile (come Entebbe, Beirut o le periferie) è davvero «una goccia d’ossigeno, una goccia importante ancora più utile se l’ossigeno è scarso».
Per tornare al quotidiano, Renzo Piano avrà pure un segreto per essere Renzo Piano: «Saper prendere le distanze».
Come? «Dopo aver passato la giornata in studio sui miei progetti, cerco di ritagliarmi un momento per me. Esco, non per fare la spesa perché non mi piace, ma per una passeggiata sulla Senna, perché l’acqua mi piace anche se preferisco quella salata alla dolce, e ritrovarmi con me stesso. Così riesco a prendere le distanze e a capire che c’è un mondo fuori. Se non lo facessi mi sentirei davvero vuoto, sarei un vuoto a perdere».
La Stampa 14.9.17
“Ottant’anni e non mi fermo. Siamo ciò che trasmettiamo”
“Il cantiere che più mi è rimasto in mente è Berlino poco dopo la caduta del Muro”
di Andrea Plebe
Nella vita, questa è l’ora della strega», sorride Renzo Piano. «Gli spagnoli la chiamano la “hora bruja”, è quella in cui cambia la luce. La luminosità si attutisce e avanza il crepuscolo. In qualche maniera, è un’ora straordinaria… Come nei quadri di Magritte». Tardo pomeriggio di vigilia nello studio parigino, la pioggia picchia sulle coperture trasparenti sotto le quali ferve un’attività silenziosa, fra riunioni e lavoro al computer. Oggi l’architetto genovese, senatore a vita, compie 80 anni: è sempre in movimento, due giorni fa era a Londra, presto sarà a New York. Sabato scorso è stato consegnato il nuovo Tribunale di Parigi, che entrerà in funzione fra sei mesi, alla Porte de Clichy, la periferia più difficile della capitale francese: 90 aule, giardini pensili, una costruzione che vuole scacciare l’immagine del luogo oscuro: «La giustizia è uno degli strumenti per opporsi alla barbarie, e con questo edificio si feconda anche la banlieue».
Architetto, non si riposerà un po’ neanche il giorno del suo compleanno?
«Plinio diceva Nulla dies sine linea, nessun giorno senza una linea, un’espressione poi ripresa da Paul Klee e con la quale è stata intitolata la mostra al Zentrum che abbiamo realizzato a Berna. Prima di andare a insegnare, ogni mattina, appena alzato, Klee realizzava un’opera».
Lei non ha mai insegnato all’Università, però il trasferimento della conoscenza è uno dei temi che la interessano di più. Da dove nasce?
«Vent’anni fa, ho visitato in Giappone il tempio di Ise, che rappresenta un po’ la metafora del ciclo della vita. Ogni venti anni il tempio, realizzato in legno, con alberi di cedro, secondo particolari tecniche, viene demolito e ricostruito. Tra i venti e i quarant’anni è la stagione in cui impari l’arte di costruirlo, scegliendo gli alberi, tagliandoli… a quaranta hai imparato, e lo costruisci. A 60, insegni agli altri, restituisci quello che hai appreso. Il tempio è una scuola di vita: la durata delle cose sta nella ripetizione del gesto, non nella longevità della materia. Un concetto vagamente folle, per noi occidentali. Attraverso l’attività della Fondazione, che ho voluto realizzare a Genova e ha ormai a dieci anni, dove arrivano studenti da tutto il mondo, cerchiamo di trasferire la conoscenza. Non è un gesto di generosità, direi che è naturale, fisiologico. Dai, ma dai giovani prendi anche, perché portano con sé il senso del futuro. Che la Fondazione sia a Genova non è un caso, lì ci sono le mie origini culturali».
L’insegnamento dell’Università non basta, non è sufficiente?
«L’Università deve dare delle nozioni, degli strumenti, ma oltre una certa età, i 22-23 anni, non serve più dare troppe informazioni. L’unica cosa che serve è l’esempio, e la bottega qui funziona meglio. Io sono un educatore un po’ anomalo. Ai giovani dico: abbiate coraggio, buttatevi, prendete qualche rischio. Osate. E così c’è un momento magico in cui, improvvisamente, scopri con straordinaria sorpresa la scintilla della creatività. Quando realizzai la prima mezza cosa che funzionava, me lo disse mio fratello Ermanno. Ti rendi conto e pensi: l’ho scritta io questa frase, l’ho fatto io questo segno, l’ho composta io questa musica, ho capito io come fare uno sgabello... La scoperta di un talento proprio non è legato soltanto a un lavoro intellettuale o di alto livello, ma a qualsiasi attività umana».
C’è un segreto per tutto questo?
«Il segreto di un lavoro creativo è di saperlo condividere generosamente con gli altri, senza farne la contabilità. Accade ovviamente che l’atto creativo sia un momento solitario, di silenzio, quando dopo aver dibattuto, studiato, cercato, esplorato, ti siedi e sei da solo. Ma viene solo se hai accettato prima questa filosofia importante, che la creatività va condivisa. E questo non è facile insegnarlo a scuola, quindi la bottega funziona meglio».
Qual è stata la sua scuola?
«Praticare il lavoro di gruppo in questa maniera viene da una vita passata così. Io mi sono laureato a Milano nel 1964, i primi anni delle occupazioni universitarie, ben prima del Maggio 68 a Parigi. Il lavoro di gruppo allora era il credo, la filosofia, forse anche troppo. Certo, che se uno che si interroga e basta… Io per fortuna facevo una specie di doppia vita: di giorno lavoravo nello studio di Franco Albini, che era il mio maestro, e di sera occupavo l’Università». Ma c’è un momento ancora precedente».
Quale cantiere le è rimasto nella mente?
«Quello di Berlino, nei prima anni Novanta, era da poco caduto il Muro. Su cinquemila operai, i tedeschi erano cinquecento, tutti gli altri venivano dal resto del mondo. Nel luogo dove si era consumata la più grande intolleranza del XX Secolo, come scrisse Vargas Llosa, tutte queste persone lavoravano insieme. Tanto che con Daniel Barenboim realizzò il famoso balletto delle gru del cantiere che si muovevano al suono della musica».
Corriere 14.9.17
Il prof ai ragazzi: «Cercate la vita Nel latino ce n’è più che sul web»
Un liceo senza latino? Succede allo scientifico di Broni, Pavia, dove quest’anno non c’erano abbastanza iscritti ai corsi che lo prevedono per formare una classe. In Emilia Romagna, invece, l’ufficio scolastico regionale spedisce oggi a tutti i ragazzi della Regione che da domani frequenteranno il primo anno in un liceo che prevede il latino una lettera di Ivano Dionigi, latinista. La pubblichiamo qui.
Cosa dire a te che oggi, tra molte speranze e qualche timore, inizi l’avventura della Scuola superiore? Una gran bella età la tua, che ti spalanca le porte del mondo e del futuro; una gran bella opportunità il Liceo, che ti fa conoscere nuovi professori, nuove amicizie, nuove materie: una in particolare, il latino. Vorrei farti capire i vantaggi che questa lingua ti offre, la dote che ti porta, l’eredità che ti lascia. Il latino ti insegna l’importanza della parola.
Noi oggi parliamo male e abbiamo bisogno di ecologia linguistica. Simili agli abitanti di Babele, rischiamo di non capirci più; vittime di una comunicazione frettolosa, malata e talvolta anche violenta, smarriamo il vero significato delle parole. Il latino, lingua madre del nostro italiano, ci consente di risalire al significato originario delle parole, di riconoscere il loro volto, di ripercorrere la loro storia: perché le parole, come le persone, hanno un’origine, un volto, una storia. A cominciare dalla parola «comunicare» che — derivata dal latino communicare ( cum , «insieme», e munus , «dono», «missione») — significa condividere con gli altri un regalo, un privilegio, una funzione. E alla comunicazione, «arte del parlare» (ars dicendi ), i Romani affidavano il triplice compito di «affascinare» ( delectare ), «insegnare» (docere ), «mobilitare le coscienze» ( movere ). Quello che dovrebbe fare la nostra scuola. Il latino ti insegna il valore della comunità.
In un momento in cui sempre più marcata si fa l’attenzione sull’io a scapito del noi, gioverà la lezione di una lingua e cultura che metteva al centro l’uomo come cittadino ( civis ), che sapeva distinguere e coniugare la città architettonica dei muri e delle mura ( urbs ) con la città della convivenza civile e politica ( civitas ), che ha elaborato e trasmesso i codici sociali ed etici del bene pubblico ( res publica ). Pensiamo anche a parole-chiave quali humanitas , pietas , religio , significati e valori che vanno al di là dei nostri «umanità», «pietà», «religione». Il latino ti insegna la dimensione del tempo. Lingua madre delle lingue neolatine dal Mar Nero all’Atlantico e per oltre venti secoli lingua europea della politica e dell’Impero ( Imperium ), della religione e della Chiesa ( Ecclesia ), della cultura e della scienza ( Studium ), il latino ci mette in relazione con la storia; e ci dice che la cultura, come la vita, è un patrimonio comune e perenne che varca l’oggi e appartiene non solo a noi ma anche ai trapassati e ai nascituri. Forse questa è l’eredità più preziosa, perché oggi tu — connesso con l’immensa Rete del mondo ( www ) — rischi di sperimentare solo la dimensione spaziale e di rimanere schiacciato dall’eterno presente: senza cognizione del tempo, l’unica dimensione che ci consente di conoscerci e di progettare. La lingua e cultura latina ci apre il tempio del tempo e ci fa entrare in quello che sant’Agostino chiamava il palazzo della memoria. Là, in compagnia di Lucrezio, potrai confrontarti con l’uomo cosmico; in compagnia di Cicerone, con l’uomo politico; in compagnia di Seneca, con l’uomo interiore. Soprattutto — e sarà la sorpresa più bella — incontrerai scrittori che parleranno a te e di te, perché interpretano le contraddittorie ragioni del cuore: entusiasmi e delusioni, vittorie e sconfitte, gioie e sofferenze. Che lo studio del latino ti appassioni e ti arricchisca; e che tu in questi cinque anni possa condividere con i tuoi amici e professori la bellezza stupenda e tremenda di quella cosa che chiamiamo vita.
già Magnifico Rettore e direttore del Centro studi «La permanenza del Classico» dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
Corriere 14.9.17
Cattolici e protestanti sempre più vicini
di Danilo Taino
Il prossimo 31 ottobre saranno 500 anni da quando Lutero ha pubblicato le sue 95 tesi sul portone della chiesa del castello di Wittenberg. Era l’inizio della Riforma Protestante che cambiò il corso della storia dell’Occidente: dal punto di vista religioso, sociale, culturale e politico. Seguirono decenni di guerre e secoli di divisioni all’interno del mondo cristiano. Oggi, un doppio studio — uno in America e uno in Europa — del Pew Research Center registra che i cattolici e i protestanti vedono le loro fedi più simili che differenti. In un mondo in cui le divisioni religiose sono tornate a farsi sentire con forza, è interessante notare che cinque secoli dopo lo scisma di Martin Luther permangono differenze ma la tendenza è a visioni della religione e della vita convergenti.
In America, tra i protestanti il 57% ritiene che le due fedi siano simili, contro il 41% che le considera diverse. Tra i cattolici, le percentuali sono rispettivamente del 65 e del 32 . In Europa la situazione è più articolata ma non si discosta dalla tendenza. Tra i protestanti europei, i tedeschi si caratterizzano per essere coloro che sentono meno la differenza: per il 78% le due fedi sono simili, solo per il 19% chiaramente differenti. In Olanda le opinioni si dividono 65% a 28% , in Gran Bretagna 58 a 37 e così via con una predominanza ovunque di chi vede più punti di condivisione che di dissenso. Lo stesso vale per i cattolici del Vecchio Continente, con l’eccezione di quelli britannici che 45-41 vedono più divisione che unità. In Olanda, Austria, Svizzera, Germania, tra i cattolici la percezione dell’essere simili è piuttosto netta. In Italia meno: il 47% vede più vicinanze contro il 41% che sottolinea le divergenze. Ancora più interessante è notare le opinioni su come si ottiene la salvezza eterna. Secondo Lutero, attraverso la sola fede. La maggioranza dei protestanti di oggi (con l’eccezione di quelli norvegesi) ritiene invece che la si raggiunga combinando fede e opere di bene, che è sostanzialmente la posizione tradizionale della Chiesa cattolica. C’è però da notare che in Europa sia tra i protestanti che tra i cattolici le persone osservanti sono una minoranza: solo il 14% dei primi e l’ 8% dei secondi dice di partecipare ai servizi religiosi almeno una volta alla settimana. Cinque secoli dopo, possiamo dire che in Occidente le guerre di religione sono finite.
Repubblica 14.9.17
Ezio Mauro porta in Rai le sue “Cronache di una rivoluzione”
Il racconto degli eventi che cambiarono la Russia nel 1917 diventa una trasmissione in onda sul canale dedicato alla Storia
di Raffaella De Santis
Un grande reportage storico, fatto di parole e immagini in cui passato e presente s’intrecciano. A cento anni dalla Rivoluzione russa, continua e si arricchisce il racconto di Ezio Mauro su uno degli avvenimenti cruciali del Novecento. Dopo la serie di articoli ancora in via di pubblicazione sulle pagine del nostro giornale e dopo la webserie su Repubblica Tv, il prossimo passo delle Cronache di una rivoluzione, è un programma ricco di nuovi materiali, firmato dallo stesso Ezio Mauro, che andrà in onda ogni martedì a partire dal prossimo 19 settembre su Rai Storia (ore 21.10). Otto puntate, prodotte da Stand by me (produttore creativo Simona Ercolani), ciascuna della durata di 25 minuti, per ripercorrere con Ezio Mauro gli eventi che portarono al dissolvimento dell’Impero russo e alla presa del potere da parte dei rivoluzionari, dagli ultimi giorni del 1916 alla fine della dinastia dei Romanov nel 1918. «È un reportage dalla storia, un’epopea di sentimenti, conflitti e contraddizioni. Una nuova modalità di narrazione storica », ha detto ieri Silvia Calandrelli, direttrice di Rai Cultura, aprendo la conferenza stampa nella sede Rai di via Mazzini.
Nella prima puntata, Ezio Mauro ripercorre la vita di Rasputin, il monaco nero ritenuto un taumaturgo che conquistò la reggia imperiale. Alle spalle di questo appassionante viaggio nel tempo, che ci porta nei luoghi dove i fatti sono accaduti, c’è un elaborato lavoro di ricerca. Ci sono i libri letti (una bibliografia ricchissima). E c’è soprattutto l’esperienza sul campo di Mauro come corrispondente da Mosca per Repubblica negli anni della perestroika, poco prima della caduta dell’Unione Sovietica: «Ma il mio legame con il Paese è continuato nel tempo. Non ho mai smesso di studiare, di acquistare libri e arricchire il mio archivio», ha detto Mauro. E in merito alle sue Cronache: «Abbiamo semplicemente cercato di fare i cronisti di qualcosa che è successo cento anni fa». Il che ha significato ricostruire i fatti, raccogliere documenti e testimonianze. Di puntata in puntata, Mauro ha reso vivi i dettagli, è entrato nella fabbrica Krasnaja Nit, dove è iniziata la Rivoluzione di febbraio, è andato nella remota stazione di Pskov, dove lo zar pose fine alla sua dinastia, si è recato nei luoghi chiave dell’Ottobre. Il risultato è un grande romanzo popolare che segue il passo dell’indagine giornalistica, mescolando voci attuali, rari filmati d’epoca e materiali di repertorio, tra cui una serie di manifesti sovietici digitalizzati dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Ma il programma Cronache di una rivoluzione, realizzato con la collaborazione di Andrea Felici, Erika Brenna, Tommaso Vecchio, Francesco Fasiolo, Fiammetta Cucurnia (regia di Tommaso Vecchio) è solo una tappa di un progetto crossmediale. In cantiere ci sono anche L’anno del ferro e del fuoco, il libro che uscirà per Feltrinelli il 19 ottobre, e un reading teatrale intitolato I due treni, Lenin e lo Zar che partirà il 4 ottobre a Vicenza per poi toccare varie città italiane.
Dopo i reportage usciti sul nostro giornale, l’indagine adesso continua con un programma in otto puntate ogni martedì
Repubblica 14.9.17
Il Venerdì dedica uno speciale al Che cinquant’anni dopo la sua morte
Parla il biografo del Comandante, Jon Lee Anderson. Con un articolo di Vittorio Zucconi, un’analisi di Aldo Garzia e il ricordo di Régis Debray
«Sì, Ernesto Che Guevara ordinò esecuzioni sommarie e fucilò i suoi avversari. E cosa vi aspettate da un guerrigliero? Quello era un mondo vero, non un mondo iPhone o Facebook, dove la protesta è un clic o un like. Nonostante tutto, è l’archetipo della ribellione e rimarrà il mito del guerrigliero universale per sempre». Nella storia di copertina del Venerdì di Repubblica, domani in edicola, Jon Lee Anderson, autore della più importante biografia dedicata al grande rivoluzionario sudamericano, racconta a Omero Ciai cosa rimane della sua eredità. Questo a 50 anni dall’uccisione del Che, avvenuta in Bolivia nell’ottobre 1957. Ma che cosa si è realizzato in America Latina di quello che aveva progettato il Comandante? Quanto di quelle energie rivoluzionarie è sopravvissuto? Non molto, spiega poche pagine più in là Vittorio Zucconi, in un articolo che analizza l’attualità delle sue iniziative e anche il suo posto nell’immaginario. E mentre lo studioso Aldo Garzia esplora il Guevara economista e intellettuale, autore di libri teorici di grande interesse, sorprendenti e pressoché sconosciuti, il filosofo Régis Debray — che era con il guerrigliero nella giungla boliviana all’epoca della morte, e che fu arrestato e condannato — gli dedica infine un ricordo personale, raccontando cosa gli disse il Che l’ultima volta che lo vide.