Repubblica 12.9.17
Lev Šestov (1866-1938)
Il filosofo russo che fece la rivoluzione dubitando
Si sentiva contemporaneo sia di Dostoevskij che di Tolstoj
Di entrambi condivise i pensieri e le ossessioni. Detestò Stalin
Escono saggi, conversazioni e lettere dell’esistenzialista Lev Šestov
di Pietro Citati
Lev
Šestov nacque il 31 gennaio 1866, a Kiev, da una famiglia ebraica ricca
e rispettata: il suo vero nome era Lev Isaàkovic Švarcman. A Kiev, fin
da giovane, aveva assorbito la tradizione religiosa ebraica: del
giudaismo comprese subito il dramma fondamentale; la fusione, nelle
profondità di ogni uomo, della presenza e dell’assenza di dio. Nei
profeti ebrei, dei quali coltivò specialmente Giobbe, che riteneva un
filosofo superiore a Platone e ad Hegel, ammirò “L’incanto
dell’inquietudine” – la sua ininterrotta, dolorosa ed allegra
inquietudine. In tutta la vita Šestov esaltò la Bibbia contro la Grecia:
sopra tutto contro Platone ed Aristotele: Gerusalemme contro Atene;
così dice il titolo di uno dei sui libri più famosi. Come
Kafka,
pensava che esistono, per noi, due specie di verità, rappresentate
dall’albero della conoscenza del bene e del male e dall’albero della
vita. Nella prima, il bene si distingue dal male: nella seconda il
frutto dell’albero della vita non è altro che la vita stessa, ed ignora
sia il bene che il male.
Šestov si sentiva contemporaneo sia di
Dostoevskij sia di Tolstoj. Di entrambi, ma specialmente di Dostoevskij,
condivise i pensieri e le ossessioni. Il 2 marzo 1910 visitò Tolstoj a
Jasnaja Poljana; e la sua fuga e la sua morte alla stazione di Astapovo
furono la sua fuga e la sua morte. Dopo Dostoevskij e Nietzsche. La
filosofia della tragedia nel 1903 (Aragno, pagg. 58, euro 21), nel 1905
compose Apoteosi della precarietà (Trauben, a cura di Raffaella
Faccionato, pagg. 210, euro 11). A Kiev, nel 1918, disse che la
rivoluzione russa avrebbe spazzato via tutta la filosofia e la
letteratura del passato: compreso lui, Šestov, «se avesse rifiutato di
mettere il proprio talento al suo servizio». Con somma disperazione
della madre fu rivoluzionario dall’età di otto anni: fin quando sulla
scena apparve il “socialismo scientifico”. Detestò Stalin, sebbene meno
di Hitler. Nel 1921 fuggì dalla Russia, e andò a Parigi, dove scrisse i
libri maggiori: in primo luogo Sulla bilancia di Giobbe (Adelphi,
traduzione di Alberto Pescetto, con un saggio di Czeslaw Milosz, pagg.
514, euro 30) e Speculazione e rivelazione (a cura di Glauco Tiengo ed
Enrico Macchetti, Bompiani, pagg. 820, euro 28).
A Parigi visse
con gioia scrivendo e sopra tutto conversando perché, per lui, la
conversazione era una specie di letteratura superiore: non aveva mai
conosciuto cosa fosse la “gioia della scrittura”. Oziò molto: «posseggo
come pochi la capacità di non fare assolutamente nulla». Detestava tutto
ciò che aveva, o sembrava avere, una “stabilità filosofica”: ogni
stabilità e fissità lo spaventava. Era sempre altrove: sempre in fuga
dai sistemi, specialmente da quelli in cui si attardava, sia pure per un
istante. Il modo migliore di filosofare era, per lui, quello di parlare
di sé stessi. Non gli importava ripetersi: diceva una cosa, la
contraddiceva, la ripeteva, la contraddiceva di nuovo; ma quando diceva
la medesima cosa per la centesima volta, essa sembrava nuovissima.
Citava le stesse frasi: dalla Bibbia, da Platone, dai Vangeli, da
Spinoza, da Dostoevskij, giungendo a conclusioni ogni volta diverse.
Pensava
di essere “l’uomo della tragedia” ma era sopra tutto l’uomo
dell’ironia; una ironia che negava in primo luogo sé stessa. Ora,
angosciosamente, cercava Dio: ora solo il rischio e il pericolo – senza
alcun punto di arrivo. Era chiaro ed oscuro: sempre insolito, audace,
sfacciato: rifiutava le cosiddette leggi della saggezza; amava la
distruzione, senza nessun desiderio di costruire. Gli interessava non
ciò che uno scrittore diceva, ma
ciò che avrebbe potuto dire. Come
Rochefoucauld, esaltava l’incostanza. Detestava i perché. Il dubbio era
la sostanza della vita. La filosofia non doveva dare risposte, ma
testimonianze. Pensare significava soffrire, tormentarsi: il contrario
di ciò che aveva scritto Spinoza; «non ridere, non piangere, non
detestare, ma comprendere ». Una volta disse che condivideva le parole
di Amleto: “Il tempo è uscito dai suoi cardini”; ma non cercò mai di
rimettere questi cardini al loro posto.
Gli scrittori supremi
erano, per lui, i presocratici, Giobbe, Pascal, Kierkegaard e
Dostoevskij: i suoi nemici Spinoza, Kant e specialmente Hegel. Di
Tertulliano amò il Credo quia absurdum. La fede era una lotta folle per
la possibilità; e per questo era così sublime. In Dio – soltanto in Dio –
l’impossibile esiste. La libertà non è la possibilità di scegliere tra
bene e male: ma la possibilità stessa. La fede combatte l’etica – la
quale sevizia e tortura l’uomo: essa combatte la ragione, la legge, il
dovere. Dio disubbidisce a qualsiasi principio. Niente esiste veramente:
forse anche ciò che era accaduto avrebbe potuto non essere mai
avvenuto.
Šestov scriveva per sbarazzarsi da i suoi pensieri e da
sé stesso: per annullarsi, sebbene egli fingesse di continuare ad
esistere. Desiderava portare all’estremo il veleno di una lucidità
superiore ad ogni dubbio: in una condizione di discontinuità e
instabilità; mai ortodosso, sempre caustico. Il pensiero era rischio,
provocazione. Di certe cose era possibile scrivere solo indirettamente,
come avevano fatto Pascal, Kierkegaard, Dostoevskij e Nietzsche. Specie
negli ultimi anni, quando compose un bellissimo e divertentissimo libro,
Kierkegaard e la filosofia esistenziale (Bompiani, a cura di Glauco
Tiengo ed Enrico Macchetti, pagg. 760, euro 25) comprese che Kierkegaard
era il suo doppio: il nuovissimo Giobbe.
Šestov pensava soltanto a
Dio, anche quando non ne pronunciava il nome: secondo Albert Camus il
suo Dio sembrava capriccioso, malvagio, immorale, inaccettabile e
inaccessibile. Si, certo, era inaccettabile e inaccessibile. Non era, al
contrario di ciò che aveva detto Plotino, l’Uno: né era ragionevole,
illuminato, obbediente a una legge, sia pure stabilita da lui stesso.
Anche Dio, a volte, correva rischi. Quando Cristo gli disse: «Mio Dio!
Mio Dio! Perché mi hai abbandonato?»; questo momento fu terribile per
Dio, che fu sul punto di morire sulla croce. Come Pascal, Šestov pensava
di non sapere nulla delle opere di Dio, se non partire dal principio
che egli ha voluto accecarci ed ingannarci. Proprio per questo, Šestov
parlava continuamente del peccato originale: l’uomo non aveva alcun
bisogno del sapere; acquistando il sapere, perse la libertà. Non fu
l’uomo, ma Dio ad aver colto ed assaggiato il frutto dell’albero. Come
Kafka, Šestov rileggeva e reinterpretava senza fine i primi capitoli
della Genesi. Si chiedeva: «Cosa sarebbe accaduto se Adamo non avesse
peccato?». Anche oggi potremmo gustare il frutto dell’albero della vita:
tutti i libri di Šestov inseguono questa possibilità; la libertà
primigenia e paradossale, che Adamo aveva condiviso con Dio. Solo la
fede permette di ripercorrere questa strada, ritrovando le piene luci o
le piene tenebre. Quando diceva queste cose, Šestov si accordava con la
mistica ebraica – che credo non conoscesse in modo diretto.
Fu
molto meno tragico di Kierkegaard; e venne salvato dall’ironia e
dall’indecisione. Kierkegaard aveva detto: «Ho guardato negli occhi il
terribile e non ho avuto paura. Non ho tremato». Nemmeno Šestov tremò.
Pascal aveva detto: «Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: per
tutto questo tempo non bisogna dormire». Šestov non dormiva a lungo
sebbene qualche sonno o qualche sogno alleviassero la sua angoscia.
Šestov
ebbe un solo allievo, un grande allievo: Benjamin Fondane, un ebreo
rumeno (in realtà “Benjamin Wechsler”), il quale scrisse due bellissimi
libri: Baudelaire e l’esperienza dell’abisso (Aragno) e La coscienza
infelice (Aragno). Ora Aragno raccoglie In dialogo con Lev Šestov.
Conversazioni e carteggi, a cura di Luca Orlandini (pagg. 400, euro 25).
Fondane era nato nel novembre 1898 in Moldavia. Andò nel 1919 a
Bucarest, e nel 1923 a Parigi, dove conobbe Šestov; venne ucciso nel
1944 a Auschwitz-Birkenau. Fu molto amato da Cioran. Fondane non fece
nulla, secondo Cioran, per sfuggire al disastro e al fallimento – che lo
attraevano miracolosamente. «Mai prima – dice Cioran – avevo conosciuto
un tale accordo tra l’apparire e il dire. Cercare era, per lui, molto
più una necessità che un’ossessione. Cercare era una fatalità, la sua
fatalità, percettibile dal modo di parlare, sopra tutto quando si
entusiasmava oppure oscillava senza sosta tra l’ansia e l’ironia. Il suo
pensiero si svolgeva in tutte le direzioni, continuamente in lotta
contro la tirannia e la nullità delle evidenze, avido delle
contraddizioni, spaventato di concludere».