Repubblica 11.9.17
I neonazisti
hanno sfilato per le vie di Charlottesville, in Virginia, brandendo
fiaccole e scandendo slogan sulla supremazia della razza bianca,
Il potere dei monumenti
di Ian Buruma
L’AGGHIACCIANTE
spettacolo dello scorso agosto, quando dei neonazisti hanno sfilato per
le vie di Charlottesville, in Virginia, brandendo fiaccole e scandendo
slogan sulla supremazia della razza bianca, era stato innescato dalla
decisione di abbattere una statua di Robert E. Lee, il generale della
Confederazione sudista che durante la Guerra civile americana si batté a
favore della schiavitù. È dal 1924 — epoca in cui il linciaggio dei
cittadini di colore non era certo una rarità — che il generale Lee siede
in sella al suo cavallo.
Sulla scia degli eventi di
Charlottesville, anche in Gran Bretagna si sono levate voci a favore
della rimozione della statua dell’ammiraglio Nelson dalla famosa colonna
di Trafalgar Square, a Londra. Questo perché l’eroe britannico era
favorevole alla tratta degli schiavi. Due anni fa alcuni manifestanti
avevano reclamato la rimozione dall’Oriel College dell’Università di
Oxford di una scultura raffigurante Cecil Rhodes, che lì un tempo aveva
studiato, perché le sue opinioni sulla razza e l’impero sono considerate
oggi riprovevoli.
Questo tipo di iconoclastia possiede da sempre
un che di magico, in quanto poggia sulla convinzione che distruggendo
un’immagine si possano in qualche modo risolvere i problemi a essa
associati. Quando nel XVI secolo i protestanti inglesi sfidarono il
potere della Chiesa cattolica romana, orde di cittadini armati di
picconi e asce mandarono in frantumi statue di santi scolpite nella
pietra e altre raffigurazioni sacre. I rivoluzionari del XVIII secolo
fecero altrettanto con le chiese di Francia. L’esempio più drastico di
questo fenomeno si è verificato poco più di cinquant’anni fa in Cina,
dove la Guardia rossa distrusse i templi buddisti e diede alle fiamme i
testi confuciani, insieme a tutto ciò che apparteneva alla tradizione,
per far strada alla Rivoluzione culturale.
È facile deplorare
distruzioni simili, che hanno portato alla scomparsa di edifici e opere
d’arte di valore. Si sarebbe tentati di presumere che solo coloro che
credono nel magico potere delle immagini possano desiderare di
cancellarle. Per confrontarsi con i monumenti del passato bisognerebbe
considerarli semplicemente testimonianze della storia.
Ma non è
semplice. Chi potrebbe mai sostenere che le strade e le piazze delle
città tedesche dovrebbero continuare a essere intitolate ad Adolf
Hitler? Togliere di mezzo le sculture del Führer o, dopo il 1989, di
Stalin e dei loro tirapiedi non è stato semplicemente un gesto
infantile. Si potrebbe sostenere che da un punto di vista artistico tali
immagini non fossero paragonabili alle grandi chiese dell’Inghilterra
medievale o alle sculture buddiste in Cina. A dire il vero, però,
neanche le statue del generale Lee meriterebbero di essere conservate
per il loro valore artistico.
La questione è dove fissare il
limite: le figure storiche andrebbero giudicate in base alla quantità di
sangue di cui si sono macchiate? O sarebbe forse il caso di stabilire
parametri cronologici? I monumenti che celebrano personaggi infami di
cui oggi si conserva viva la memoria e il cui ricordo può ancora causare
dolore ai sopravvissuti devono essere eliminati. Gli altri andrebbero
consegnati alla storia. Ma nemmeno così funzionerebbe. Con il passare
del tempo, l’argomentazione a favore della conservazione di una scultura
di Hitler in un luogo pubblico (ammettendo che ancora ne esistano) non
acquista nuovo vigore.
Molti di coloro che vivono nel Sud degli
Stati Uniti ritengono che i monumenti confederati andrebbero protetti in
quanto testimonianze del passato e parte di una storia condivisa. Il
problema, tuttavia, è che la storia non è sempre neutra e può continuare
a essere tossica. Il modo in cui raccontiamo il passato e teniamo vivi i
ricordi attraverso alcuni manufatti culturali riflette in gran parte il
modo in cui una società, collettivamente, si vede. Ecco perché tali
rappresentazioni richiedono un certo grado di consenso. Un consenso che
spesso, soprattutto quando c’è stata di mezzo una guerra civile, non
esiste.
Il caso della Germania del dopoguerra è eloquente: sia la
Germania dell’Est che quella dell’Ovest hanno voluto definire il loro
futuro collettivo in diretto contrasto con il passato nazista. Solo una
frangia di indignati continua a rimanere attaccata ai ricordi del Terzo
Reich. E tuttavia le autorità tedesche hanno messo al bando l’esibizione
di raffigurazioni naziste, per timore che queste possano avere effetti
contagiosi e indurre le persone a ripetere gli episodi più cupi della
loro storia. È una paura comprensibile, e non del tutto irrazionale. Con
il progressivo sbiadirsi dei ricordi dei vivi, una simile tentazione
potrebbe addirittura guadagnare forza.
Il passato recente della
Gran Bretagna è meno traumatico, e oggi le opinioni di Cecil Rhodes o
dell’ammiraglio Nelson, per quanto convenzionali alla loro epoca, non
sono più in voga. È altamente improbabile che ammirando Nelson in cima
alla sua colonna o passando di fronte all’Oriel College di Oxford i
britannici di oggi decidano di farsi promotori della schiavitù o di
fondare un impero in Africa.
Il Sud degli Stati Uniti, invece,
rappresenta ancora un problema. I vinti della Guerra civile non hanno
mai realmente accettato la loro sconfitta, e per molti (certo non per
tutti) la causa confederata e i monumenti che la celebrano sono ancora
parte dell’identità collettiva. E anche se oggi nessuno dotato di senno
propugnerebbe il ritorno della schiavitù, la nostalgia per il vecchio
Sud rimane venata di razzismo. Ecco perché le statue del generale Lee
poste di fronte ai tribunali e in altri spazi pubblici sono nocive, e
perché molti, compresi i liberal del Sud, vorrebbero vederle rimosse.
Non
esiste una soluzione perfetta a questo problema, proprio perché non si
tratta di una semplice questione di immagini scolpite nella pietra. Il
risentimento, nel Sud, è una questione politica. Le ferite della Guerra
civile sono ancora aperte, e gran parte di questa regione è più povera e
meno istruita di altre zone degli Usa. I suoi abitanti si sentono
trascurati e guardati con sufficienza dalle élite urbane che popolano le
due coste del Paese. Ecco perché così tanti hanno votato per Donald
Trump. Buttare giù qualche statua non risolverà la questione, e potrebbe
addirittura peggiorare le cose.
(Traduzione di Marzia Porta)