domenica 10 settembre 2017

Repubblica 10.9.17
Note per cambiare la storia
Il “supergruppo”, i Prophets of Rage
di Luca Valtorta

I Prophets of Rage non sono una semplice band ma un “supergruppo” i cui componenti sono celebri figure del rock e dell’hip hop. Per loro la musica è solo un mezzo per riuscire a portare un messaggio politico a più gente possibile perché “se non ti muovi, non cambierà mai niente”
Suono di sirena. La band sale sul palco e resta in piedi a guardare il pubblico.
Pugno chiuso. Chitarra. Dietro di loro si alternano enormi pannelli disegnati da Obey (uno dei più noti esponenti della street-art). Quella che suona non è una band come le altre: si chiamano Prophets of Rage e hanno un disco in uscita dallo stesso titolo. Tom Morello, quello che li ha messi insieme, è stato il chitarrista dei Rage Against the Machine e poi degli Audioslave in cui cantava Chris Cornell, recentemente scomparso. Ha suonato con Springsteen e collaborato con i Linkin Park. Chuck D, fondatore dei Public Enemy, è una figura chiave del rap, creatore del “conscious hip hop”, il filone più impegnato. B-Real, origini cubano-messicane, è il frontman dei Cypress Hill, icona dell’hip hop “latino”.
Tim Commerford (basso) e Brad Wilk (batteria) sono una delle sezioni ritmiche più potenti della storia, entrambi provengono dai Rage, mentre Dj Lord, ai piatti, è stato dj dei Public Enemy dal 1999. Insieme significano milioni di dischi venduti e una fama planetaria ma anche un’attenzione alle tematiche politiche mai venuta meno. Il pezzo più famoso dei Public Enemy ha un titolo che non lascia dubbi: Fight the Power e il nome Prophets of Rage viene anch’esso da una loro canzone. «Era perfetta perché conteneva “rage”, un riferimento all’altra band». Sono in tour ma non gli interessa parlare di musica: «Noi facciamo politica nel “mosh pit” (la zona sotto il palco dove si balla, il cuore del concerto, ndr) ma musicalmente devi essere all’altezza: il pubblico deve impazzire e perché questo succeda i beat, le chitarre, la parte visiva, tutto quanto deve essere un potente “rock and roll hip hop show” da cui devi andartene sudato e senza voce».
Perché questo “supergruppo”?
Tom Morello: «Durante le scorse elezioni ho visto in tv un programma in cui si diceva che Trump era “rabbia contro la macchina”, ovvero il nome della mia band, Rage Against the Machine. Mi sono arrabbiato moltissimo, ho fatto uno screenshot con quella scritta e ho twittato subito “Questo NON è quello che noi avevamo in mente”. Poi mi sono reso conto che twittare non era sufficiente, bisognava fare qualcosa di più. Così ho chiamato gli altri».
Quali erano i suoi riferimenti politici prima dei Public Enemy?
Chuck D: «Io sono nato nel 1960 e sono stato influenzato dalle lotte di quel periodo storico e dai musicisti che avevano canzoni che parlavano di ciò che succedeva nella società, da Crosby, Stills, Nash & Young a James Brown».
Gli altri parlavano di gang, il vostro slogan era “Fight the Power”.
C.D.: «Noi negli anni Ottanta eravamo curiosi di quello che era successo negli anni Sessanta mentre gli altri guardavano più ai Settanta e c’è una grossa differenza tra le due decadi. Le radici di tutto erano nei Sessanta: il Black Panther Party è nato nel ’66».
Quali sono invece le sue radici?
T.M: «Sono cresciuto a Libertyville, in Illinois, dove ero l’unico ragazzo nero in un piccolo paese tutto di bianchi».
Sua madre è di origini italiane...
T.M: «Sì, il cognome vero è Morelli. Mia madre è italo-irlandese e mio padre, keniano, così la mia esposizione all’ingiustizia e all’intolleranza è personale e di prima mano. La mia famiglia è sempre stata molto politicizzata: mia madre era coinvolta nelle organizzazioni per i diritti civili e mio zio era Jomo Kenyatta, il primo presidente del Kenya che ha guidato il movimento anticolonialista. Ma la cosa fondamentale per me è stata scoprire band come i Clash e i Public Enemy.
Grazie a loro mi sono sentito meno solo e mi sono reso conto che quel piccolo amplificatore che usava Joe Strummer avrebbe potuto essere la mia arma!».
Lei ha mai avuto problemi con la polizia, visto il messaggio che portavate come Public Enemy?
C.D.: «Certo ne ho avuti, ma ben prima dei Public Enemy. Sta parlando di un maschio nero negli Stati Uniti nel mezzo degli anni Ottanta con Ronald Reagan e George Bush che hanno dominato l’intera decade. Era come se a persone come me venisse detto: “Voi non contate niente”. Così dovevi veramente credere in te stesso e ho scoperto che una via verso la libertà era la musica».
Che cosa è stato Black Lives Matter?
T.M.: «Una continuazione del processo di scontento di questi ultimi anni iniziato con Occupy Wall Street e culminato con Trump».
Lei non ha supportato la Clinton, ma neanche Sanders, perché?
T.M.: «Non sono così ingenuo da pensare che tutto si equivalga, ma nessuno dei tre rappresentava la mia voce».
Ma lei cosa vuole?
T.M.: «Un mondo senza persone che muoiono di fame, in cui ogni bambino può ricevere un’educazione e avere una chance, in cui non si rischia di venir uccisi da un drone se sei in Medio Oriente o da un poliziotto se sei in America. Se non continuiamo a sperare in questo in nome del cosiddetto “pragmatismo” non cambieremo nulla».
Lei però ha lavorato per la politica…
T.M.: «Nel 1987 sono stato per due anni segretario del senatore Alan Cranston, uno dei più progressisti, una brava persona, oggi è morto. Ma è stato proprio con quell’esperienza che mi sono reso conto di come il sistema politico degli Stati Uniti non può funzionare. La maggior parte del suo tempo era dedicato alla ricerca dei fondi ed era costretto a continui compromessi».
Qual è la cosa più efficace da fare contro Trump?
T.M.: «Trump non è un politico come gli altri: è un clown. Ed è molto difficile organizzarsi contro un “clown show”. In questo però sta anche la speranza: tutto l’attuale movimento di opposizione infatti è causato proprio da Trump. La sua azione politica reale sarà sempre più palese e anche chi lo ha votato si renderà conto dell’errore. Cambiare le cose dipende da noi. Dipende da te. Dipende da me. Dipende dai lettori di questo articolo. Il messaggio in cui si può riassumere il senso politico della nostra band è questo: “Il mondo non cambierà da solo. Sei tu che devi agire! Ognuno nel suo ambito e con i mezzi che ha”».