Repubblica 10.9.17
Peter Sloterdijk
“Non esistono veri maestri. Per fortuna non ho mai incontrato Adorno: mi è stata risparmiata una delusione
Sono stato troppo indipendente per aderire a una scuola”
Heidegger e i Quaderni Neri
di Antonio Gnoli,
Un
paio di mesi fa Peter Sloterdijk è stato a Roma, in occasione della
laurea honoris causa che l’Università di Roma Tre gli ha conferito.
Bella e intensa la laudatio tenuta da Giacomo Marramao con Peter
visibilmente felice per il riconoscimento. Sloterdijk vive a Karlsruhe,
dove è anche nato nel 1943 e dove è stato rettore nella omonima
università. Passa alcuni mesi dell’anno in Provenza ed è un uomo a un
tempo appartato e socievole. I suoi tratti caratteriali rinviano alla
prosa di un personaggio irregolare: affascinante e controverso.
Habermas, in anni ormai distanti, lo ha attaccato violentemente: troppo
conservatore, anzi un pericoloso reazionario, decretò. L’idea che
Sloterdijk riducesse noi poveri mortali a una sorta di parco umano
addomesticato e addomesticabile ha fatto saltare la mosca al naso a
numerosi accademici e intellettuali. Eppure, se oggi si guardasse al
pensiero europeo, difficilmente si potrebbe fare a meno del punto di
vista di questo eterodosso della filosofia che è stato un contestatore
alla fine degli anni Sessanta e in qualche modo legato alla predicazione
indiana nel decennio successivo. Ha pubblicato in questi giorni, per
Bollati Boringhieri, una raccolta di saggi Che cosa è successo nel XX
secolo?. Già, che cosa è accaduto, in quel Novecento che continua a
tormentarci con il suo volto di Medusa? «È stato un secolo segnato dalla
passione del reale e al tempo stesso dalla fuga della civiltà
occidentale dal dogmatismo della pesantezza», dice. A volte le parole di
Sloterdijk ricordano quelle di un venditore di giocattoli (o di sogni),
di cui le “Sfere” sono il più ambito e singolare dei doni.
A quando risale il suo interesse per la filosofia?
«Dal
tempo del ginnasio, quando avevo tredici anni. All’età di quindici
anni, durante l’ora di religione, tenni davanti alla classe una
relazione sulla critica alle prove dell’esistenza di Dio. Colsi una
certa meraviglia in chi ascoltava e in me la soddisfazione di aver messo
a frutto certi insegnamenti. Sono stato per lo più un talento cresciuto
al riparo degli eccessi della didattica. E sono tuttora convinto che,
se si apprende qualcosa, ciò accade non grazie alla scuola ma a dispetto
di essa».
Non ci sono maestri nella sua formazione?
«Nel
senso stretto della parola maestri li ho avuti al liceo. Dopo ci sono
state solo occasioni, incontri dettati dalla casualità. Mi sentivo
troppo indipendente per aderire a una scuola».
C’era più superbia o consapevolezza nei suoi mezzi?
«Forse
entrambe, chissà. Quel tempo fu per me segnato da un grande bisogno di
teoria. Affrontai e conobbi rapidamente gran parte delle scuole in voga
allora: fenomenologia, idealismo tedesco, esistenzialismo, psicoanalisi,
marxismo, formalismo russo, strutturalismo e teoria critica. Era il
gran bazar culturale dei tardi anni Sessanta. Quell’abbondanza mi
riempiva di gioia. Ho conosciuto così la felicità dell’onnivoro che fino
a oggi non mi ha mai abbandonato».
A tratti lei ricorda un
personaggio uscito dalla mente di Rabelais. Ma è come se non si
accontentasse dei cibi di cui si nutre. Vuole cambiarne le ricette.
«A cosa pensa?».
Penso
ad esempio al suo lavoro di alta cucina negli intingoli della scuola di
Francoforte, da cui pure a un certo punto sembrava un autentico erede.
«Nel
momento in cui mi sono dedicato ad attraversare i territodi ri
dell’antropologia storica e filosofica, il mio pensiero è andato oltre
l’orizzonte di quella vecchia scuola. Dietro la “ Scuola di Francoforte”
si nascondeva il neomarxismo e questo ha fatto sì che negli anni sia
divenuta sempre più obsoleta. Il marxismo è oggi solo un modo fra gli
altri per non comprendere il mondo. Sa indicarmi un solo problema che
potrebbe essere chiarito attraverso l’impiego delle categorie di Adorno o
Habermas?».
Ha mai conosciuto personalmente Adorno?
«No, non ci siamo mai incontrati e devo confessare che non mi rammarico per questo».
Perché?
«Mi
è stata risparmiata una delusione. Preferivo ammirarlo da lontano. Mi
piaceva credere di essere al cospetto di una stella di prima grandezza.
Alcuni decenni dopo mi sono accorto che si trattava di un’illusione
ottica».
Con Habermas il contrasto è stato molto più duro.
«Non
per colpa mia e francamente non ho voglia di soffermarmi oltre sulla
tensione che ha caratterizzato la mia relazione con lui. Se ne è già
detto fin troppo».
Beh, le ha dichiarato guerra su tutta la linea.
«Mi
ha bollato come un nemico dal momento in cui — durante un convegno a
Baltimora alla fine degli anni Ottanta — ha capito che avevo trattato
positivamente l’opera di Nietzsche. Fu un episodio che lo fece
infuriare».
Al punto da accusarla di essere un teorico dell’eugenetica.
«
Assolutamente ridicola quell’accusa che nasceva dalle mie
considerazioni sul “parco umano”. La critica in realtà non era che il
sintomo di uno stato d’animo pregresso. Certo, non faccio fatica a
riconoscere che la sua “ teoria dell’agire comunicativo” è stata
all’epoca una grande trovata, anche se purtroppo noiosa come una tardiva
tesi di abilitazione».
Sia Adorno che Habermas hanno criticato la figura di Heidegger. Lei ha cercato di salvarlo. Perché?
«Heidegger
è da sempre un autore controverso e continuerà ad esserlo. Non è un mio
capriccio privato considerarlo uno dei grandi della storia del
pensiero. Oltretutto, è di gran lunga il più commentato tra i filosofi
del XX secolo. Il che può perfino essere pericoloso per la salute».
In che senso?
«Richard
Rorty disse che era stato colpito della stessa malattia che aveva
ucciso Jacques Derrida, un cancro incurabile al pancreas. Poi,
sarcasticamente aggiunse che sua figlia aveva ipotizzato che quel tipo
di tumore derivasse da un eccesso di letture heideggeriane ».
Ha parlato di una “politica di Heidegger”. Cosa intende?
«Ne
ho parlato pensando di aver trovato la ragione della temporanea
adesione al nazionalsocialismo nella sua teoria della “ Storia”.
Heidegger compie una diagnosi di prim’ordine dell’epoca che sta vivendo.
È convinto che gli individui siano finiti fuori da qualsiasi storia
dotata di senso. La noia e l’inautenticità sono le componenti che
dominano il comportamento dell’individuo. È per uscire da questa
situazione emotiva che Heidegger è disposto a pagare il prezzo
dell’assoggettamento a un dubbioso movimento ipernazionalista e al suo
isterico Führer».
Un prezzo decisamente troppo alto, non trova?
«Per
noi che possiamo oggi avvalerci di uno sguardo retrospettivo la
faccenda si presenta abbastanza chiara. Heidegger si è perso nella
nebbia degli eventi. Ma ciò che soprattutto colpisce è la totale
mancanza di gusto di quest’uomo. La vediamo crudamente esibita nei suoi
Quaderni neri. Mi pare di poter dire che in alcuni casi la filosofia è
un training autogeno dell’eccentricità».
In fondo, tutto il suo lavoro è una degna prosecuzione di questa idea di eccentricità.
«In che senso lo pensa?».
Il
capolavoro di Heidegger è certamente “ Essere e Tempo”, su quel solco
la sua trilogia “Sfere” si sarebbe potuta intitolare “Essere e Spazio”.
«
Mi sembra un’ipotesi interessante, “ Essere e spazio” come una sorta di
titolo nascosto della trilogia. Si tratterebbe comunque di una parodia.
In effetti, Essere e tempo inizia come se dovesse risolversi in “Essere
e spazio”. Heidegger si interroga con incredibile insistenza sul
significato della preposizione “in”. Dopotutto, l’uomo è quell’animale
che crea e abita uno spazio. E abitare significa sempre costruire
“sfere”».
Come le è venuta l’idea di usare l’immagine della sfera?
«Nel
1990 tenni all’Accademia delle arti figurative di Vienna un corso di
teoria estetica, rivolto a giovani studenti austriaci del tutto digiuni
dell’argomento. Ricordo che per agevolarli avevo fatto ricorso a delle
immagini. Soprattutto a quella del cerchio. Oltretutto, in quel periodo
ero fresco di lettura del bel libro di Georges Poulet Le Metamorfosi del
cerchio. Le mie “ Sfere” potrei anche definirle le “Metamorfosi della
palla”!».
La sua filosofia sembra un po’ un palleggio continuo, un gioco di abilità. Pura acrobazia.
«C’è molto di acrobatico e di atletico nella filosofia».
Il
significato che lei attribuisce alla sfera è quello immunologico, cioè
uno spazio rifugio che abbia una funzione protettiva per l’uomo.
«
Si comincia con le sfere più intime — l’utero materno per esempio — per
passare alle sfere-mondo delle metafisiche imperiali per finire con le
sfere pluralistiche del mondo moderno. Come vede non è un semplice
capriccio se la mia opera sulle sfere sia diventata una trilogia».
Ogni
volume porta un’indicazione precisa: “ Bolle” il primo; “Globi” il
secondo; infine “Schiuma” il terzo. Perché ha sentito la necessità di
utilizzare delle immagini ulteriori?
«Si tratta del tentativo di
raccontare la storia umana, in particolare quella occidentale,
attraverso una serie di crisi che investono il format della sfera. “
Bolle” è un’archeologia dell’intimità; “ Globi” è il passaggio a una
intimità che perde il suo carattere individuale: le grandi conquiste
europee viste come il tentativo di esportare la nozione di intimo
occidentale; infine la “schiuma”, cioè la perdita di quell’intimità cui
l’Occidente aveva creduto e realizzato come comfort e lusso, ovunque
andiamo ci viene incontro l’estraneo ».
Al centro di tutto questo
c’è il concetto di globalizzazione che lei declina, mi pare, in modo
diverso rispetto all’uso contemporaneo che ne viene fatto.
«La
globalizzazione è un processo, non un semplice risultato. Essa prende
avvio dai concetti dell’antica cosmologia filosofica. Ma quando la terra
ha rivelato la sua sfericità ha smesso di essere bella ed è diventata
interessante. Poi, intorno al diciassettesimo secolo, ha inizio la
globalizzazione nautica: conquiste e scoperte oceaniche, trasporto con
navi e capitale galleggiante. Quando entriamo nel ventesimo secolo si
assiste a due ulteriori globalizzazioni: attraverso i viaggi aerei e la
comunicazione elettronica».
Intende dire la conquista dello spazio e Internet?
«Esattamente
e scopriamo che in tutte queste fasi si realizza un intreccio costante
tra sviluppo tecnico e momento psicologico-antropologico. Lo “spirito
libero” è all’inizio un cosmopolita logico, diciamo pure un filosofo
dell’antichità; poi un cosmopolita nautico, cioè un viaggiatore che
attraversa gli oceani; in seguito un cosmopolita aeronautico che vola
nei cieli e infine un cosmopolita elettronico, che usa la Rete per i
suoi viaggi. E magari fa sosta in un web-café».
Questa
distribuzione di figure, quasi un’antropologia dei caratteri
occidentali, in che misura tiene conto del tratto distruttivo che ha
sempre caratterizzato il ventesimo secolo?
«Direi che non può
prescinderne. Il volto di Medusa del Novecento ha un duplice carattere,
frutto di due immani tragedie senza precedenti: le guerre mondiali e i
genocidi, sia interni che esterni. Ma quel secolo, come il nuovo, resta
confuso poiché i sopravvissuti continuano imperterriti ad andare avanti e
vogliono sapere il meno possibile di ciò che è stato».
Lei parla a
questo proposito di “ sogno alchemico” come l’avvenimento fondamentale
del XX secolo. Sapere sempre meno nel nome del principio dell’opulenza,
della ricchezza da conquistare ad ogni costo.
«Può sembrare
stravagante che io abbia colto tanta importanza in questo “sogno”. Ma
l’alchimia fu inizialmente la scienza che mirava a trovare, o meglio a
inventare, la cosiddetta “pietra filosofale”. Con il tempo essa si è
trasformata nella pretesa di dominare tecnicamente l’arricchimento, il
processo del “diventare ricchi”. Questo sogno originario della modernità
è più antico ed energeticamente più potente del cosiddetto
capitalismo».
Quel capitalismo fin dalle origini ha oscillato tra i fuochi d’artificio e l’ascesi. Dove lo collocherebbe oggi?
«Si
tratterebbe di scegliere tra due eccessi. Ma nella vita pratica gli
estremismi non funzionano mai a lungo. Alla fine si impongono le vie di
mezzo. O come dicevano i nostri antenati latini: l’aurea mediocritas.
Tradotto per noi significa attenzione all’ecosistema, sviluppo di
un’etica co-immunitaria e una sincera diffidenza verso tutte le atroci
semplificazioni».
Il suo modo di ragionare oltre alla filosofia esplora le possibilità della letteratura.
«Posso dirle che è così».
Ho come l’impressione che nel suo “parco letterario” due figure spicchino: Dostoevskij e Melville. È così?
«Dostoevskij
è presente nel mio lavoro come l’autore che, dopo Kierkegaard, ha fuso
nel modo più impressionante la filosofia con la prosa letteraria. E
Melville è nostro contemporaneo in quanto autore, dopo Dante, del libro
sommo, della più grande avventura romanzesca. Egli ha creato la più
efficace metafora del modus vivendi moderno: la caccia alla balena. Lo
si voglia o no, tutti noi ci troviamo a bordo di una baleniera. E,
grazie a Dio, i membri dell’equipaggio non sono tutti così ossessionati
come il loro capitano».