Repubblica 10.9.17
Chi ha paura dell’inconscio?
Pensieri di uno psicoanalista irriverente, di Antonino Ferro, Raffaello Cortina Editore
di Massimo Recalcati
Dogmatismo,
conformismo e troppa riverenza verso il passato ostacolano l’apertura
di nuove strade di ricerca. Ma era lo stesso Freud a dire che la
psicoanalisi non conosce “verità ultime e fuori dal tempo” È la tesi del
libro-conversazione con cui Antonino Ferro mette in guardia dalle
rigidità della dottrina E spiega perché la libertà di pensiero dovrebbe
essere il presupposto etico di ogni analista
In un libretto agile,
divertente ma per niente banale, titolato Pensieri di uno psicoanalista
irriverente (Raffaello Cortina), Antonino Ferro propone, in una
conversazione con Luca Nicoli, una serie di riflessioni sul tema della
formazione degli psicoanalisti e della loro pratica. Nell’epoca della
riduzione neuroscientifica dell’inconscio alla struttura del cervello e
dei suoi meccanismi neuronali, nell’epoca del dominio delle psicoterapie
orientate pragmaticamente da un criterio conformistico e, insieme,
autoritario di normalizzazione del comportamento e del pensiero, ha
ancora senso credere nell’inconscio? Si può ancora pensare all’inconscio
non come un concetto della filosofia, ma come un’ esperienza capace di
trasformare davvero la vita, di renderla meno sterile e più generativa? E
quale sarebbe, oggi, il percorso più raccomandato nella formazione dei
futuri psicoanalisti? La psicoanalisi sembra una disciplina che non ha
conosciuto il tempo traumatico della rottamazione. Come fa giustamente
notare Ferro uno dei suoi sintomi più clamorosi è la discrepanza tra
l’età anagrafica dello psicoanalista e la sua maturità professionale.
Non credo esista equivalente in nessuna altra professione: a
quarant’anni si è considerati ancora giovani e inadatti a praticare la
psicoanalisi. I capelli bianchi (o la loro assenza) sembrano essere un
criterio generazionale indispensabile per sancire la giusta competenza
dell’analista. Una sorta di delirio cronologico si è impossessato della
formazione psicoanalitica generando caste di analisti che nel nome della
loro esperienza guardano dall’alto al basso i loro colleghi più
giovani. Lacan stesso, a suo tempo, aveva già messo in guardia su questo
pericolo segnalando come il peggior ostacolo alla psicoanalisi provenga
da quegli analisti che si credono installati nel loro essere analisti
senza più considerare che la psicoanalisi esiste solo se si reinventa
con ogni paziente. Il paternalismo e la burocratizzazione delle
gerarchie è un fenomeno politico che nel nostro paese assume, come
sappiamo, ben al di là della psicoanalisi, la fisionomia di una vera e
propria piaga. Nella psicoanalisi non si tratta solo di una segregazione
anagrafica. In essa si manifesta il sintomo maggiore della psicoanalisi
che Ferro non manca di segnalare con coraggio: dogmatismo, conformismo,
eccesso di ortodossia e di riverenza verso il passato che impedisce
l’apertura di nuovi sentieri di ricerca. “Gli analisti — dichiara —
devono difendersi soprattutto dal Kyrie eleison, Christe eleison
psicoanalitico, cioè da quelle formule ormai completamente vuote che
devono essere ripetute come segno di appartenenza e che vanno
continuamente riproposte per essere accettati e riconosciuti come parte
del gruppo”.
Una disciplina che è nata animata dal soffio dello
spirito critico si ritrova a essere imbalsamata da una fedeltà alla
dottrina di tipo religioso. Il problema che Ferro pone è quello della
libertà di pensiero come postura etica fondamentale dello psicoanalista.
In questo senso Freud stesso — che Ferro vorrebbe, diversamente da chi
scrive, mettere nel museo delle cere dell’Ottocento — insisteva a
definire la psicoanalisi “laica”, cioè — etimologicamente — un sapere
che non conosce le verità assolute, ultime, fuori dal tempo. Non si
tratta però di liberare solo la psicoanalisi dall’ombra spessa del padre
— Freud — , ma, innanzitutto, di liberarsi di una forma mentale che
imprigiona l’analista in cliché che ne paralizzano l’azione e il
pensiero. Quali? Il numero delle sedute settimanali per esempio, il
feticismo della tecnica o quello dell’immagine imperturbabile
dell’analista che — in una scena raccontata da Ferro — anche se vede una
donna incinta cadere davanti ai suoi occhi nel proprio studio, per
rispettare la cosiddetta neutralità analitica, resta immobile nella sua
poltrona, ma soprattutto quelli che derivano dalla codificazione rigida
della dottrina. Non a caso Thomas H.Ogden, autore molto in sintonia con
Ferro e tra i più interessanti nel panorama contemporaneo della
psicoanalisi, in Vite non vissute (Raffaello Cortina), ricorda
l’importanza dell’umanità dell’analista nel suo rapporto col paziente.
Non è la vita che deve servire la psicoanalisi ma la psicoanalisi la
vita. Per questo Ferro legge l’inconscio accentuandone non tanto la
caratteristica topica — com’era per Freud: l’inconscio è un luogo
separato da quello della coscienza — ma mettendone in valore l’aspetto
trasformativo. L’inconscio non è il rimosso, il separato dalla coscienza
o il suo sottosuolo che si tratta di decifrare attraverso l’attività
dell’interpretazione, ma il processo stesso della simbolizzazione, della
narrazione che interviene quando, come accade in seduta, una persona
parla con un’altra. È qui che si misura la rottura epistemologica con
l’inconscio pulsionale di Freud.
È il programma che caratterizza
tutto il lavoro di Ferro e di Ogden. Il pensiero deve essere capace di
trasformare in sogno — in una narrazione nuova e condivisa — ciò che
affligge la vita di un soggetto: i suoi traumi, l’angoscia, la
sofferenza, l’inibizione, l’impulsività distruttiva. Questo significa
che nel lavoro dell’analista bisogna fare in modo che quello che non è
stato possibile pensare nel tempo della ferita traumatica possa esserlo
in modo inedito nel tempo della seduta. Il lavoro dello psicoanalista
non è quello di decifrare il passato che si ripete — il “potere di
ieri”, come avrebbe detto Jung — , ma di rendere pensabile quello che
non lo è mai stato. Ecco perché la passione per la verità, emancipata da
ogni spirito poliziesco, viene ricollocata al centro dell’esperienza
dell’analisi. Lo ricorda Ogden citando Bion: la mente umana ha bisogno
di verità quanto ha bisogno di acqua o di cibo. Un pensiero che vuole
essere trasformativo non si limita a rendere coscienti i traumi del
passato, ma sa aprire sull’ignoto, sul non ancora pensato. È la stessa
idea presente in Lacan dell’inconscio al futuro anteriore: io non sono
quello che il passato ha fatto di me, ma sono sempre quello che può — a
partire dal suo passato — risignificare il passato che lo ha fatto in
modo nuovo rendendolo futuro.