Il Fatto 10.9.17
Minniti, il potere che non cerca consenso
di Pietrangelo Buttafuoco
Un’emergenza
c’era. E lui l’ha risolta. Gli sbarchi di disperati – profughi,
migranti, fuggiaschi – sono diminuiti dell’ottanta per cento. Certo,
crepano altrove, ma il Mediterraneo è tornato “nostrum” e Marco Minniti,
ministro dell’Interno, si conferma come il mr. Wolf, quello di Pulp
Fiction. È “quello che risolve problemi.”
Risolve, dunque, e di
sua luce ne gode per riflesso Paolo Gentiloni, il presidente del
Consiglio, che – ombroso di suo – non avrebbe di che lucere. Scoppia un
caso imbarazzante come la crisi con l’Austria, per le frontiere al
Brennero dove i carri armati sbarrano la strada ai clandestini in
viaggio dall’Italia e di fronte all’inerzia della Farnesina, la sede di
Angelino Alfano, Minnitti sussurra al premier: “Devo farlo io il
ministro degli Esteri?”
Sbirro, per come lo sputacchia l’umanista
Gino Strada, Minniti se la sbroglia con le patate più bollenti: il caso
Ong – ovvero i “taxi del Mediterraneo” – quindi il tema dell’accoglienza
e poi i rapporti con il Maghreb.
Tanta è la sabbia che si porta
sotto le scarpe. E tra le dune della Cirenaica e della Tripolitania – in
forza di un curriculum tutto di Icsa, ovvero Intelligence, culture and
strategic analysis – Minniti che gli appunti se li trascrive in limpido
latino ciceroniano, schermato dalle sue lenti scure, offre di se stesso
un profilo bifronte.
Un po’ Scipione l’Africano, un po’ Joseph Fouché
Per
metà s’atteggia a Scipione l’Africano. Ogni volta che s’imbarca alla
volta della quarta sponda rimugina ed ebbene sì, canticchia, Lettera al
Governatore della Libia, la bella canzone di Franco Battiato: “Carico di
lussuria si presentò l’autunno di Bengasi.”
Per l’altra metà
recita il ruolo di Joseph Fouché, il ministro della polizia francese già
giacobino e poi duca d’Otranto con Napoleone, giusto lui – il comunista
reggino – che quell’Icsa, la fondazione che studia e alleva lo
spionaggio per conto della Nato, l’ha creata con il suo compianto
mentore, Francesco Cossiga.
Della falce e martello, del suo
imprinting, Minniti trattiene – e non è una contraddizione rispetto alle
trame del fu Picconatore – più che l’eredità simbolica di un Enrico
Berlinguer, la sostanza poliziesca di Ugo Pecchioli.
È, questi, il
comunista del “centralismo democratico” incaricato dalla direzione del
Pci di studiare i “problemi dello Stato”, ed è quello che – nella
trattativa con le Brigate Rosse, nei giorni del rapimento di Aldo Moro –
costringe tutti alla linea della fermezza.
Il sequestrato è
ucciso. Cossiga, responsabile del Viminale, ne ricava la vitiligine, la
malinconia e i capelli bianchi; e il Pci – pur all’opposizione,
confermandosi come partito di massa ma della legge e dell’ordine – salva
l’Italia dal terrorismo ed elimina, dall’album di famiglia, le Br.
C’era
quell’emergenza, e Pecchioli – nel suo ruolo appartato di funzionario
del Partito Stato – la risolveva. L’onda della violenza straripava in
ogni angolo d’Italia, l’iniziativa giudiziaria bussava ovunque
l’infantilismo estremista della sinistra incontrava la deriva assassina,
il baratro inghiottiva decenni di lotte sindacali e il centralismo
democratico, ossia l’inesorabile macchina di controllo del partito
comunista, decideva allora responsabilmente: con lo Stato. Non con le
Br.
È storia di ieri e chi oggi crede che Minniti – l’uomo che
raddoppia le espulsioni e moltiplica i Centri d’identificazione degli
immigrati – faccia la destra, incappa in un’ignoranza. Perfino il
Guardian, per quanto rispettabile nel suo aplomb, nel presentarlo come
“quello di sinistra che piace alla destra” prende un coniglietto nella
mesta botola del luogo comune.
L’attuale responsabile del Viminale
trova coerenza e metodo dentro la sua storia di attivista della FGCI,
la Federazione giovanile comunisti italiani. È nella bandiera rossa
della sua formazione, infatti, che avvolge tutte le patate bollenti –
passate e presenti – della sua carriera. Il suo principale collaboratore
è Achille Passoni, ex senatore, sempre discendenza Botteghe Oscure,
marito del ministro Valeria Fedeli, notissimo per essere un grande
organizzatore, e anche qui – nella scelta degli uomini, nello scandire
della vita di Minniti –c’è l’apparato eterno del Pci.
Forse fa
schermo dei suoi occhiali scuri ma è in quelle lenti che vede scorrere
le immagini di vicende tutte sue. Storie dove le sue decisioni – nel suo
ruolo di appartato funzionario del Partito Stato – hanno avuto un esito
oltre ogni complicazione.
Ecco qualche fotogramma: le operazioni
di guerra in Serbia e in Còssovo. Uomo, appunto delle operazioni
“complicate”, Minnitti lavora come “coordinatore del comitato
interministeriale per la ricostruzione dei Balcani”.
È l’uomo,
qualora s’imponga il caso, anche delle operazioni sporche. Come la
patata Abdullah Ocalan. È il leader del partito comunista curdo,
catturato in Italia e consegnato alla Turchia. Minniti è sottosegretario
del governo di Massimo D’Alema, il primo italiano comunista giusto a
Palazzo Chigi (grazie alle trame di Francesco Cossiga). L’operazione
doveva farsi e si fa. Ocalan, oggi, è l’unico detenuto nell’isola
prigione di Imrali.
Le cose che si devono fare si devono saper
fare, dunque. Altro che il caso Shalabayeva verrebbe da dire. La moglie
del miliardario kazako Mukhtar Ablyazov prelevata ed espulsa dall’Italia
nel maggio 2013 quando al Viminale c’è Angelino Alfano. Un caso
scottante dove a pagare sono i funzionari dello Stato costretti
all’obbedienza di ordini altrui e nulla accade al titolare del ministero
– Alfano, giusto il predecessore di Minniti – che in quella
delicatissima sede, sia nel bene sia nel male, come nel maledetto
pasticcio kazako, ci passa come l’acqua sul marmo.
A che servirebbe conquistare il partito?
Nessuno
spretato smette di essere sacerdote. E così, nessuno che è nato
comunista, rinuncia al dogma di un’unica chiesa, la politica. E davvero
le cose che si devono fare si devono saper fare – anche le porcherie
della concretezza di Stato – se sullo schermo dei suoi occhiali,
Minniti, trattiene tutte le emozioni, i suoi intendimenti, le sue vere
ambizioni. Ha tutto pronto per prendersi il Partito Democratico ma poi
per che farsene se quello che più gli piace in assoluto è quello che già
sta facendo?
Emergenza c’è, è il Pd, ma lui che nell’emergenza
emerge, non la ritiene – quella del partito – un’urgenza. Fedele al
dettato di un unico primato, quello della politica, capisce che la
decisione prende forma ben oltre via del Nazareno, magari nel confronto
parlamentare dove senza darlo a intendere, facendo finta di farsele
spiegare le cose – a proposito del lavoro delle procure di Trapani e
Catania sul caso delle Ong – sa quali pesci andare a pescare. Imbocca i
deputati della Lega Nord, di Fratelli d’Italia e del Movimento Cinque
Stelle che subito dopo, con dichiarazioni ed emendamenti gli fanno da
battistrada per attuare quel suo decreto dove, con abilità di Fouché e
visione di Scipione, smussa la solidarietà a beneficio della sicurezza.
Un
primato della politica che, con non poche insidie, mette a dura prova
nella maggioranza chiamata a reggere l’esecutivo dove lui, a differenza
di altri ministri, non dice mai una sola parola contro gli scissionisti
di Pier Luigi Bersani, e mai si fa trascinare nel settarismo fideistico
dei renziani tanto che se antipodi ci sono, e tali sono nel Pd, il suo
opposto a rischio di incomunicabilità, giusto nella sua Calabria, è uno:
Ernesto Carbone.
Oltre a Matteo Renzi, che l’ha segnato sul libro
nero – tutto vuole il segretario del Pd fuorché uno che porti risultati
e consenso al governo – anche lo stesso Gentiloni ormai lo soffre.
Mentre Alfano non se ne cura, preoccupato solo delle trattative per la
sopravvivenza del proprio partito, il presidente del Consiglio patisce
l’efficientismo di Minniti, specie nel contesto internazionale dove il
titolare del Viminale riesce a tenere banco, e ad avere informazioni e
risposte, su tutti i dossier più delicati.
Se da un lato, Minniti,
è tenuto in grande considerazione dagli occidentalisti più destrorsi
dell’amministrazione Usa – cui, per tramite dell’Icsa, accasa anche dei
cretini improbabili – dall’altro lato s’avvale di competenze maturate
negli anni di collaborazione e confronto con Gianni De Gennaro. L’ex
Capo della Polizia, oltre allo stesso Minniti – e con Gianni Letta – è
il detentore di informazione e responsabilità. Conosce i segreti delle
umane e delle divine cose. Ed è dottrina viva di Legge.
Tutti e
tre, fateci caso, sono estranei alla sceneggiata del consenso. Le uniche
tre personalità – sono tre riserve delle Istituzioni – a non avere
alcun profilo social, né twitter e neppure facebook, né tanto meno, in
fregola di visibilità, raggiungibili.
Nato a Reggio Calabria, nato
bene, Minniti è padre di famiglia. Da sempre in politica, venuto alla
notorietà con la stagione di Massimo D’Alema, nel 2007 sta dalla parte
di Walter Veltroni perché è segretario regionale in Calabria e – il
metodo di Palmiro Togliatti fa testo – non può certo sfasciare il
partito.
Quella nota nello stile un po’ metrosexual
Solido
nella sua stagione di mezza età, costretto ai riflettori – nella
penombra del suo rigore claustrale – il ministro che ebbe per compagni
di staff, e sempre ai tempi di D’Alema a palazzo Chigi, Claudio Velardi,
Fabrizio Rondolino e Nicola Latorre, si concede uno squillo di nota
tutto metrosexual.
Elegante e nerovestito, è pronto per la cover
di Vanity Fair. Ma dalle giacche, ebbene sì, il signor ministro fa
venire fuori le braccia nude. Sono camicie bianche a maniche corte, ma
non da testimone di Geova bensì da pilota d’aereo. Quelle di quando ai
comandi, levandosi la giacca, il pilota si mette in libertà per
afferrare la cloche.
Uomo che non ha mai timbrato il cartellino,
laureato professore senza mai essere entrato in un’aula, Minniti –
figlio di un eroe della Guerra di Spagna, e non nel senso in cui
s’intende comunemente la parte eroica in quel conflitto – è uno di quei
raffinati intenditori che dicono “aviazione” in luogo di “aeronautica”.
Aviatore
di suo, a differenza di un Gianfranco Fini che s’abbottonava la giubba
delle Frecce Tricolori e là restava, Minniti sa pilotare gli aerei. È
anche tonico e se solo cedesse alla tentazione di ascoltare il suo Ego
profondo riuscirebbe là dove un altro famoso comunista, perfino
Colonnello del KGB, dà continua prova d’immagine.
Una battuta di
caccia in Aspromonte, come Vladimir Putin in Siberia. Oppure con una
canna da pesca in un torrente della Sila. E magari afferrare per le
zanne un lupo, uno di quelli in transito dal Pollino, e poco male se il
suo ufficio non è più riuscito a catturare Igor Vaclaciv, lo slavo
fuggiasco sparito tra i pantani di Comacchio per non tornare più in
galera.
Figurarsi se, stringendo la barra di comando – come Putin,
appunto – Minniti non starebbe bene a bordo di un aereo. Un caccia
militare di quelli dove ci si deve inguainare di tute apposite, per non
sentirsi frantumare i capillari negli sbalzi di pressurizzazione, un
velivolo da dove, sorvolando il mare, tornato a essere nostrum, si possa
ben dire – e lui lo ripete sempre –“chi vola, vale; chi non vale non
vola; chi vale e non vola è un vile.”
Uomo degli sgomberi, e delle
vie di fatto, Minniti – ebbene sì – è uomo del Sud. Quel Meridione che
paradossalmente, da periferia qual è, sempre nella deriva
delinquenziale, fabbrica poi uomini della legge e dell’ordine e poi
ancora ministri – da Francesco Crispi, a Mario Scelba – del ferro e del
fuoco.
Messo a cuocere nel forno del malcontento sociale, Minniti,
ancora non è giunto al giusto grado d’odio delle masse, come un tempo
fu per Scelba – il castigatore del proletariato, a forza di celerini – o
come ancora prima Crispi, l’ex garibaldino che poi attuò la legge
marziale contro i contadini affamati e i moti socialisti dei Fasci
siciliani.
Cauto tra le insidie dell’ideologicamente corretto, il
ministro dal cranio rasato resta il privilegiato Mercurio – gli analisti
della geopolitica lo chiamano così – pronto a essere testa di ponte tra
i mondi lontanissimi, quelli dell’emergenza reale e quelli della
provvisorietà politicante sempre virtuale in conseguenza degli umori
volatili.
La sua prima ossessione, ancor più che la palude del
partito, è quella del controllo capillare del territorio. Sapere ciò che
c’è da sapere e fare quello che c’è da fare.
Sullo schermo che si
porta sempre sul naso – quello delle sue lenti scure – Minniti rivede
dal film della sua vita, il battesimo della politica che ebbe pater et
gloria, per lui, in una raffica di lupara.
Quella che a Nicotera,
nella piana di Gioia Tauro, tolse alla vita Giuseppe Valarioti, un
insegnante di lettere, un archeologo, un uomo perbene cui il ragazzo
Marco Minniti – all’anagrafe Domenico, chiamato Marco in omaggio al
fratello gemello morto – s’affida per raccoglierne il testimone.
Un
comunista, Valarioti, che la ‘ndrangheta volle eliminare senza sapere
di fabbricare, uccidendolo, un ben più pericoloso nemico. Un ministro,
anzi, no: uno sbirro.