Repubblica 10.9.17
Le passioni umane nell’eterna lotta alla povertà
di Eugenio Scalfari
PAPA
Francesco è arrivato quattro giorni fa in Colombia, paese liberato
dalla tirannide e da una sorta di guerra civile. Ha percorso il paese in
lungo e in largo, in ogni luogo dove si è fermato a dir messa e a
parlare al popolo, il suo discorso arrivava a un milione di persone.
Parlava e ripartiva. Ha percorso a dir poco ottomila chilometri per
esortare chi lo ascoltava — cioè alla fine l’intero Stato. Ha messo a
confronto la realtà della Colombia e il racconto del Vangelo, quando
Gesù predica sulle sponde del mare di Galilea a «moltitudini ammaliate
da una parola di vita davanti alle acque che racchiudono la speranza dei
pescatori e dei suoi seguaci ma anche le tenebre che minacciano
l’esistenza umana».
Vedete? Nelle parole di Francesco è lo stesso
Gesù, ormai diventato veramente un uomo, che vede al tempo stesso le
speranze e le tenebre. Francesco sa qual è il comportamento che il suo
Dio diventato uomo vede come rimedio per dissipare le tenebre e
conquistare la luce: «Costruire ponti, abbattere i muri, integrare le
diversità, promuovere la cultura dell’incontrarsi, del dialogo e
dell’ascolto, educare al perdono e alla misericordia, al senso di
giustizia, al rifiuto della violenza e al coraggio della pace». Ha
chiuso il suo discorso citando il grande scrittore Gabriel García
Márquez, che non era cattolico, ma una grande anima: «Di fronte
all’aggressione, all’indifferenza e all’abbandono, la nostra risposta è
la vita».
«Si può anche pensare a una travolgente utopia della
vita, dove sia certo l’amore e sia possibile la felicità». Francesco dà
ormai per intesa la sua preghiera del Dio unico e dell’incontro della
Chiesa con la modernità e non poteva dimostrarlo meglio che chiudendo il
suo discorso con la notizia della felicità dopo cent’anni di guerra, di
vessazioni e di solitudine.
***
García Márquez è stato uno
dei grandi moderni, parlando soprattutto di quell’area del mondo che
chiamiamo sudamericana, dove in larga misura il “meticciato” auspicato
da papa Francesco è di fatto avvenuto: in Argentina, in Uruguay, in
Ecuador, in Brasile, in Venezuela, in Cile, in Bolivia, in Brasile, nel
Messico, nei Caraibi a cominciare da Cuba.
I popoli si sono
mescolati, si sono ribellati alla povertà, al populismo, al sovranismo.
Della democrazia tuttavia non si può ancora proclamare una piena
realizzazione. Esistono però le basi d’un progresso. Ma verso dove?
Questa
domanda non vale soltanto per l’America del Centro-Sud, ma per il mondo
intero. Ci sono crisi diplomatiche, crisi quasi militari, crisi quasi
atomiche, crisi climatiche, crisi economiche. E i grandi paesi in una
società globale modernizzata da tecnologie di prim’ordine offrono
possibilità di cultura a miliardi di persone, ma non riescono a
realizzare progresso e pace. Ci riesce l’America di Trump? La Russia di
Putin? La Turchia di Erdogan? Ci riescono la Cina e le due Coree? La
Siria? L’Iraq? Gli Emirati? Ci riescono i 27 Paesi di un’Europa diversa,
sovranista, populista? L’Iran? L’Egitto? La Cirenaica? La Libia
tripolitana? Il Sudan? L’India? Il Pakistan? L’Oceania?
Ho
nominato quasi il mondo intero e non credo di aver torto. Può sembrare
un’insulsa lezione di geografia, ma non è così. Dietro quella geografia
ci sono problemi, una moltitudine di problemi, uno diverso dall’altro,
ma in qualche modo combinati l’uno con l’altro, contrapposti ma al tempo
stesso collegati. La loro soluzione, almeno parziale, dipende dalla
politica? Oppure dall’economia? Dalla volontà dei potenti o dalla
resistenza e dalla ribellione dei poveri?
Spesso mi domando: ma i
poveri ci saranno sempre? Sembrerebbe di sì, sembrerebbe anzi che siano
aumentati, in sintonia con l’aumento della popolazione. Nel corso dei
millenni stiamo arrivando a otto miliardi di persone nel pianeta in cui
viviamo e i poveri crescono anch’essi, forse in proporzioni leggermente
minore rispetto alla popolazione generale, della quale tuttavia
rappresentano la maggioranza se per poveri consideriamo non solo i
mendicanti e i derelitti ma anche il ceto medio di basso livello, quello
che in un paese come il nostro arriva a un reddito di 25 mila euro
l’anno. Al di là di questo livello il ceto medio oltrepassa la soglia
dell’indigenza.
Quelli sotto la soglia sono numericamente più
numerosi? Dipende da paese a paese ma comunque il ceto povero è assai
numeroso e quello appena più alto spesso deve contribuire ad un’intera
famiglia che ha soltanto bisogni da appagare.
Questa è la
situazione in molti paesi. In altri è peggiore o migliore. Ma in un
punto tutto il pianeta è uniforme: non sono i poveri che comandano. Il
potere non va d’accordo con la povertà. I poveri (l’ho già scritto altre
volte) hanno il potere di ribellarsi e di ottenere una sorta di potere
provvisorio, ma non di eliminare la propria classe. A meno che… A meno
che l’intera società cresca, il reddito collettivo aumenti stabilmente e
vada a vantaggio sia dei ceti poveri sia di quelli ricchi. Cioè
diminuiscano le diseguaglianze senza però che questo mutamento positivo
debba esser pagato con una diminuzione della libertà. Piccoli mutamenti
in tal senso possono anche essere accettabili, ma al di là di certi
limiti diventano intollerabili.
Queste domande nel corso del tempo
se le sono poste in molti, a cominciare da epoche assai antiche fino ad
oggi. Sono domande che, pur utilizzando concrete esperienze, sconfinano
inevitabilmente nella filosofia.
Oggi ne voglio citare due,
entrambi assai significativi. Il primo è Giambattista Vico, che visse
quasi tre secoli fa (nacque nel 1668 e morì nel 1744). L’altro è Zygmunt
Bauman morto pochi mesi fa. In questi giorni è uscito un ultimo suo
libro in edizione italiana (Laterza) intitolato Retrotopia. Laterza, suo
amico ed editore italiano, lo ha commentato così: «Bauman si
interessava alla condizione umana. Dopo l’età delle utopie del futuro e
poi quella che ha negato ogni utopia, oggi viviamo l’epoca dell’utopia
del passato».
Ma avviciniamoci a questi due personaggi, di epoche e
pensieri profondamente diversi e tuttavia con una visione profonda e
abbastanza simile della vita che si profila e si svolge in ciascuno di
noi.
Giambattista Vico scrisse molti libri e diresse anche, nei
modi in uso nel Settecento, alcuni giovani studenti che si dedicarono a
loro volta all’insegnamento. Qualche cosa di simile un secolo fa fece il
nostro Francesco De Sanctis, che fu a sua volta studente, insegnante,
storico della letteratura, filosofo. Infatti amò molto la filosofia
letteraria del Vico, che spesso citava. Citerò anch’io un brano della
Scienza Nuova che si presta ad alcune attuali considerazioni.
«La
filosofia, per giovare al genere umano, deve salvare e reggere l’uomo
caduto e debole, né abbandonarlo nella sua corruzione. La filosofia
considera l’uomo quale dev’essere e se questa posizione non spetta che a
pochissimi sarebbe meglio vivere nella repubblica di Platone e non
rovesciarsi nell’immondizia di Romolo. L’uomo fu formato da Prometeo che
impastò le passioni degli altri animali. Nell’essere umano coesistono
dunque l’ira del leone, la ferocia della tigre, l’astuzia della volpe,
la libidine del cane e del caprone, la prudenza dell’elefante. Da questa
favola molti dicono che non c’è più brutta bestia dell’uomo, al quale
però Dio dette tutte queste nature facendone il re degli animali e la
più perfetta delle sue creature. Senonché, quando con la prudenza che è
la natura principale di cui è stato dotato, l’uomo non domina tutte
queste passioni, allora si può dire non soltanto che egli è la più
brutta e feroce delle bestie, ma il diavolo ».
La prudenza per
gestire le passioni: questa è la visione del Vico. Per avere una
consistente e vera natura, l’uomo (o donna che sia) non può e non deve
essere una creatura quasi angelica. I suoi impulsi personali fanno parte
della sua (nostra) natura, altrimenti saremmo un contenitore vuoto,
senz’anima, senza sentimenti, senza volontà. L’uomo deve invece poter
gestire se stesso, adattando una visione che considera anche e
soprattutto l’esistenza degli altri.
Vico disse esplicitamente
quale fosse quella sua visione. Detestava Cesare, troppo volitivo; amava
Alessandro e anche Ottaviano Augusto: tutti e due animati da intense
passioni ma consapevoli anche del pensiero degli altri e del futuro.
È
una versione pregevole, ma si pensa al futuro avendo in mente il
passato oppure queste due diverse temporalità non si combinano e l’uomo
resta privo dell’una o dell’altra o di tutte e due, affidandosi soltanto
al presente? Ci poniamo spesso questa domanda e se la pone con molta
sapienza anche Bauman. Vediamo come.
Il tema che affascina questo
che è stato uno dei più importanti pensatori dell’epoca nostra, del
quale Ezio Mauro è stato uno dei più validi amici, condividendo anche
molte riflessioni filosofiche, sociali e politiche, è stato un’analisi
del tempo.
Molti hanno pensato il tempo come l’elemento principale
della nostra vita, o meglio: della nostra visione della vita e quindi
delle concrete azioni che ciascuno di noi compie nella misura in cui
quella volta vuole attuarla.
Bauman parla ad un certo punto della
nostalgia come uno dei sentimenti essenziali: il rimpianto della
nostalgia. Ma, scrive Bauman nel suo nuovo e purtroppo ultimo libro: «La
nostalgia è soltanto una della vasta famiglia delle relazioni affettive
con un “altrove”. Relazioni di questo tipo sono indispensabili per la
condizione umana. Il mondo qui e ora non è che uno del numero
indefinibile di mondi pensabili».
E quali sono questi mondi
pensabili? Essenzialmente sono tre ma con diverse combinazioni tra loro.
C’è chi è dominato dal ricordo del passato. Un certo passato, dovuto ai
testi da lui conosciuti o per studio o anche per personale esperienza
(in tal caso un passato prossimo).
Quel passato dominante ispira
anche un certo tipo di futuro da costruire. Quando? Subito. Quindi
operando nel presente. Questa è la principale e più armoniosa
combinazione: il passato ti guida a vagheggiare e costruire un futuro
del quale cominci nel presente a porre le basi.
Ma c’è invece chi è
dominato da una visione del futuro e quindi da un’ideologia che lo
disegna e lo propone. In questo caso il passato è ignorato, anche se si
possono cercare in esso le radici dell’ideologia.
Infine c’è chi
vive il presente e quello soltanto. Non conosce il passato e pensa ad un
“futuro prossimo”, quello che di fatto è un presente leggermente
esteso. Direi che la maggioranza delle persone vive il tempo in questo
modo. Soprattutto i poveri e poco abbienti. Nessuna forma di
temporalità: pensano all’oggi, e a un domani di pochi giorni o
addirittura di poche ore. E questo è tutto: la grandissima maggioranza
delle persone vive in questo modo.