domenica 10 settembre 2017

Corriere 10.9.17
Tra i migranti bloccati in Libia «Qui solo abusi: rimpatriateci»
di Lorenzo Cremonesi

Tre volte ci ha provato e tre volte ha fallito ad arrivare in Italia dalla Libia. La prima, nel settembre 2014, una milizia locale a Garabulli, uno dei porti a est di Tripoli, ha fermato il suo gommone e derubato lui assieme agli oltre 120 migranti a bordo. La seconda, nel novembre dello stesso anno, è finita in tragedia con il motore in panne e il naufragio a poche centinaia di metri dalla costa. «Almeno una dozzina sono affogati tra il buio e la confusione», ricorda. La terza non ha neppure messo i piedi in acqua. È avvenuto nel maggio 2016. Lui aveva già pagato i quasi 1.000 euro, quando gli scafisti si sono semplicemente dileguati. «Una beffa, un grande imbroglio, come del resto capita spesso in Libia», esclama allargando le braccia e con quel sorriso di bonaria, rassegnata impotenza che spesso accompagna i racconti di questi frammenti d’umanità offesa, violata. A sentirli qui tra i campi per migranti tra Tripoli e Sabratha viene spontaneo chiedersi come facciano a resistere ancora, come possano sopportare tante angherie e una sorte così amara.
Ma non ci sono limiti alle cattive notizie. La sua personale, che poi è quella di altre centinaia di migliaia intrappolati come lui sulle coste della Libia occidentale, l’ha ricevuta circa un mese fa, quando gli è stato detto a chiare lettere dagli scafisti e da una decina di nigeriani che abitavano presso la sua baracca che per il momento la strada per le coste italiane è chiusa, sbarrata. Insomma, non si passa. Così Moussa Lamin, 31 anni appena compiuti, sta ora rivalutando la sua situazione. «Che posso fare? Era da ben prima il mio arrivo in Libia nella primavera del 2014 che progettavo il futuro in Europa. Nel mio villaggio in Gambia avevo studiato l’inglese. Sono bravo con le lingue. Avrei voluto lavorare nel campo alberghiero. Ma adesso per la prima volta in modo serio sto organizzando il mio ritorno a casa», dice. Non è però facile come dirlo. «Qui in Libia lavoro come imbianchino, mi sono specializzato nel rifinire le abitazioni di lusso, opero sugli stucchi. Bene o male racimolo in media sui 20 euro al giorno. In Gambia non so cosa troverò. Ci torno da sconfitto». Il suo problema è soprattutto logistico. A chi chiedere? Come tornare? Il percorso via terra comporta il riattraversare il Sahara, passare per il Niger, il Burkina Faso, il Mali, il Senegal. Vorrebbe viaggiare in aereo, ma non possiede i documenti giusti. «Gli amici mi dicono di cercare su internet, pare ci sia un sito apposito e pagando 50 dinari gli europei ci aiuterebbero a trovare i soldi per il biglietto e facilitare le procedure. Ma non so. Mi sembra strano».
La sua confusione è quella di un migrante giovane, con un’istruzione più alta della media, con qualche risparmio in tasca, in grado di usare il computer e capace di leggere l’inglese. Tutto sommato un privilegiato tra i migranti in Libia. Figurarsi dunque quanto sia grave la situazione delle centinaia di migliaia che non sanno le lingue straniere, sono arrivati da poco e non hanno un soldo. Non è difficile individuarli. Li si incontra anche nei loro tradizionali punti di raccolta lungo le provinciali alla periferia della capitale. Stanno all’ombra dei ponti in attesa delle offerte di lavoro giornaliero: una decina di euro e una minestra in cambio di dieci ore come operai, contadini, elettricisti, facchini. «Sappiamo tutti ormai molto bene che per ora non si passa. Qualcuno prende tempo, sperando che il blocco dei viaggi verso l’Italia sia solo temporaneo. Ma io come tanti altri sto cercando i 910 dinari necessari per il biglietto aereo Tripoli-Niger», racconta il 26enne Suleiman Abu Ghadu. Un altro, il 37enne Ismahil Mussa, a sua volta nigeriano, si dice stanco delle «angherie razziste» subite in Libia. Vorrebbe partire subito, essere rimpatriato. Ma non sa come fare.
È una richiesta di aiuto che rimbalza anche dalle autorità libiche, comprese milizie e non meglio identificate forze locali. «Cosa fanno le Ong, l’Onu, l’Europa? Promettono, promettono di facilitare i rimpatri, annunciano grandi somme. Ma qui non arriva nulla. Le Ong hanno operato in mare, però da noi non mettono piede», ci dice rabbioso tra i tanti Ibrahim al Majub, capo della milizia di Surman, alla periferia di Sabratha, che ha ai suoi ordini un campo abitato da quasi 700 migranti, di cui 210 donne e una ventina di bambini.
Lo stesso ripetono i funzionari del ministero degli Interni a Tripoli incaricati di amministrare i 14 campi ufficiali: «Il fatto grave è che per motivi di sicurezza gli organismi di aiuto internazionale, compresi Unhcr e Imo (le due più grandi organizzazioni mondiali che si occupano di assistere le migrazioni, ndr), non tengono personale straniero in Libia. Il risultato è che non si coordinano sul campo, sprecano risorse, buttano via denaro, lavorano per conto terzi e alla fine i loro sforzi risultano vani».