Corriere La Lettura 10.9.17
Aboliamo la razza
Le evidenze
della biologia e della medicina hanno definito da tempo l’inesistenza
scentifica di un termine odioso, ampiamente diffuso nel dibattito
pubblico. Un convegno per chiedere di eliminarlo dall’articolo 3 della
nostra Costituzione
di Carlo Alberto Redi e Manuela Monti
Giovedì
12 ottobre presso il Collegio Ghislieri di Pavia si incontreranno
biologi, antropologi, storici, filosofi, costituzionalisti e studiosi di
altre discipline per discutere sull’opportunità di emendare l’articolo 3
della Costituzione italiana dalla parola «razza». Non vogliamo qui
riassumere i contenuti delle presentazioni sulle numerose evidenze
scientifiche a prova dell’inesistenza di razze nella specie umana (di
cui «la Lettura» ha scritto spesso) né di quelle che suggeriscono
diverse alternative di modifica dell’articolo 3.
Siamo consapevoli
ed è del tutto evidente che togliere la parola razza dalla Costituzione
non significa eliminare il razzismo. Per raggiungere un tale fine è
bene iniziare una capillare opera di informazione dei cittadini sulla
inesistenza biologica delle razze così da ripulire il lessico da falsi
termini. Una evidenza alla portata culturale anche di chi persegue
ideologie razziste è quella fornita dall’immunologia. Chi non sa che per
trapiantare organi e cellule ci vuole compatibilità con il proprio sé
immunologico !? Ad esempio, il successo di una trasfusione di sangue
dipende dalla compatibilità di riconoscimento del proprio sé
immunologico («istocompatibilità»). In altre parole, il sangue donato da
chi viene considerato dall’ideologia razzista appartenente a una
«razza» inferiore può essere l’unico in grado di salvarci la vita, così
come quello proveniente da un individuo della «nostra stessa razza» può
risultare non idoneo.
Tutti i dati scientifici — ultimo arrivato
il sequenziamento del genoma umano — dimostrano che non è possibile
identificare nella specie umana alcuna razza geneticamente distinta e
provano che il concetto di «razza» è solo e soltanto un prodotto
culturale; i dibattiti sulla realtà genetica della razza non sono
scientifici, ma sociali.
Già lo aveva svelato nel 1871 Rudolf
Virchow nel corso di una insuperata indagine demografico-razziale (quasi
sette milioni di ragazzi coinvolti) effettuata nell’ambito dei lavori
della Società antropologica tedesca, per studiare le differenze (
Völkertypus ) tra scolari ebrei e cristiani: misure antropometriche del
cranio (di cui era maestro visto lo studio del 1857 che poneva le basi
del moderno studio della crescita del cranio), statura, peso, colore
degli occhi, tipo di capelli, colore della pelle, eccetera… nulla…
nessuna differenza, non era possibile stabilire l’esistenza di alcuna
razza e men che meno quella di una pura razza ariana (germanica). Tutti i
caratteri considerati si distribuivano in modo ambiguo e continuo tra
tutti gli scolari. (Nota di carattere per questo insuperato gigante
della biologia e della medicina: fu anche sfidato a duello da Bismark!).
Questi
dati smascherano le ideologie razziste e rivelano, lasciandola nuda, la
vera natura del razzismo che è quella della discriminazione per fini
politici, sociali, economici, eccetera attuata da sottogruppi
nell’ambito di una popolazione, o tra popolazioni diverse, per
instaurare o mantenere privilegi.
Sulla base delle attuali
conoscenze scientifiche è così possibile dar forza al lavoro di storici,
filosofi, sociologi, giuristi al fine di tracciare gli eventi che hanno
portato a formulare e mantenere in vita un concetto che non ha mai
avuto alcun valore scientifico. E da queste analisi trarre suggerimenti e
indicazioni per mettere in campo politiche educative capaci di
sradicare dalla mente di tanti idee e concetti alla base di
atteggiamenti razzisti. L’aver provato scientificamente che non esistono
razze non mette infatti al riparo da quotidiani e ripugnanti fenomeni
di razzismo, dal loro volgare impiego a fini di conquista di consensi
elettorali, dall’adagiarsi su posizioni lassiste di convivenza con
fenomeni di razzismo e di discriminazione.
Liberato il campo
dall’imbroglio del concetto di «razza» dobbiamo ora chiederci cosa fare
del nostro futuro, di quello che stiamo preparando ai nuovi nati che già
vivono in un mondo multietnico e globale (dove tutti siamo collegati 24
ore su 24 dai mezzi tecnologici in uno scenario in cui «chi governa il
mondo» — sostiene Noam Chomsky — è chiaramente l’economia neo-liberista
con i suoi strumenti — hedge funds, oligarchie finanziarie, complessi
multinazionali e militari-industriali — capaci di trasformare la
rappresentanza politica che eleggiamo nei sistemi democratici in leve
del proprio potere economico).
In questo contesto le comunità non
possono reggersi su discriminazioni basate su fattori genetici
inesistenti (pena il ritorno nelle caverne); debbono invece organizzarsi
su pratiche di partecipazione alla vita pubblica basate
sull’inclusione: i disperati che arrivano oggi alle porte dell’Europa e
chiedono aiuto sono migranti e non immigrati clandestini, migranti che
abbiamo il dovere di accogliere, non fosse altro che per i trascorsi
colonialisti e imperialisti di tutti i Paesi europei, nessuno escluso.
Noi europei abbiamo creato conflitti di cui non possiamo dirci innocenti
e l’assunzione di responsabilità storica di quanto fatto passa per
l’accoglimento senza se e senza ma dei migranti. E ciascuno di questi
migranti, lo dicono la filosofia politica e la filosofia morale, porta
con sé la dignità morale dell’eguaglianza: ciascuno di noi potrebbe
essere «l’altro», dobbiamo riconoscere nell’altro il noi stesso, pena la
caduta stessa della nostra dignità. Solo il riconoscimento di questo
dato di fatto può permettere di sviluppare strategie per contrastare,
mitigare e sperabilmente eliminare ogni forma di discriminazione,
cercando di promuovere valori positivi e l’idea che l’inclusione
funziona come matrice di concezioni del vivere più ampie, è scambio di
cultura, di idee, di stimoli, di storia, e che «meticciato è bello»
anche perché favorisce la nostra salute aumentando il grado di
eterozigosità genetica (si perdoni il dettaglio tecnico!).
La
biologia è alla base di questa riflessione: la genetica e l’ereditarietà
dei mitocondri, ricevuti da tutti noi solo per via materna dalla stessa
Eva africana, affermano chiaramente il concetto di uguaglianza. Ogni
forma di discriminazione basata su false premesse scientifiche, su
leggende, è sbaragliata e falsa: la natura umana è la base indiscutibile
dei diritti di tutte le persone ad essere trattate in modo eguale.
Tutti gli individui meritano lo stesso grado di rispetto poiché tutti
accomunati dallo stesso percorso biologico che si fa sociale
nell’assegnare pari dignità a tutti — tutte le persone sono eguali dal
punto di vista morale altrimenti nessuno è persona.
La
Dichiarazione d’Indipendenza americana del 4 luglio 1776 per prima
afferma che «...tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal
Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti
sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità…»; verrà poi
il 1789 con la Rivoluzione francese ad affermare categoricamente che
libertà, uguaglianza, fraternità sono valori inscindibili e non serve
una laurea in filosofia per capire che senza uguaglianza e fraternità
nessuno può dirsi libero. La Dichiarazione universale dei diritti umani
(Parigi, 10 dicembre 1948) precisa questi valori già nell’articolo 1:
«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti».
I
fatti di Charlottesville delle scorse settimane sono paradigmatici. Gli
Usa sono un Paese dove nel 1857 i giudici della Corte suprema (7 contro
2) dichiarano che Dred Scott è uno schiavo e come tale non ha diritto
di cittadinanza: abbattere a Baltimora la statua del giudice Taney (che
scrive la sentenza) è un fatto decisamente tardivo che spiega meglio di
tante sofisticate analisi il contesto attuale. Contesto attuale che è
facile analizzare — non servono studi di sociologia, storia, economia,
americanistica, basta aver fatto un paio di viaggi in macchina (nel
nostro caso da Seattle a Sioux Falls; da Baltimora a Chicago) ed essersi
fermati a dormire, mangiare, parlare con gli abitanti per capire che il
razzismo negli Usa (come altrove) è figlio della questione sociale
(disoccupazione, bassi salari, assenza di assistenza medica...). Per i
bianchi — di qualsivoglia origine — i neri sono nemici perché
storicamente impiegati dal complesso industriale per fiaccare e piegare
le lotte sociali da loro intraprese (quante analogie con il razzismo in
Gran Bretagna verso gli immigrati polacchi, e quindi tutti gli
immigrati, che rubano il lavoro eccetera eccetera... buon argomento per
fomentare la Brexit).
Il concetto di razza si è andato modellando
su ciò che il pubblico di tempo in tempo ha creduto fosse «l’evidenza
scientifica» (i tratti somatici per esempio) a sostegno della presunta
verità dalla quale dunque appare naturale far scaturire politiche
sociali di discriminazione e segregazione (raramente di inclusione) che
vengono così giustificate e invocate per legittimare differenze di
rendita economica basata su privilegi di potere. L’uso sociale delle
conoscenze sul Dna (la «vita» sociale del Dna) ci pare un buon strumento
per un ennesimo tentativo, a livello nazionale e internazionale, per
risolvere i lasciti del business della schiavitù con tutte le sue
terribili ricadute attuali, discriminazione razziale e disuguaglianze
economiche. Oggi sperabilmente questo tentativo può lasciare il segno in
considerazione dell’interesse e della curiosità sempre crescenti verso
la propria costituzione genomica , cioè la struttura del nostro Dna;
questo per una serie di ragioni, dal successo dei test genetici fai da
te a fini terapeutici (medicina di precisione) a quella per tracciare la
propria genealogia (siti come Ancestry.com conquistano utenti alla
ricerca dei propri alberi genealogici).
Dunque vi è oggi più che
in altri momenti l’opportunità di chiarire i fraintendimenti che si
vengono a creare quando si concettualizzano aspetti quali la differenza
di colore della pelle o di altri tratti somatici. E ciò è ancora più
valido oggigiorno quando anche il comune cittadino sa che il Dna porta
con sé le nostre storie passate ed è condiviso, poiché lega a diversi
livelli di parentela sia individui sia gruppi di individui.
Il
concetto stesso di razza storicamente si modella sulla correlata
comprensione da parte della società delle evidenze scientifiche invocate
per giustificarne l’impiego per fini di politiche di eugenetica e di
discriminazione: e dunque, giustizia sociale e progetti di
«riconciliazione razziale» passano per il dovere da parte dei biologi di
far conoscere i dati delle ricerche in modo chiaro. Le evidenze
scientifiche negano l’esistenza di razze.