domenica 10 settembre 2017

Corriere La Lettura 10.9.17
Aboliamo la razza
Le evidenze della biologia e della medicina hanno definito da tempo l’inesistenza scentifica di un termine odioso, ampiamente diffuso nel dibattito pubblico. Un convegno per chiedere di eliminarlo dall’articolo 3 della nostra Costituzione
di Carlo Alberto Redi e Manuela Monti

Giovedì 12 ottobre presso il Collegio Ghislieri di Pavia si incontreranno biologi, antropologi, storici, filosofi, costituzionalisti e studiosi di altre discipline per discutere sull’opportunità di emendare l’articolo 3 della Costituzione italiana dalla parola «razza». Non vogliamo qui riassumere i contenuti delle presentazioni sulle numerose evidenze scientifiche a prova dell’inesistenza di razze nella specie umana (di cui «la Lettura» ha scritto spesso) né di quelle che suggeriscono diverse alternative di modifica dell’articolo 3.
Siamo consapevoli ed è del tutto evidente che togliere la parola razza dalla Costituzione non significa eliminare il razzismo. Per raggiungere un tale fine è bene iniziare una capillare opera di informazione dei cittadini sulla inesistenza biologica delle razze così da ripulire il lessico da falsi termini. Una evidenza alla portata culturale anche di chi persegue ideologie razziste è quella fornita dall’immunologia. Chi non sa che per trapiantare organi e cellule ci vuole compatibilità con il proprio sé immunologico !? Ad esempio, il successo di una trasfusione di sangue dipende dalla compatibilità di riconoscimento del proprio sé immunologico («istocompatibilità»). In altre parole, il sangue donato da chi viene considerato dall’ideologia razzista appartenente a una «razza» inferiore può essere l’unico in grado di salvarci la vita, così come quello proveniente da un individuo della «nostra stessa razza» può risultare non idoneo.
Tutti i dati scientifici — ultimo arrivato il sequenziamento del genoma umano — dimostrano che non è possibile identificare nella specie umana alcuna razza geneticamente distinta e provano che il concetto di «razza» è solo e soltanto un prodotto culturale; i dibattiti sulla realtà genetica della razza non sono scientifici, ma sociali.
Già lo aveva svelato nel 1871 Rudolf Virchow nel corso di una insuperata indagine demografico-razziale (quasi sette milioni di ragazzi coinvolti) effettuata nell’ambito dei lavori della Società antropologica tedesca, per studiare le differenze ( Völkertypus ) tra scolari ebrei e cristiani: misure antropometriche del cranio (di cui era maestro visto lo studio del 1857 che poneva le basi del moderno studio della crescita del cranio), statura, peso, colore degli occhi, tipo di capelli, colore della pelle, eccetera… nulla… nessuna differenza, non era possibile stabilire l’esistenza di alcuna razza e men che meno quella di una pura razza ariana (germanica). Tutti i caratteri considerati si distribuivano in modo ambiguo e continuo tra tutti gli scolari. (Nota di carattere per questo insuperato gigante della biologia e della medicina: fu anche sfidato a duello da Bismark!).
Questi dati smascherano le ideologie razziste e rivelano, lasciandola nuda, la vera natura del razzismo che è quella della discriminazione per fini politici, sociali, economici, eccetera attuata da sottogruppi nell’ambito di una popolazione, o tra popolazioni diverse, per instaurare o mantenere privilegi.
Sulla base delle attuali conoscenze scientifiche è così possibile dar forza al lavoro di storici, filosofi, sociologi, giuristi al fine di tracciare gli eventi che hanno portato a formulare e mantenere in vita un concetto che non ha mai avuto alcun valore scientifico. E da queste analisi trarre suggerimenti e indicazioni per mettere in campo politiche educative capaci di sradicare dalla mente di tanti idee e concetti alla base di atteggiamenti razzisti. L’aver provato scientificamente che non esistono razze non mette infatti al riparo da quotidiani e ripugnanti fenomeni di razzismo, dal loro volgare impiego a fini di conquista di consensi elettorali, dall’adagiarsi su posizioni lassiste di convivenza con fenomeni di razzismo e di discriminazione.
Liberato il campo dall’imbroglio del concetto di «razza» dobbiamo ora chiederci cosa fare del nostro futuro, di quello che stiamo preparando ai nuovi nati che già vivono in un mondo multietnico e globale (dove tutti siamo collegati 24 ore su 24 dai mezzi tecnologici in uno scenario in cui «chi governa il mondo» — sostiene Noam Chomsky — è chiaramente l’economia neo-liberista con i suoi strumenti — hedge funds, oligarchie finanziarie, complessi multinazionali e militari-industriali — capaci di trasformare la rappresentanza politica che eleggiamo nei sistemi democratici in leve del proprio potere economico).
In questo contesto le comunità non possono reggersi su discriminazioni basate su fattori genetici inesistenti (pena il ritorno nelle caverne); debbono invece organizzarsi su pratiche di partecipazione alla vita pubblica basate sull’inclusione: i disperati che arrivano oggi alle porte dell’Europa e chiedono aiuto sono migranti e non immigrati clandestini, migranti che abbiamo il dovere di accogliere, non fosse altro che per i trascorsi colonialisti e imperialisti di tutti i Paesi europei, nessuno escluso. Noi europei abbiamo creato conflitti di cui non possiamo dirci innocenti e l’assunzione di responsabilità storica di quanto fatto passa per l’accoglimento senza se e senza ma dei migranti. E ciascuno di questi migranti, lo dicono la filosofia politica e la filosofia morale, porta con sé la dignità morale dell’eguaglianza: ciascuno di noi potrebbe essere «l’altro», dobbiamo riconoscere nell’altro il noi stesso, pena la caduta stessa della nostra dignità. Solo il riconoscimento di questo dato di fatto può permettere di sviluppare strategie per contrastare, mitigare e sperabilmente eliminare ogni forma di discriminazione, cercando di promuovere valori positivi e l’idea che l’inclusione funziona come matrice di concezioni del vivere più ampie, è scambio di cultura, di idee, di stimoli, di storia, e che «meticciato è bello» anche perché favorisce la nostra salute aumentando il grado di eterozigosità genetica (si perdoni il dettaglio tecnico!).
La biologia è alla base di questa riflessione: la genetica e l’ereditarietà dei mitocondri, ricevuti da tutti noi solo per via materna dalla stessa Eva africana, affermano chiaramente il concetto di uguaglianza. Ogni forma di discriminazione basata su false premesse scientifiche, su leggende, è sbaragliata e falsa: la natura umana è la base indiscutibile dei diritti di tutte le persone ad essere trattate in modo eguale. Tutti gli individui meritano lo stesso grado di rispetto poiché tutti accomunati dallo stesso percorso biologico che si fa sociale nell’assegnare pari dignità a tutti — tutte le persone sono eguali dal punto di vista morale altrimenti nessuno è persona.
La Dichiarazione d’Indipendenza americana del 4 luglio 1776 per prima afferma che «...tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità…»; verrà poi il 1789 con la Rivoluzione francese ad affermare categoricamente che libertà, uguaglianza, fraternità sono valori inscindibili e non serve una laurea in filosofia per capire che senza uguaglianza e fraternità nessuno può dirsi libero. La Dichiarazione universale dei diritti umani (Parigi, 10 dicembre 1948) precisa questi valori già nell’articolo 1: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti».
I fatti di Charlottesville delle scorse settimane sono paradigmatici. Gli Usa sono un Paese dove nel 1857 i giudici della Corte suprema (7 contro 2) dichiarano che Dred Scott è uno schiavo e come tale non ha diritto di cittadinanza: abbattere a Baltimora la statua del giudice Taney (che scrive la sentenza) è un fatto decisamente tardivo che spiega meglio di tante sofisticate analisi il contesto attuale. Contesto attuale che è facile analizzare — non servono studi di sociologia, storia, economia, americanistica, basta aver fatto un paio di viaggi in macchina (nel nostro caso da Seattle a Sioux Falls; da Baltimora a Chicago) ed essersi fermati a dormire, mangiare, parlare con gli abitanti per capire che il razzismo negli Usa (come altrove) è figlio della questione sociale (disoccupazione, bassi salari, assenza di assistenza medica...). Per i bianchi — di qualsivoglia origine — i neri sono nemici perché storicamente impiegati dal complesso industriale per fiaccare e piegare le lotte sociali da loro intraprese (quante analogie con il razzismo in Gran Bretagna verso gli immigrati polacchi, e quindi tutti gli immigrati, che rubano il lavoro eccetera eccetera... buon argomento per fomentare la Brexit).
Il concetto di razza si è andato modellando su ciò che il pubblico di tempo in tempo ha creduto fosse «l’evidenza scientifica» (i tratti somatici per esempio) a sostegno della presunta verità dalla quale dunque appare naturale far scaturire politiche sociali di discriminazione e segregazione (raramente di inclusione) che vengono così giustificate e invocate per legittimare differenze di rendita economica basata su privilegi di potere. L’uso sociale delle conoscenze sul Dna (la «vita» sociale del Dna) ci pare un buon strumento per un ennesimo tentativo, a livello nazionale e internazionale, per risolvere i lasciti del business della schiavitù con tutte le sue terribili ricadute attuali, discriminazione razziale e disuguaglianze economiche. Oggi sperabilmente questo tentativo può lasciare il segno in considerazione dell’interesse e della curiosità sempre crescenti verso la propria costituzione genomica , cioè la struttura del nostro Dna; questo per una serie di ragioni, dal successo dei test genetici fai da te a fini terapeutici (medicina di precisione) a quella per tracciare la propria genealogia (siti come Ancestry.com conquistano utenti alla ricerca dei propri alberi genealogici).
Dunque vi è oggi più che in altri momenti l’opportunità di chiarire i fraintendimenti che si vengono a creare quando si concettualizzano aspetti quali la differenza di colore della pelle o di altri tratti somatici. E ciò è ancora più valido oggigiorno quando anche il comune cittadino sa che il Dna porta con sé le nostre storie passate ed è condiviso, poiché lega a diversi livelli di parentela sia individui sia gruppi di individui.
Il concetto stesso di razza storicamente si modella sulla correlata comprensione da parte della società delle evidenze scientifiche invocate per giustificarne l’impiego per fini di politiche di eugenetica e di discriminazione: e dunque, giustizia sociale e progetti di «riconciliazione razziale» passano per il dovere da parte dei biologi di far conoscere i dati delle ricerche in modo chiaro. Le evidenze scientifiche negano l’esistenza di razze.

Corriere 10.9.17
Tra i migranti bloccati in Libia «Qui solo abusi: rimpatriateci»
di Lorenzo Cremonesi

Tre volte ci ha provato e tre volte ha fallito ad arrivare in Italia dalla Libia. La prima, nel settembre 2014, una milizia locale a Garabulli, uno dei porti a est di Tripoli, ha fermato il suo gommone e derubato lui assieme agli oltre 120 migranti a bordo. La seconda, nel novembre dello stesso anno, è finita in tragedia con il motore in panne e il naufragio a poche centinaia di metri dalla costa. «Almeno una dozzina sono affogati tra il buio e la confusione», ricorda. La terza non ha neppure messo i piedi in acqua. È avvenuto nel maggio 2016. Lui aveva già pagato i quasi 1.000 euro, quando gli scafisti si sono semplicemente dileguati. «Una beffa, un grande imbroglio, come del resto capita spesso in Libia», esclama allargando le braccia e con quel sorriso di bonaria, rassegnata impotenza che spesso accompagna i racconti di questi frammenti d’umanità offesa, violata. A sentirli qui tra i campi per migranti tra Tripoli e Sabratha viene spontaneo chiedersi come facciano a resistere ancora, come possano sopportare tante angherie e una sorte così amara.
Ma non ci sono limiti alle cattive notizie. La sua personale, che poi è quella di altre centinaia di migliaia intrappolati come lui sulle coste della Libia occidentale, l’ha ricevuta circa un mese fa, quando gli è stato detto a chiare lettere dagli scafisti e da una decina di nigeriani che abitavano presso la sua baracca che per il momento la strada per le coste italiane è chiusa, sbarrata. Insomma, non si passa. Così Moussa Lamin, 31 anni appena compiuti, sta ora rivalutando la sua situazione. «Che posso fare? Era da ben prima il mio arrivo in Libia nella primavera del 2014 che progettavo il futuro in Europa. Nel mio villaggio in Gambia avevo studiato l’inglese. Sono bravo con le lingue. Avrei voluto lavorare nel campo alberghiero. Ma adesso per la prima volta in modo serio sto organizzando il mio ritorno a casa», dice. Non è però facile come dirlo. «Qui in Libia lavoro come imbianchino, mi sono specializzato nel rifinire le abitazioni di lusso, opero sugli stucchi. Bene o male racimolo in media sui 20 euro al giorno. In Gambia non so cosa troverò. Ci torno da sconfitto». Il suo problema è soprattutto logistico. A chi chiedere? Come tornare? Il percorso via terra comporta il riattraversare il Sahara, passare per il Niger, il Burkina Faso, il Mali, il Senegal. Vorrebbe viaggiare in aereo, ma non possiede i documenti giusti. «Gli amici mi dicono di cercare su internet, pare ci sia un sito apposito e pagando 50 dinari gli europei ci aiuterebbero a trovare i soldi per il biglietto e facilitare le procedure. Ma non so. Mi sembra strano».
La sua confusione è quella di un migrante giovane, con un’istruzione più alta della media, con qualche risparmio in tasca, in grado di usare il computer e capace di leggere l’inglese. Tutto sommato un privilegiato tra i migranti in Libia. Figurarsi dunque quanto sia grave la situazione delle centinaia di migliaia che non sanno le lingue straniere, sono arrivati da poco e non hanno un soldo. Non è difficile individuarli. Li si incontra anche nei loro tradizionali punti di raccolta lungo le provinciali alla periferia della capitale. Stanno all’ombra dei ponti in attesa delle offerte di lavoro giornaliero: una decina di euro e una minestra in cambio di dieci ore come operai, contadini, elettricisti, facchini. «Sappiamo tutti ormai molto bene che per ora non si passa. Qualcuno prende tempo, sperando che il blocco dei viaggi verso l’Italia sia solo temporaneo. Ma io come tanti altri sto cercando i 910 dinari necessari per il biglietto aereo Tripoli-Niger», racconta il 26enne Suleiman Abu Ghadu. Un altro, il 37enne Ismahil Mussa, a sua volta nigeriano, si dice stanco delle «angherie razziste» subite in Libia. Vorrebbe partire subito, essere rimpatriato. Ma non sa come fare.
È una richiesta di aiuto che rimbalza anche dalle autorità libiche, comprese milizie e non meglio identificate forze locali. «Cosa fanno le Ong, l’Onu, l’Europa? Promettono, promettono di facilitare i rimpatri, annunciano grandi somme. Ma qui non arriva nulla. Le Ong hanno operato in mare, però da noi non mettono piede», ci dice rabbioso tra i tanti Ibrahim al Majub, capo della milizia di Surman, alla periferia di Sabratha, che ha ai suoi ordini un campo abitato da quasi 700 migranti, di cui 210 donne e una ventina di bambini.
Lo stesso ripetono i funzionari del ministero degli Interni a Tripoli incaricati di amministrare i 14 campi ufficiali: «Il fatto grave è che per motivi di sicurezza gli organismi di aiuto internazionale, compresi Unhcr e Imo (le due più grandi organizzazioni mondiali che si occupano di assistere le migrazioni, ndr), non tengono personale straniero in Libia. Il risultato è che non si coordinano sul campo, sprecano risorse, buttano via denaro, lavorano per conto terzi e alla fine i loro sforzi risultano vani».

Repubblica 10.9.17
Le passioni umane nell’eterna lotta alla povertà
di Eugenio Scalfari

PAPA Francesco è arrivato quattro giorni fa in Colombia, paese liberato dalla tirannide e da una sorta di guerra civile. Ha percorso il paese in lungo e in largo, in ogni luogo dove si è fermato a dir messa e a parlare al popolo, il suo discorso arrivava a un milione di persone. Parlava e ripartiva. Ha percorso a dir poco ottomila chilometri per esortare chi lo ascoltava — cioè alla fine l’intero Stato. Ha messo a confronto la realtà della Colombia e il racconto del Vangelo, quando Gesù predica sulle sponde del mare di Galilea a «moltitudini ammaliate da una parola di vita davanti alle acque che racchiudono la speranza dei pescatori e dei suoi seguaci ma anche le tenebre che minacciano l’esistenza umana».
Vedete? Nelle parole di Francesco è lo stesso Gesù, ormai diventato veramente un uomo, che vede al tempo stesso le speranze e le tenebre. Francesco sa qual è il comportamento che il suo Dio diventato uomo vede come rimedio per dissipare le tenebre e conquistare la luce: «Costruire ponti, abbattere i muri, integrare le diversità, promuovere la cultura dell’incontrarsi, del dialogo e dell’ascolto, educare al perdono e alla misericordia, al senso di giustizia, al rifiuto della violenza e al coraggio della pace». Ha chiuso il suo discorso citando il grande scrittore Gabriel García Márquez, che non era cattolico, ma una grande anima: «Di fronte all’aggressione, all’indifferenza e all’abbandono, la nostra risposta è la vita».
«Si può anche pensare a una travolgente utopia della vita, dove sia certo l’amore e sia possibile la felicità». Francesco dà ormai per intesa la sua preghiera del Dio unico e dell’incontro della Chiesa con la modernità e non poteva dimostrarlo meglio che chiudendo il suo discorso con la notizia della felicità dopo cent’anni di guerra, di vessazioni e di solitudine.
***
García Márquez è stato uno dei grandi moderni, parlando soprattutto di quell’area del mondo che chiamiamo sudamericana, dove in larga misura il “meticciato” auspicato da papa Francesco è di fatto avvenuto: in Argentina, in Uruguay, in Ecuador, in Brasile, in Venezuela, in Cile, in Bolivia, in Brasile, nel Messico, nei Caraibi a cominciare da Cuba.
I popoli si sono mescolati, si sono ribellati alla povertà, al populismo, al sovranismo. Della democrazia tuttavia non si può ancora proclamare una piena realizzazione. Esistono però le basi d’un progresso. Ma verso dove?
Questa domanda non vale soltanto per l’America del Centro-Sud, ma per il mondo intero. Ci sono crisi diplomatiche, crisi quasi militari, crisi quasi atomiche, crisi climatiche, crisi economiche. E i grandi paesi in una società globale modernizzata da tecnologie di prim’ordine offrono possibilità di cultura a miliardi di persone, ma non riescono a realizzare progresso e pace. Ci riesce l’America di Trump? La Russia di Putin? La Turchia di Erdogan? Ci riescono la Cina e le due Coree? La Siria? L’Iraq? Gli Emirati? Ci riescono i 27 Paesi di un’Europa diversa, sovranista, populista? L’Iran? L’Egitto? La Cirenaica? La Libia tripolitana? Il Sudan? L’India? Il Pakistan? L’Oceania?
Ho nominato quasi il mondo intero e non credo di aver torto. Può sembrare un’insulsa lezione di geografia, ma non è così. Dietro quella geografia ci sono problemi, una moltitudine di problemi, uno diverso dall’altro, ma in qualche modo combinati l’uno con l’altro, contrapposti ma al tempo stesso collegati. La loro soluzione, almeno parziale, dipende dalla politica? Oppure dall’economia? Dalla volontà dei potenti o dalla resistenza e dalla ribellione dei poveri?
Spesso mi domando: ma i poveri ci saranno sempre? Sembrerebbe di sì, sembrerebbe anzi che siano aumentati, in sintonia con l’aumento della popolazione. Nel corso dei millenni stiamo arrivando a otto miliardi di persone nel pianeta in cui viviamo e i poveri crescono anch’essi, forse in proporzioni leggermente minore rispetto alla popolazione generale, della quale tuttavia rappresentano la maggioranza se per poveri consideriamo non solo i mendicanti e i derelitti ma anche il ceto medio di basso livello, quello che in un paese come il nostro arriva a un reddito di 25 mila euro l’anno. Al di là di questo livello il ceto medio oltrepassa la soglia dell’indigenza.
Quelli sotto la soglia sono numericamente più numerosi? Dipende da paese a paese ma comunque il ceto povero è assai numeroso e quello appena più alto spesso deve contribuire ad un’intera famiglia che ha soltanto bisogni da appagare.
Questa è la situazione in molti paesi. In altri è peggiore o migliore. Ma in un punto tutto il pianeta è uniforme: non sono i poveri che comandano. Il potere non va d’accordo con la povertà. I poveri (l’ho già scritto altre volte) hanno il potere di ribellarsi e di ottenere una sorta di potere provvisorio, ma non di eliminare la propria classe. A meno che… A meno che l’intera società cresca, il reddito collettivo aumenti stabilmente e vada a vantaggio sia dei ceti poveri sia di quelli ricchi. Cioè diminuiscano le diseguaglianze senza però che questo mutamento positivo debba esser pagato con una diminuzione della libertà. Piccoli mutamenti in tal senso possono anche essere accettabili, ma al di là di certi limiti diventano intollerabili.
Queste domande nel corso del tempo se le sono poste in molti, a cominciare da epoche assai antiche fino ad oggi. Sono domande che, pur utilizzando concrete esperienze, sconfinano inevitabilmente nella filosofia.
Oggi ne voglio citare due, entrambi assai significativi. Il primo è Giambattista Vico, che visse quasi tre secoli fa (nacque nel 1668 e morì nel 1744). L’altro è Zygmunt Bauman morto pochi mesi fa. In questi giorni è uscito un ultimo suo libro in edizione italiana (Laterza) intitolato Retrotopia. Laterza, suo amico ed editore italiano, lo ha commentato così: «Bauman si interessava alla condizione umana. Dopo l’età delle utopie del futuro e poi quella che ha negato ogni utopia, oggi viviamo l’epoca dell’utopia del passato».
Ma avviciniamoci a questi due personaggi, di epoche e pensieri profondamente diversi e tuttavia con una visione profonda e abbastanza simile della vita che si profila e si svolge in ciascuno di noi.
Giambattista Vico scrisse molti libri e diresse anche, nei modi in uso nel Settecento, alcuni giovani studenti che si dedicarono a loro volta all’insegnamento. Qualche cosa di simile un secolo fa fece il nostro Francesco De Sanctis, che fu a sua volta studente, insegnante, storico della letteratura, filosofo. Infatti amò molto la filosofia letteraria del Vico, che spesso citava. Citerò anch’io un brano della Scienza Nuova che si presta ad alcune attuali considerazioni.
«La filosofia, per giovare al genere umano, deve salvare e reggere l’uomo caduto e debole, né abbandonarlo nella sua corruzione. La filosofia considera l’uomo quale dev’essere e se questa posizione non spetta che a pochissimi sarebbe meglio vivere nella repubblica di Platone e non rovesciarsi nell’immondizia di Romolo. L’uomo fu formato da Prometeo che impastò le passioni degli altri animali. Nell’essere umano coesistono dunque l’ira del leone, la ferocia della tigre, l’astuzia della volpe, la libidine del cane e del caprone, la prudenza dell’elefante. Da questa favola molti dicono che non c’è più brutta bestia dell’uomo, al quale però Dio dette tutte queste nature facendone il re degli animali e la più perfetta delle sue creature. Senonché, quando con la prudenza che è la natura principale di cui è stato dotato, l’uomo non domina tutte queste passioni, allora si può dire non soltanto che egli è la più brutta e feroce delle bestie, ma il diavolo ».
La prudenza per gestire le passioni: questa è la visione del Vico. Per avere una consistente e vera natura, l’uomo (o donna che sia) non può e non deve essere una creatura quasi angelica. I suoi impulsi personali fanno parte della sua (nostra) natura, altrimenti saremmo un contenitore vuoto, senz’anima, senza sentimenti, senza volontà. L’uomo deve invece poter gestire se stesso, adattando una visione che considera anche e soprattutto l’esistenza degli altri.
Vico disse esplicitamente quale fosse quella sua visione. Detestava Cesare, troppo volitivo; amava Alessandro e anche Ottaviano Augusto: tutti e due animati da intense passioni ma consapevoli anche del pensiero degli altri e del futuro.
È una versione pregevole, ma si pensa al futuro avendo in mente il passato oppure queste due diverse temporalità non si combinano e l’uomo resta privo dell’una o dell’altra o di tutte e due, affidandosi soltanto al presente? Ci poniamo spesso questa domanda e se la pone con molta sapienza anche Bauman. Vediamo come.
Il tema che affascina questo che è stato uno dei più importanti pensatori dell’epoca nostra, del quale Ezio Mauro è stato uno dei più validi amici, condividendo anche molte riflessioni filosofiche, sociali e politiche, è stato un’analisi del tempo.
Molti hanno pensato il tempo come l’elemento principale della nostra vita, o meglio: della nostra visione della vita e quindi delle concrete azioni che ciascuno di noi compie nella misura in cui quella volta vuole attuarla.
Bauman parla ad un certo punto della nostalgia come uno dei sentimenti essenziali: il rimpianto della nostalgia. Ma, scrive Bauman nel suo nuovo e purtroppo ultimo libro: «La nostalgia è soltanto una della vasta famiglia delle relazioni affettive con un “altrove”. Relazioni di questo tipo sono indispensabili per la condizione umana. Il mondo qui e ora non è che uno del numero indefinibile di mondi pensabili».
E quali sono questi mondi pensabili? Essenzialmente sono tre ma con diverse combinazioni tra loro. C’è chi è dominato dal ricordo del passato. Un certo passato, dovuto ai testi da lui conosciuti o per studio o anche per personale esperienza (in tal caso un passato prossimo).
Quel passato dominante ispira anche un certo tipo di futuro da costruire. Quando? Subito. Quindi operando nel presente. Questa è la principale e più armoniosa combinazione: il passato ti guida a vagheggiare e costruire un futuro del quale cominci nel presente a porre le basi.
Ma c’è invece chi è dominato da una visione del futuro e quindi da un’ideologia che lo disegna e lo propone. In questo caso il passato è ignorato, anche se si possono cercare in esso le radici dell’ideologia.
Infine c’è chi vive il presente e quello soltanto. Non conosce il passato e pensa ad un “futuro prossimo”, quello che di fatto è un presente leggermente esteso. Direi che la maggioranza delle persone vive il tempo in questo modo. Soprattutto i poveri e poco abbienti. Nessuna forma di temporalità: pensano all’oggi, e a un domani di pochi giorni o addirittura di poche ore. E questo è tutto: la grandissima maggioranza delle persone vive in questo modo.

Repubblica 10.9.17
Chi ha paura dell’inconscio?
Pensieri di uno psicoanalista irriverente, di Antonino Ferro, Raffaello Cortina Editore
di Massimo Recalcati

Dogmatismo, conformismo e troppa riverenza verso il passato ostacolano l’apertura di nuove strade di ricerca. Ma era lo stesso Freud a dire che la psicoanalisi non conosce “verità ultime e fuori dal tempo” È la tesi del libro-conversazione con cui Antonino Ferro mette in guardia dalle rigidità della dottrina E spiega perché la libertà di pensiero dovrebbe essere il presupposto etico di ogni analista
In un libretto agile, divertente ma per niente banale, titolato Pensieri di uno psicoanalista irriverente (Raffaello Cortina), Antonino Ferro propone, in una conversazione con Luca Nicoli, una serie di riflessioni sul tema della formazione degli psicoanalisti e della loro pratica. Nell’epoca della riduzione neuroscientifica dell’inconscio alla struttura del cervello e dei suoi meccanismi neuronali, nell’epoca del dominio delle psicoterapie orientate pragmaticamente da un criterio conformistico e, insieme, autoritario di normalizzazione del comportamento e del pensiero, ha ancora senso credere nell’inconscio? Si può ancora pensare all’inconscio non come un concetto della filosofia, ma come un’ esperienza capace di trasformare davvero la vita, di renderla meno sterile e più generativa? E quale sarebbe, oggi, il percorso più raccomandato nella formazione dei futuri psicoanalisti? La psicoanalisi sembra una disciplina che non ha conosciuto il tempo traumatico della rottamazione. Come fa giustamente notare Ferro uno dei suoi sintomi più clamorosi è la discrepanza tra l’età anagrafica dello psicoanalista e la sua maturità professionale. Non credo esista equivalente in nessuna altra professione: a quarant’anni si è considerati ancora giovani e inadatti a praticare la psicoanalisi. I capelli bianchi (o la loro assenza) sembrano essere un criterio generazionale indispensabile per sancire la giusta competenza dell’analista. Una sorta di delirio cronologico si è impossessato della formazione psicoanalitica generando caste di analisti che nel nome della loro esperienza guardano dall’alto al basso i loro colleghi più giovani. Lacan stesso, a suo tempo, aveva già messo in guardia su questo pericolo segnalando come il peggior ostacolo alla psicoanalisi provenga da quegli analisti che si credono installati nel loro essere analisti senza più considerare che la psicoanalisi esiste solo se si reinventa con ogni paziente. Il paternalismo e la burocratizzazione delle gerarchie è un fenomeno politico che nel nostro paese assume, come sappiamo, ben al di là della psicoanalisi, la fisionomia di una vera e propria piaga. Nella psicoanalisi non si tratta solo di una segregazione anagrafica. In essa si manifesta il sintomo maggiore della psicoanalisi che Ferro non manca di segnalare con coraggio: dogmatismo, conformismo, eccesso di ortodossia e di riverenza verso il passato che impedisce l’apertura di nuovi sentieri di ricerca. “Gli analisti — dichiara — devono difendersi soprattutto dal Kyrie eleison, Christe eleison psicoanalitico, cioè da quelle formule ormai completamente vuote che devono essere ripetute come segno di appartenenza e che vanno continuamente riproposte per essere accettati e riconosciuti come parte del gruppo”.
Una disciplina che è nata animata dal soffio dello spirito critico si ritrova a essere imbalsamata da una fedeltà alla dottrina di tipo religioso. Il problema che Ferro pone è quello della libertà di pensiero come postura etica fondamentale dello psicoanalista. In questo senso Freud stesso — che Ferro vorrebbe, diversamente da chi scrive, mettere nel museo delle cere dell’Ottocento — insisteva a definire la psicoanalisi “laica”, cioè — etimologicamente — un sapere che non conosce le verità assolute, ultime, fuori dal tempo. Non si tratta però di liberare solo la psicoanalisi dall’ombra spessa del padre — Freud — , ma, innanzitutto, di liberarsi di una forma mentale che imprigiona l’analista in cliché che ne paralizzano l’azione e il pensiero. Quali? Il numero delle sedute settimanali per esempio, il feticismo della tecnica o quello dell’immagine imperturbabile dell’analista che — in una scena raccontata da Ferro — anche se vede una donna incinta cadere davanti ai suoi occhi nel proprio studio, per rispettare la cosiddetta neutralità analitica, resta immobile nella sua poltrona, ma soprattutto quelli che derivano dalla codificazione rigida della dottrina. Non a caso Thomas H.Ogden, autore molto in sintonia con Ferro e tra i più interessanti nel panorama contemporaneo della psicoanalisi, in Vite non vissute (Raffaello Cortina), ricorda l’importanza dell’umanità dell’analista nel suo rapporto col paziente. Non è la vita che deve servire la psicoanalisi ma la psicoanalisi la vita. Per questo Ferro legge l’inconscio accentuandone non tanto la caratteristica topica — com’era per Freud: l’inconscio è un luogo separato da quello della coscienza — ma mettendone in valore l’aspetto trasformativo. L’inconscio non è il rimosso, il separato dalla coscienza o il suo sottosuolo che si tratta di decifrare attraverso l’attività dell’interpretazione, ma il processo stesso della simbolizzazione, della narrazione che interviene quando, come accade in seduta, una persona parla con un’altra. È qui che si misura la rottura epistemologica con l’inconscio pulsionale di Freud.
È il programma che caratterizza tutto il lavoro di Ferro e di Ogden. Il pensiero deve essere capace di trasformare in sogno — in una narrazione nuova e condivisa — ciò che affligge la vita di un soggetto: i suoi traumi, l’angoscia, la sofferenza, l’inibizione, l’impulsività distruttiva. Questo significa che nel lavoro dell’analista bisogna fare in modo che quello che non è stato possibile pensare nel tempo della ferita traumatica possa esserlo in modo inedito nel tempo della seduta. Il lavoro dello psicoanalista non è quello di decifrare il passato che si ripete — il “potere di ieri”, come avrebbe detto Jung — , ma di rendere pensabile quello che non lo è mai stato. Ecco perché la passione per la verità, emancipata da ogni spirito poliziesco, viene ricollocata al centro dell’esperienza dell’analisi. Lo ricorda Ogden citando Bion: la mente umana ha bisogno di verità quanto ha bisogno di acqua o di cibo. Un pensiero che vuole essere trasformativo non si limita a rendere coscienti i traumi del passato, ma sa aprire sull’ignoto, sul non ancora pensato. È la stessa idea presente in Lacan dell’inconscio al futuro anteriore: io non sono quello che il passato ha fatto di me, ma sono sempre quello che può — a partire dal suo passato — risignificare il passato che lo ha fatto in modo nuovo rendendolo futuro.

Il Fatto 10.9.17
Minniti, il potere che non cerca consenso
di Pietrangelo Buttafuoco

Un’emergenza c’era. E lui l’ha risolta. Gli sbarchi di disperati – profughi, migranti, fuggiaschi – sono diminuiti dell’ottanta per cento. Certo, crepano altrove, ma il Mediterraneo è tornato “nostrum” e Marco Minniti, ministro dell’Interno, si conferma come il mr. Wolf, quello di Pulp Fiction. È “quello che risolve problemi.”
Risolve, dunque, e di sua luce ne gode per riflesso Paolo Gentiloni, il presidente del Consiglio, che – ombroso di suo – non avrebbe di che lucere. Scoppia un caso imbarazzante come la crisi con l’Austria, per le frontiere al Brennero dove i carri armati sbarrano la strada ai clandestini in viaggio dall’Italia e di fronte all’inerzia della Farnesina, la sede di Angelino Alfano, Minnitti sussurra al premier: “Devo farlo io il ministro degli Esteri?”
Sbirro, per come lo sputacchia l’umanista Gino Strada, Minniti se la sbroglia con le patate più bollenti: il caso Ong – ovvero i “taxi del Mediterraneo” – quindi il tema dell’accoglienza e poi i rapporti con il Maghreb.
Tanta è la sabbia che si porta sotto le scarpe. E tra le dune della Cirenaica e della Tripolitania – in forza di un curriculum tutto di Icsa, ovvero Intelligence, culture and strategic analysis – Minniti che gli appunti se li trascrive in limpido latino ciceroniano, schermato dalle sue lenti scure, offre di se stesso un profilo bifronte.
Un po’ Scipione l’Africano, un po’ Joseph Fouché
Per metà s’atteggia a Scipione l’Africano. Ogni volta che s’imbarca alla volta della quarta sponda rimugina ed ebbene sì, canticchia, Lettera al Governatore della Libia, la bella canzone di Franco Battiato: “Carico di lussuria si presentò l’autunno di Bengasi.”
Per l’altra metà recita il ruolo di Joseph Fouché, il ministro della polizia francese già giacobino e poi duca d’Otranto con Napoleone, giusto lui – il comunista reggino – che quell’Icsa, la fondazione che studia e alleva lo spionaggio per conto della Nato, l’ha creata con il suo compianto mentore, Francesco Cossiga.
Della falce e martello, del suo imprinting, Minniti trattiene – e non è una contraddizione rispetto alle trame del fu Picconatore – più che l’eredità simbolica di un Enrico Berlinguer, la sostanza poliziesca di Ugo Pecchioli.
È, questi, il comunista del “centralismo democratico” incaricato dalla direzione del Pci di studiare i “problemi dello Stato”, ed è quello che – nella trattativa con le Brigate Rosse, nei giorni del rapimento di Aldo Moro – costringe tutti alla linea della fermezza.
Il sequestrato è ucciso. Cossiga, responsabile del Viminale, ne ricava la vitiligine, la malinconia e i capelli bianchi; e il Pci – pur all’opposizione, confermandosi come partito di massa ma della legge e dell’ordine – salva l’Italia dal terrorismo ed elimina, dall’album di famiglia, le Br.
C’era quell’emergenza, e Pecchioli – nel suo ruolo appartato di funzionario del Partito Stato – la risolveva. L’onda della violenza straripava in ogni angolo d’Italia, l’iniziativa giudiziaria bussava ovunque l’infantilismo estremista della sinistra incontrava la deriva assassina, il baratro inghiottiva decenni di lotte sindacali e il centralismo democratico, ossia l’inesorabile macchina di controllo del partito comunista, decideva allora responsabilmente: con lo Stato. Non con le Br.
È storia di ieri e chi oggi crede che Minniti – l’uomo che raddoppia le espulsioni e moltiplica i Centri d’identificazione degli immigrati – faccia la destra, incappa in un’ignoranza. Perfino il Guardian, per quanto rispettabile nel suo aplomb, nel presentarlo come “quello di sinistra che piace alla destra” prende un coniglietto nella mesta botola del luogo comune.
L’attuale responsabile del Viminale trova coerenza e metodo dentro la sua storia di attivista della FGCI, la Federazione giovanile comunisti italiani. È nella bandiera rossa della sua formazione, infatti, che avvolge tutte le patate bollenti – passate e presenti – della sua carriera. Il suo principale collaboratore è Achille Passoni, ex senatore, sempre discendenza Botteghe Oscure, marito del ministro Valeria Fedeli, notissimo per essere un grande organizzatore, e anche qui – nella scelta degli uomini, nello scandire della vita di Minniti –c’è l’apparato eterno del Pci.
Forse fa schermo dei suoi occhiali scuri ma è in quelle lenti che vede scorrere le immagini di vicende tutte sue. Storie dove le sue decisioni – nel suo ruolo di appartato funzionario del Partito Stato – hanno avuto un esito oltre ogni complicazione.
Ecco qualche fotogramma: le operazioni di guerra in Serbia e in Còssovo. Uomo, appunto delle operazioni “complicate”, Minnitti lavora come “coordinatore del comitato interministeriale per la ricostruzione dei Balcani”.
È l’uomo, qualora s’imponga il caso, anche delle operazioni sporche. Come la patata Abdullah Ocalan. È il leader del partito comunista curdo, catturato in Italia e consegnato alla Turchia. Minniti è sottosegretario del governo di Massimo D’Alema, il primo italiano comunista giusto a Palazzo Chigi (grazie alle trame di Francesco Cossiga). L’operazione doveva farsi e si fa. Ocalan, oggi, è l’unico detenuto nell’isola prigione di Imrali.
Le cose che si devono fare si devono saper fare, dunque. Altro che il caso Shalabayeva verrebbe da dire. La moglie del miliardario kazako Mukhtar Ablyazov prelevata ed espulsa dall’Italia nel maggio 2013 quando al Viminale c’è Angelino Alfano. Un caso scottante dove a pagare sono i funzionari dello Stato costretti all’obbedienza di ordini altrui e nulla accade al titolare del ministero – Alfano, giusto il predecessore di Minniti – che in quella delicatissima sede, sia nel bene sia nel male, come nel maledetto pasticcio kazako, ci passa come l’acqua sul marmo.
A che servirebbe conquistare il partito?
Nessuno spretato smette di essere sacerdote. E così, nessuno che è nato comunista, rinuncia al dogma di un’unica chiesa, la politica. E davvero le cose che si devono fare si devono saper fare – anche le porcherie della concretezza di Stato – se sullo schermo dei suoi occhiali, Minniti, trattiene tutte le emozioni, i suoi intendimenti, le sue vere ambizioni. Ha tutto pronto per prendersi il Partito Democratico ma poi per che farsene se quello che più gli piace in assoluto è quello che già sta facendo?
Emergenza c’è, è il Pd, ma lui che nell’emergenza emerge, non la ritiene – quella del partito – un’urgenza. Fedele al dettato di un unico primato, quello della politica, capisce che la decisione prende forma ben oltre via del Nazareno, magari nel confronto parlamentare dove senza darlo a intendere, facendo finta di farsele spiegare le cose – a proposito del lavoro delle procure di Trapani e Catania sul caso delle Ong – sa quali pesci andare a pescare. Imbocca i deputati della Lega Nord, di Fratelli d’Italia e del Movimento Cinque Stelle che subito dopo, con dichiarazioni ed emendamenti gli fanno da battistrada per attuare quel suo decreto dove, con abilità di Fouché e visione di Scipione, smussa la solidarietà a beneficio della sicurezza.
Un primato della politica che, con non poche insidie, mette a dura prova nella maggioranza chiamata a reggere l’esecutivo dove lui, a differenza di altri ministri, non dice mai una sola parola contro gli scissionisti di Pier Luigi Bersani, e mai si fa trascinare nel settarismo fideistico dei renziani tanto che se antipodi ci sono, e tali sono nel Pd, il suo opposto a rischio di incomunicabilità, giusto nella sua Calabria, è uno: Ernesto Carbone.
Oltre a Matteo Renzi, che l’ha segnato sul libro nero – tutto vuole il segretario del Pd fuorché uno che porti risultati e consenso al governo – anche lo stesso Gentiloni ormai lo soffre. Mentre Alfano non se ne cura, preoccupato solo delle trattative per la sopravvivenza del proprio partito, il presidente del Consiglio patisce l’efficientismo di Minniti, specie nel contesto internazionale dove il titolare del Viminale riesce a tenere banco, e ad avere informazioni e risposte, su tutti i dossier più delicati.
Se da un lato, Minniti, è tenuto in grande considerazione dagli occidentalisti più destrorsi dell’amministrazione Usa – cui, per tramite dell’Icsa, accasa anche dei cretini improbabili – dall’altro lato s’avvale di competenze maturate negli anni di collaborazione e confronto con Gianni De Gennaro. L’ex Capo della Polizia, oltre allo stesso Minniti – e con Gianni Letta – è il detentore di informazione e responsabilità. Conosce i segreti delle umane e delle divine cose. Ed è dottrina viva di Legge.
Tutti e tre, fateci caso, sono estranei alla sceneggiata del consenso. Le uniche tre personalità – sono tre riserve delle Istituzioni – a non avere alcun profilo social, né twitter e neppure facebook, né tanto meno, in fregola di visibilità, raggiungibili.
Nato a Reggio Calabria, nato bene, Minniti è padre di famiglia. Da sempre in politica, venuto alla notorietà con la stagione di Massimo D’Alema, nel 2007 sta dalla parte di Walter Veltroni perché è segretario regionale in Calabria e – il metodo di Palmiro Togliatti fa testo – non può certo sfasciare il partito.
Quella nota nello stile un po’ metrosexual
Solido nella sua stagione di mezza età, costretto ai riflettori – nella penombra del suo rigore claustrale – il ministro che ebbe per compagni di staff, e sempre ai tempi di D’Alema a palazzo Chigi, Claudio Velardi, Fabrizio Rondolino e Nicola Latorre, si concede uno squillo di nota tutto metrosexual.
Elegante e nerovestito, è pronto per la cover di Vanity Fair. Ma dalle giacche, ebbene sì, il signor ministro fa venire fuori le braccia nude. Sono camicie bianche a maniche corte, ma non da testimone di Geova bensì da pilota d’aereo. Quelle di quando ai comandi, levandosi la giacca, il pilota si mette in libertà per afferrare la cloche.
Uomo che non ha mai timbrato il cartellino, laureato professore senza mai essere entrato in un’aula, Minniti – figlio di un eroe della Guerra di Spagna, e non nel senso in cui s’intende comunemente la parte eroica in quel conflitto – è uno di quei raffinati intenditori che dicono “aviazione” in luogo di “aeronautica”.
Aviatore di suo, a differenza di un Gianfranco Fini che s’abbottonava la giubba delle Frecce Tricolori e là restava, Minniti sa pilotare gli aerei. È anche tonico e se solo cedesse alla tentazione di ascoltare il suo Ego profondo riuscirebbe là dove un altro famoso comunista, perfino Colonnello del KGB, dà continua prova d’immagine.
Una battuta di caccia in Aspromonte, come Vladimir Putin in Siberia. Oppure con una canna da pesca in un torrente della Sila. E magari afferrare per le zanne un lupo, uno di quelli in transito dal Pollino, e poco male se il suo ufficio non è più riuscito a catturare Igor Vaclaciv, lo slavo fuggiasco sparito tra i pantani di Comacchio per non tornare più in galera.
Figurarsi se, stringendo la barra di comando – come Putin, appunto – Minniti non starebbe bene a bordo di un aereo. Un caccia militare di quelli dove ci si deve inguainare di tute apposite, per non sentirsi frantumare i capillari negli sbalzi di pressurizzazione, un velivolo da dove, sorvolando il mare, tornato a essere nostrum, si possa ben dire – e lui lo ripete sempre –“chi vola, vale; chi non vale non vola; chi vale e non vola è un vile.”
Uomo degli sgomberi, e delle vie di fatto, Minniti – ebbene sì – è uomo del Sud. Quel Meridione che paradossalmente, da periferia qual è, sempre nella deriva delinquenziale, fabbrica poi uomini della legge e dell’ordine e poi ancora ministri – da Francesco Crispi, a Mario Scelba – del ferro e del fuoco.
Messo a cuocere nel forno del malcontento sociale, Minniti, ancora non è giunto al giusto grado d’odio delle masse, come un tempo fu per Scelba – il castigatore del proletariato, a forza di celerini – o come ancora prima Crispi, l’ex garibaldino che poi attuò la legge marziale contro i contadini affamati e i moti socialisti dei Fasci siciliani.
Cauto tra le insidie dell’ideologicamente corretto, il ministro dal cranio rasato resta il privilegiato Mercurio – gli analisti della geopolitica lo chiamano così – pronto a essere testa di ponte tra i mondi lontanissimi, quelli dell’emergenza reale e quelli della provvisorietà politicante sempre virtuale in conseguenza degli umori volatili.
La sua prima ossessione, ancor più che la palude del partito, è quella del controllo capillare del territorio. Sapere ciò che c’è da sapere e fare quello che c’è da fare.
Sullo schermo che si porta sempre sul naso – quello delle sue lenti scure – Minniti rivede dal film della sua vita, il battesimo della politica che ebbe pater et gloria, per lui, in una raffica di lupara.
Quella che a Nicotera, nella piana di Gioia Tauro, tolse alla vita Giuseppe Valarioti, un insegnante di lettere, un archeologo, un uomo perbene cui il ragazzo Marco Minniti – all’anagrafe Domenico, chiamato Marco in omaggio al fratello gemello morto – s’affida per raccoglierne il testimone.
Un comunista, Valarioti, che la ‘ndrangheta volle eliminare senza sapere di fabbricare, uccidendolo, un ben più pericoloso nemico. Un ministro, anzi, no: uno sbirro.

Il Fatto 10.9.17
“Stiamo con Milena Gabanelli”
Lavora in Rai da 35 anni, negli ultimi venti ha condotto e ideato Report, qualunque emittente dovrebbe essere orgogliosa di averla tra i propri protagonisti
di Peter Gomez, Antonio Padellaro e Marco Travaglio

Milena Gabanelli lavora da 35 anni per la Rai. Negli ultimi 20, fino a pochi mesi fa, ha ideato, animato e condotto Report, fiore all’occhiello del videogiornalismo di inchiesta, ora affidato ai suoi migliori allievi. Poi le è stato affidato il portale digitale di informazione Rai e vi si è dedicata con la consueta passione e professionalità. Ma quel progetto è rimasto sulla carta, per le incomprensibili (o forse fin troppo comprensibili) resistenze dell’azienda pagata con i nostri soldi, ma teleguidata dai partiti.
Per non dover ammettere di aver cacciato anche lei, ultima di una lunga lista di proscrizione che va dall’èra Berlusconi all’èra Renzi, i vertici Rai le hanno fatto una proposta che, per dignità, doveva rifiutare: la condirezione di Rainews24, testata e sito semiclandestini con un pugno di collaboratori scelti da altri. E la Gabanelli, sempre per dignità, si è posta in aspettativa non retribuita: cioè – checchè ne dicano i minimizzatori dei partiti e della stampa al seguito – fuori dalla Rai.
Noi pensiamo che qualunque emittente del mondo libero sarebbe orgogliosa di avere Milena Gabanelli tra le proprie file e di metterla in condizione di lavorare al meglio. Il suo nome è uno dei pochi motivi validi rimasti a giustificare il canone e la qualifica di “servizio pubblico” per quello che è sempre più un servizietto privato dei partiti.
Negli ultimi anni la Rai ha fatto di tutto per perdere la Gabanelli e alla fine ci è riuscita. Missione compiuta, nel silenzio omertoso di destra, centro, sinistra e dei grandi giornali, che ora giocano a dipingerla come una donna capricciosa e umorale per non chiamare le cose con il loro nome.
Siccome noi cittadini siamo i veri proprietari della Rai, vogliamo rompere questo muro di silenzio e di assuefazione, rivendicare il nostro diritto a un’informazione pubblica libera e indipendente (soprattutto nell’anno delle elezioni ) e smascherare il giochino di chi tenta di ridurre questo ennesimo scandalo a normale routine burocratica, contrattuale o caratteriale.
Perciò lo diciamo forte e chiaro: noi stiamo con Milena Gabanelli e la rivogliamo subito in televisione.
Con questo appello, “Il Fatto Quotidiano” lancia una raccolta firme a favore del ritorno in tv della giornalista Milena Gabanelli. Chi vuole sottoscriverlo può farlo da oggi sia sul sito del nostro giornale, ilfattoquotidiano.it, sia sulla piattaforma “Change.org”. Vi chiediamo di condividerlo sulle vostre pagine dei social network e di far girare la voce presso i vostri amici e conoscenti, perché diventi virale e raggiunga il maggior numero di persone che hanno a cuore la libertà di informazione.

Il Fatto10.9.17
“È scomoda, una priorità assoluta riportarla in Rai”
Ferruccio de Bortoli: “Fondamentale per il servizio pubblico rilanciare l’informazione online. Milena dà fastidio, come tutte le grandi firme”
di Silvia Truzzi
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/e-scomoda-una-priorita-assoluta-riportarla-in-rai/


Il Fatto 10.9.17
L’offerta inaccettabile di Orfeo e del Cda, poi l’autosospensione

Che la Rai volesse mettere alla porta Milena Gabanelli cominciava ad essere chiaro già mesi fa. Dopo quasi vent’anni alla guida di Report, lo scorso anno la Gabanelli aveva annunciato l’addio al programma, lasciato nelle mani del collega Sigfrido Ranucci. Poco dopo, ecco la promessa: l’allora direttore generale di viale Mazzini Antonio Campo Dall’orto propone alla conduttrice la direzione di una nuova testata, Rai24, portale che avrebbe dovuto avere a disposizione un centinaio di giornalisti. A maggio, però, Campo Dall’Orto viene di fatto sfiduciato dal Consiglio d’amministrazione e al suo posto arriva Mario Orfeo, ex direttore del Tg1. A questo punto il progetto Rai24 naufraga definitivamente e sulla Gabanelli inizia un teatrino dall’esito scontato. Orfeo le propone di rilanciare RaiNews, con “l’obiettivo di contrastare il virus delle fake news” (sic). Su proposta di Freccero arriva la proposta di condirezione, ma la Gabanelli rifiuta e annuncia l’autosospensione: “Non posso mettere la faccia in un progetto non mio, senza le risorse adeguate a coprire le 24 ore e senza alcuna possibilità di decollare”.

Corriere 10.9.17
«Bersani ora è settario, sembra Turigliatto Gli elettori ignorino Fava e scelgano il voto utile»
Faraone: altrove Mdp sta in giunta con i centristi
Cambino o faremo lo stesso appello alle Politiche
di Monica Guerzoni

ROMA In Sicilia il Pd è destinato a perdere?
«Bastava seguire con me il tour di Renzi per pensare il contrario», fa scongiuri il sottosegretario Davide Faraone.
Perché il leader non ci mette del tutto la faccia?
«Renzi non ci mette la faccia perché sa che i siciliani devono votare per la Sicilia, non per rafforzare una leadership. Per questo abbiamo presentato una candidatura che è la vera novità di queste elezioni».
I sondaggi non premiano il rettore Micari, non le pare?
«Non lo premiano perché non si è candidato quattro volte, come Musumeci. Anche Cancelleri del M5S si candida per la seconda volta, mentre Micari è il cambiamento. È competente, con un curriculum di tutto rispetto. Non è popolare? Grazie ai social il problema si risolve subito».
Esagera Renzi quando descrive D’Alema e Bersani «in piena deriva rifondarola»?
«No, è così. Il Bersani segretario era riformista, non settario. Ora invece pur di andare contro Renzi è diventato un Turigliatto (il senatore di Rifondazione additato per la caduta di Prodi nel 2006, ndr )».
Vi siete pentiti della scelta del candidato?
«Micari è stato proposto da Leoluca Orlando in una riunione con Mdp e Sinistra italiana e siccome noi abbiamo detto sì loro hanno detto no. Incredibile».
Avete sbagliato la strategia imbarcando Alfano ?
«Mi spieghino D’Alema e Bersani perché hanno detto sì a Palermo, mi spieghi Speranza perché Alfano va bene a Potenza, che è la sua città, e perché con Alfano governano il Paese. È una contraddizione grossa come una casa. Vogliono solo creare danno al Pd».
Perché non avete accolto la mediazione di Pisapia per rimettere assieme i cocci? Siete autolesionisti ?
«Credo che Pisapia si riferisse più che altro alle forze di centrosinistra che si sono distaccate da questo percorso».
Sul Corriere sembrava avercela anche con voi.
«Ci hanno attaccato dicendo che Renzi era isolazionista. Abbiamo accettato la proposta unitaria di Orlando, che il primo luglio era in piazza con Pisapia, Bersani e D’Alema, per una coalizione ampia e civica senza mettere in campo nostri uomini. Se ci dicono ugualmente no, è una posizione palesemente strumentale».
E adesso, come pensate di vincere le elezioni?
«Lanciamo un appello ai siciliani sul voto utile, perché votare Fava è come scegliere Musumeci, Salvini o i 5 Stelle. Con la favola di un incontro in cui Renzi avrebbe promesso posti ad Alfano lasciano spazio a Salvini che ci chiama terroni. Così vanno contro i siciliani, non contro Renzi. Vogliono consegnare alla Lega una terra di frontiera?».
La spaccatura avrà conseguenze alle Politiche? Pisapia non starà in lista con voi.
«No, le regionali siciliane sono siciliane. Anche alle politiche, se la sinistra sarà animata dallo stesso devastante spirito settario, faremo appello al voto utile. Quando gli elettori dovranno scegliere tra la leadership populista e quella sovranista, voteranno Renzi».

il manifesto 10.9.17
Firenze, la sinistra e la nuova marca di detersivo
La festa di Rifondazione. Il dibattito con Tomaso Montanari, Paolo Berdini, Chiara Giunti dell'Altra Europa e, naturalmente il padrone di casa Maurizio Acerbo con Nicola Fratoianni
Maurizio Acerbo conclude ora il dibattito sulla #sinistra alla festa di Rifondazione
di Riccardo Chiari

FIRENZE L’inchiesta sulla rivoluzione d’ottobre, donata dal manifesto, fa bella mostra di sé nelle 33 tavole giganti che abbelliscono gli spazi della festa nazionale di Rifondazione comunista. I giardini dell’Obihall sono affollatissimi, almeno mezzo migliaio di donne e uomini di ogni età riempiono il ristorante e il contiguo spazio dibattiti, dove questa sera si parla di «Sinistra: come, dove e quando». Ci sono Tomaso Montanari, che appena due giorni prima ha catalizzato l’attenzione di trecento attivisti fiorentini nel suo giro d’Italia organizzato per dare fondamenta all’appello del Brancaccio. Poi Paolo Berdini, Chiara Giunti dell’Altra Europa e, naturalmente il padrone di casa Maurizio Acerbo con Nicola Fratoianni.
Il popolo della sinistra c’è. A 200 metri di distanza, alla festa Mdp, ci sono in contemporanea Pippo Civati e Arturo Scotto, Antonio Floridia e Daniela Lastri. Quello che ancora manca è la chiarezza, osserva Francesca Fornario che tiene le fila dell’incontro: «Alla sinistra del Pd c’è ua discussione surreale: c’è Rifondazione che attende Sinistra italiana, che a sua volta attende Mdp, che a sua volta attende Pisapia che attende il Pd. Sembra di essere alla fiera dell’est…».
Fornario coglie nel segno: «È vero, la sinistra unita si doveva fare prima, siamo in ritardo – le risponde Maurizio Acerbo – ma fare la sinistra non è come inventare una nuova marca di detersivo da vendere. È mettere insieme tutti quelli che in questi anni si sono opposti alle politiche neoliberiste, e alle guerre. Minoritari? Lo dicono a quelli che fanno seguire alle parole i fatti, che dicono cose nette, chiare. Come Sanders, come Corbyn, che sono stati efficaci perché sono credibili. Mentre noi, con tutto il rispetto, non possiamo mettere alla nostra testa chi le guerre le ha fatte, e continua perfino a difenderle. La sinistra è stata sconfitta nella società perché è stata troppo politicante».
Il segretario del Prc, nel merito, ribadisce la bontà del decalogo del Brancaccio. E così fa Nicola Fratoianni, che però segnala ad Acerbo: «Chi ha oggi vent’anni non ricorda il Kosovo. Invece ricorda benissimo il pareggio di bilancio in Costituzione, e Bersani in tv che prende le distanze da Corbyn. Un Corbyn, o un Iglesias o un Mélenchon, che però noi non abbiamo».
Qui il segretario di Sinistra italiana pone il tema della leadership: «Si deve costruire, perché la politica è dinamica». Poi, alla domanda di Fornario se non abbia il timore che i voti si elidano di fronte a un generico rassemblement alla sinistra del Pd, Fratoianni ammette: «È possibile. Per questo dobbiamo guardare al terreno delle proposte politiche. Se non costruiamo un progetto che dia risposte all’idea che abbiamo di questo paese nei prossimi vent’anni, non andiamo lontano. Sto girando l’Italia e tanti mi dicono: ‘Dateci la possibilità di votarvi’».
Da dove passa la conquista del consenso? Dalla ribadita – e meritoria – indisponibilità ad ammorbidire il senso politico del decalogo del Brancaccio (Acerbo); ma anche dalla faticosa riconquista di una egemonia socioculturale, che faccia massa critica e impedisca al paese di scivolare ancor di più a destra (Fratoianni). Nel mezzo Tomaso Montanari, a cercare un equilibrio non facile: «Al Brancaccio c’era anche D’Alema, e gli abbiamo detto in faccia quello che pensiamo sulla guerra del Kosovo. Poi gli abbiamo detto anche ‘guardiamo avanti, è essenziale che si possa costruire un’alleanza che si presenti con un volto solo, e che sia radicale’. Perché se ci impantaniamo con il passato, e cediamo a questo istinto che pure è forte anche per me, rischiamo di non dare risposte ai giovani che sono andati a votare per la prima volta il 4 dicembre, e che per i prossimi vent’anni si aspettano dalla sinistra risposte politiche opposte a quelle degli ultimi vent’anni. Perché se penso al nostro presidente regionale Rossi sull’aeroporto intercontinentale che vogliono fare a Peretola…». Un tema caldissimo qui a Firenze. Così come sono sempre caldissimi i temi dei beni comuni a partire dall’acqua, rimarcati da Chiara Giunti, e dei servizi pubblici «che devono essere, appunto, pubblici» evocati da Paolo Berdini. Temi di sinistra.

La Stampa 10.9.17
“Gentiloni candidato premier”
Una fronda anti-Renzi nel Pd
Emiliano traccia il solco. Ma tiene il patto tra il segretario e il suo successore
di Carlo Bertini Alessandro Di Matteo

«Abbiamo bisogno di istituzioni rassicuranti», sorride con tono soffice Paolo Gentiloni di fronte ai manager della Fiera del Levante. E proprio a questo pensano i tanti che lo vedrebbero bene candidato premier alle politiche. A rompere il tabù, scandendo in pubblico per primo un’idea che frulla nella testa di molti nel Pd e che inquieta assai i renziani, è Michele Emiliano, che fa gli onori di casa. «Se Gentiloni, come io mi auguro, assumesse la leadership del centrosinistra, immagino che il suo contributo al paese, all’Italia, e anche al centrosinistra sarebbe ancora più importante». Il governatore pugliese, capo di una delle correnti di minoranza, lancia una sfida a Renzi sul piano del consenso al sud, conscio di allargare un solco non ricomponibile da qui alle politiche, con tutte le conseguenze del caso sulle liste: come spiegano i pugliesi a lui vicini, «da luglio Renzi non dà segnali, malgrado la disponibilità offerta da Michele. E lo stesso dicasi per Orlando...». Il Guardasigilli ha un centinaio di parlamentari uscenti che temono di non rientrare in gioco, assistendo impotenti a quello che gli avversari del segretario Pd chiamano «il clima di chiusura in un bunker» di un «partito dell’autosufficienza»: e quindi i peones delle minoranze si sentirebbero forse più tranquilli cambiando cavallo. Non a caso, a dare voce a questa suggestione, che si fa largo tra le truppe, di un “Gentiloni candidato” era stato qualche giorno fa un graduato di rango: Cesare Damiano, il presidente della commissione Lavoro che fa parte della corrente di Orlando. Del resto, i fuoriusciti tendenza Bersani raccontano che «da dentro al Pd, da Orlando, da Franceschini, continua ad arrivare un messaggio a Pisapia: dopo la probabile batosta in Sicilia guarderemo Renzi negli occhi e gli spiegheremo che lui è il segretario Pd, ma che per vincere serve un centrosinistra unito e dunque un leader della coalizione capace di ricucire. E una legge elettorale che agevoli la costruzione di una coalizione». E non è un caso che sabato prossimo Orlando terrà a Roma la prima iniziativa della sua associazione Dems, dal titolo molto esplicativo: «Un nuovo centrosinistra, per unire l’Italia». Presenti Carlo Calenda, Giuliano Pisapia e Nicola Zingaretti.
«La scelta di Renzi di fare tutto da solo restringe le sue possibilità - mette in guardia Damiano - considerato il fatto che oggi vengono premiati leader come Gentiloni, capaci di unire più che dividere». Il terreno per forgiare la nuova leadership, secondo Mdp, potrebbe essere la legge di bilancio: «Gentiloni può diventare il leader di un rinnovato centrosinistra se si smarca da Renzi e apre a Mdp sulla manovra...».
Peccato che i due interessati, Renzi e Gentiloni, abbiano trovato un modus vivendi che li ha portati a gestire i conflitti senza dare nell’occhio. E a chiudere un patto di ferro, raccontano i renziani, sul tema che avrebbe potuto diventare un tormentone: la durata della legislatura. Decisione in capo al Quirinale certo, ma che premier ed ex premier agevoleranno. Dopo aver concordato un compromesso: si potrà chiudere dopo la manovra a fine dicembre, come chiesto qualche settimana fa dal capogruppo Ettore Rosato, andando però a votare non di corsa a febbraio, ma a metà marzo. Come avevano di fatto prefigurato esponenti vicini a Gentiloni.
Il leader Pd, che pure ieri in Sicilia ha fatto i complimenti al premier, sa bene che il tema “Gentiloni candidato” verrà usato come testa d’ariete se si perdesse nell’isola. Ma per i renziani il tentativo di spallata finale non andrà in porto, soprattutto perché la massa dei peones Pd che aspirano alla ricandidatura ci penserà due volte a schierarsi contro il segretario in carica. Per non dire dell’altro fattore: l’assenza di una coalizione. Fattore non indifferente, perché i convitati di pietra, ovvero i compagni di Mdp e lo stesso Pisapia, non sono in procinto di stringere patti col Pd. «Gentiloni candidato è uno scenario improbabile», taglia corto Massimiliano Smeriglio, uno dei big di Campo progressista. «Poi certo, ha riportato nel paese un clima di maggiore serenità, ma se e quando rinasceranno le coalizioni, noi chiederemo innovazione e primarie...».

La Stampa 10.9.17
Sicilia, l’eterno teatro dei pupi dove tutti (a parole) rincorrono la “rivoluzione”
Dal grillino a Sgarbi, fino al rettore già vittima sacrificale
di Mattia Feltri

Aveva ragione il principe Consalvo Uzeda di Francalanza quando diceva che «il passato par molte volte bello perché è passato». Ma nel suo pregattopardesco adeguamento al nuovo corso democratico dell’Italia unita, lui che era della famiglia dei Viceré raccontata da Federico De Roberto, c’era una grandiosità spagnoleggiante, un’implicazione di rango e di lusso che era di per sé una promessa di opulenza; e infatti il popolino beone (e un po’ sarcastico) cantava «evviva il principino / che paga a tutti il vino / evviva Francalanza / che a tutti empie la panza». Ora se la giocano con una creatività micragnosa, non si dice un’idea per la Sicilia, non c’è nemmeno un’idea buona per abbindolarla: tutti lì con la soluzione magica e prestampata: rivoluzione. Che poi era già la parolina passata come venticello nelle rivendicazioni del governatore uscente, Rosario Crocetta, che aveva promesso la rivoluzione, e avanzato la ricandidatura perché la rivoluzione non poteva interrompersi. E avanti così, nello svilimento caricaturale di un termine apocalittico, la rivoluzione la porteranno i cinque stelle, col capofila Giancarlo Cancelleri, e sarà una rivoluzione culturale; Silvio Berlusconi riemerge per un momento dai bagni di salute altoatesini e avanza alla Sicilia la «proposta di cambiamento radicale, rivoluzionaria», intanto che mettono a disposizione le loro cartucce quelli di Rivoluzione cristiana, nel centrodestra, e i Moderati in rivoluzione, spettacolare comparsa in un fiacco teatro di pupi.
I Moderati in rivoluzione, per chi non ricordasse (non ricordavamo neanche noi), è il partito dell’imprenditore Gianpiero Samorì, il quale a un certo punto si mise in testa di succedere a Berlusconi alla guida del Pdl. Ora sta con Vittorio Sgarbi, anche lui in gara per Palazzo d’Orléans, con un’iniziativa che ha più l’aria dell’installazione d’arte che del progetto politico. È in arrivo Morgan, cantautore e stella dei talent, e siccome Sgarbi vorrebbe affidare due assessorati a Bruno Contrada e a Mario Mori, viste le loro odissee giudiziarie, verrebbe voglia di vederli tutti quanti al lavoro. In fondo il risvolto ludico di ogni iniziativa di Sgarbi ha il pregio della sfacciataggine. Ma la povera Sicilia ne ha visti di teatranti, anche bravi e bravissimi, entrare in scena e però sempre accompagnati dalla grancassa della retorica. L’ultima volta Beppe Grillo attraversò lo Stretto a nuoto, a sceneggiare un nuovo stile di sbarco sull’isola, senza barca, ma per salvarla, ovvio. Poi Crocetta si prese il sommo Franco Battiato per guidare il Turismo, e fu un colpo, il Battiato così nauseato dalle piccinerie terrene («Povera patria / schiacciata dagli abusi del potere / di gente infame che non sa cos’è il pudore», cantava), infine disposto a scendere a quote più normali, e ben presto scomparso in altre complessità. E infine arrivò il Pif, il regista, a prendere per la collottola il medesimo Crocetta in difesa dei diritti dei disabili, e fu certo una delle sue interpretazioni più apprezzate.
Dunque, a parte questi episodi di situazionismo a rischio effetto reality, rimane molto rasoterra. Il cinque stelle Cancelleri annuncia guerra senza quartiere alla burocrazia, «potente perché la politica l’ha resa tale»; cita le ventisei autorizzazioni necessarie a installare un pannello fotovoltaico, cadendo nell’eterno equivoco, e cioè che su quelle ventisei autorizzazioni campa tutta una terra, dotata del più pletorico personale pubblico dalla storia dell’umanità. Ignora, Cancelleri, la sentenza di uno degli ultimi insigni di Sicilia, Pietrangelo Buttafuoco: «Quest’isola è il tumore non solo dell’Italia, ma dell’intero Mediterraneo». Ma al grillino basta riproporre, sotto altre spoglie, la metafora della scatoletta di tonno. E gli basta davvero a guadagnare le prime posizioni nei sondaggi, visto che la sinistra prosegue in un autolesionismo che ormai ha dell’umoristico; la sinistra sinistra, quella dalemiana, per intenderci, che si appoggia a Claudio Fava, e la sinistra più di centro, quella renziana col flebile sostegno di Angelino Alfano, che punta su Fabrizio Micari, rettore dell’Università di Palermo; precisamente: punta su di lui perché è il volto giusto, e laterale al partito, a cui attribuire la sconfitta. Che poi, la sconfitta in Sicilia, in questa Sicilia (ma anche a Roma), non è il peggiore dei mali. È uno scampato pericolo. E accettano di correrlo Cancelleri e Nello Musumeci, galantuomo catanese sulla cui onorabilità s’è realizzata l’unità di centrodestra, malgrado prima Berlusconi si fosse invaghito dell’avvocato Gaetano Armao, un altro rotto a tutte le esperienze da convergere, infine, sull’esperienza di collettore d’indignazioni. Con Armao fu una sveltina, secondo stile, e ora il centrodestra ha buone chance con Musumeci, e sarà un piacere vederlo, fra leghisti, meloniani e liberali, anche solo al prossimo barcone di Lampedusa. Dài, altro che Sicilia terra di esperimenti esportabili: «La nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa». E se lo diceva il principe Consalvo...

Il Fatto 10.9.17
Situazione grave, ma non seria: Alfano e Renzi in Sicilia
di Marco Palombi

Un’abusata citazione di Ennio Flaiano recita così: “La situazione politica in Italia è grave, ma non seria”. Figurarsi quanto sia entrambe le cose in quell’Italia al quadrato che è la Sicilia. Ora, come saprete, proprio nell’isola si è ricostituita l’alleanza tra Matteo Renzi e Angelino Alfano in nome del “modello Orlando”, nel senso di Leoluca, che i due hanno spinto trionfalmente alla riconferma come sindaco grazie all’8 per cento e spiccioli rimediato dalla loro lista comune “Democratici e popolari”. Angelino e Matteo ora ci riprovano in vista delle Regionali del 5 novembre: che armonia, che gioia per gli occhi. Devono essere andati da un terapista bravo, perché qualche tempo fa non erano così uniti. Giusto a fine maggio, Alfano definiva Renzi “un serial killer”. E quell’altro, per ripicca, lo irrideva in tv: “Se dopo anni che stai al governo e hai fatto il ministro di tutto, non riesci a prendere il 5%, non possiamo bloccare tutto per questo”. Chiosava l’altro Orlando, cioè Andrea, quello che fa il ministro: “Capisco l’amarezza di Alfano, però se Renzi è un serial killer, lui è quanto meno complice degli omicidi”. Sembrava una storia finita e invece no: tornato l’amore, tornata pure la coalizione. Matteo ha promesso ad Angelino che resteranno insieme per sempre o almeno fino alle Politiche e quello ora se lo coccola: “L’ex statista D’Alema trasforma la sua attività politica in rancore contro Renzi”, lo difendeva proprio ieri. Siamo contenti per Matteo: le elezioni non le vince, per carità, ma gli resta un amico sincero.

il manifesto 10.9.17
Renzi fa la vittima. Nell’isola le prove del «voto utile»
Pd-Mdp. L'appello comincia in Sicilia e già illumina la campagna elettorale delle politiche 2018
di Andrea Fabozzi

Diceva Fausto Bertinotti che l’appello al voto utile «è prossimo al voto di scambio», «è una delle manifestazioni del degrado della politica», «è un veleno», «è una proposta politicamente oscena». Quando l’allora segretario di Rifondazione comunista concepiva queste definizioni, essenzialmente nella seconda metà degli anni Novanta e all’inizio dei Duemila, lo faceva per rispondere quasi sempre a Massimo D’Alema, all’epoca segretario del Pds e poi tra i leader dei Ds. Oggi il bersaglio principale dell’appello al voto utile, che comincia in Sicilia e già illumina la campagna elettorale delle politiche 2018, è proprio D’Alema, che con il suo (e di Bersani) nuovo partito vorrebbe, sostiene Renzi, «solo far perdere il Pd».
Voto utile è espressione che in Italia ha cominciato a circolare tardi, perché essenzialmente priva di senso durante i lunghi anni del proporzionale senza premio di maggioranza. Solo dalla campagna elettorale del 1994 qualcuno (più a destra) cominciò a importarla da altri paesi (la Francia), chiedendo di non votare i partiti di centro. Anche se «il vero voto utile» è concetto che ricorre in qualche intervento dell’ultimo Berlinguer, costretto alla competizione con i socialisti di Craxi. E, assai più di recente, in materia va ricordato l’intervento di Giorgio Napolitano da presidente della Repubblica, quando nel 2008 si era fatto troppo insistente l’appello di Veltroni e Berlusconi a non votare per le terze forze. «Nessun voto – disse il capo dello stato – è inutile». Cosa che in realtà, a causa delle soglie di sbarramento, non è purtroppo neppure più del tutto vera.
Renzi comunque ha fatto capire molto chiaramente che questo sarà il perno della sua campagna. Del resto non lo si può accusare di nascondere le intenzioni: alla vigilia della campagna per il referendum costituzionale avvertì «sarò demagogico» e lo fu. «La sinistra radicale non vincerà mai. Tutt’al più vogliono far perdere quelli che stanno vicini», ha detto ieri il segretario del Pd a Ragusa; le elezioni regionali siciliane sono in effetti un’ottima occasione per sperimentare questo tipo di campagna. In Sicilia, come per il prossimo parlamento, il messaggio da far passare è che votando a sinistra del Pd si rinuncia a correre per la vittoria e si favoriscono i minacciosi grillini o il minaccioso Berlusconi. Oddio, i sondaggi direbbero tutt’altro, visto che il candidato del Pd in Sicilia parte in terza posizione rispetto a quello dei 5 Stelle e a quello della destra unita, dunque per fermare l’uno o l’altro sarebbe consigliabile orientarsi sulla minaccia minore. E anche nei sondaggi nazionali il Pd è lontanissimo dalla possibilità di raggiungere il 40% alla camera, e così di prendere il premio di maggioranza per governare da solo, dunque un’alleanza dovrà pur farla. Più probabilmente con il «minaccioso» Berlusconi che con gli «inutili» sinistri. Secondo Pippo Civati «il vero voto inutile è quello dato alla sinistra per fare le cose di destra», mentre secondo l’ultimo D’Alema «Renzi ha abolito la sinistra e a noi è toccato doverla ricostruire».

La Stampa 10.9.17
Se la mafia sparisce dal dibattito
di Francesco La Licata

Ogni ora che passa sembra complicarsi sempre più il guazzabuglio siciliano che precede le elezioni regionali. Ma, in fondo, questa non è una novità: da sempre la Sicilia è stata usata come «laboratorio», come banco di prova per esperimenti, più o meno arditi, che raramente - dopo il voto - hanno dato esiti positivi. Nessuna sorpresa, dunque, se fino a questo momento pochi osservatori esterni sembrano in grado di spiegare esattamente chi sta con chi, dov’è la destra e dove la sinistra, per dirla col grande Giorgio Gaber. D’altra parte, l’Isola è il solo luogo dove (Milazzismo 1958) comunisti e fascisti siano riusciti a mettersi insieme riuscendo a cacciare la Dc all’opposizione.
E non è neppure una novità un dibattito duro e acceso, ma solo sulla diatriba su posti e nomi, senza il minimo accenno a fatti e programmi. Volendo banalizzare, dunque, si può azzardare che «tutto va bene» e siamo perfettamente nella norma.
Eppure, a ben guardare nelle pieghe di questo pseudo dibattito elettorale, una novità ci sarebbe. E, stando alla storia recente della politica in Sicilia, si tratterebbe anche di una novità non di poco conto. Non sappiamo se sia stato abbastanza notato e sottolineato, ma il tema della mafia e dell’antimafia latita. Tra tanti appassionati discorsi e appelli, da destra, da sinistra ed anche dai «grillini» in ascesa (che non si sa dove collocare) non abbiamo ascoltato alcun riferimento, neppure di semplice denuncia, al problema delle infiltrazioni mafiose, della difesa del sistema degli appalti, abbondantemente inquinato da anni di «provenzanismo» e sinergie politico-mafiose. La mafia è scomparsa, di nuovo non esiste più a dispetto dei milioni che continuano ad essere sequestrati a mafiosi piccoli e grandi o ai numerosi prestanome di Matteo Messina Denaro, che si conferma l’ultima «primula» di Cosa nostra. Tranne Claudio Fava, che l’antimafia se la porta tragicamente stampata sul nome, nessun candidato osa abbracciare il tema che pure, in passato, l’ha fatta da padrone, qualche volta anche troppo.
Neppure il candidato di Grillo, che dovrebbe essere abituato alla denuncia, si addentra sul quel terreno scivoloso. Silenzio assoluto anche dalle grandi coalizioni di centro-destra e centro-sinistra, che forse pagano il prezzo di accorpamenti «arditi» nelle rispettive scelte. Le vicenda del presidente Crocetta, scivolato sul «tradimento» dell’icona dell’antimafia Lucia Borsellino e dello scandalo Saguto (uso personalistico dei beni sequestrati ai mafiosi), certo, non giocano a favore della lotta a Cosa nostra. Anche se un tema potrebbe essere proprio quello del recupero dei valori che furono di Falcone e Borsellino. Ma, si sa, per tradizione (tranne il «fenomeno Orlando») chi fa antimafia, in Sicilia, perde le elezioni. La «voglia di mafia» è anche il silenzio a protezione dei voti ed affari.

Corriere 10.9.17
Da Sora Giorgia, la politica in trattoria
di Aldo Grasso

Trattoria Sora Giorgia. Come si fa a prendere gli elettori per la gola? Semplice, basta invitarli a casa propria, sia pur virtualmente, e offrire loro un ricco menù. Ricco si fa per dire. È quello che ha fatto quest’estate Giorgia Meloni che, sul suo profilo Facebook, ha cominciato a spadellare con alcuni video. In uno, per esempio, la leader di Fratelli d’Italia insegna a preparare la caprese «à la Meloni»: genuina, tricolore, italiana. Non un gran sforzo, in verità, ma una buona occasione per polemizzare con il governo: i pomodori siciliani non vengono più raccolti, sono vittime dell’importazione, il formaggio è fatto con il latte in polvere…
Fornelli d’Italia. La Sora Giorgia non s’ispira ai cuochi d’artificio (gli chef stellati che bivaccano in tv), l’impiattamento conta poco, l’approccio al cibo è grezzo e pulp, stile prosciutto e melone. Le sue stelle di riferimento grondano casalinghitudine: Wilma De Angelis (mangia come parli), Antonella Clerici (la locandiera ideale), Benedetta Parodi (il cibo a km zero, comprato cioè nel supermarket più vicino a casa). A lei non interessa la buona cucina ma il comizio culinario (mangiare e comprare italiano), il cibo come talismano della felicità elettorale. La caprese «à la Meloni» non è «cooking show» (sia pure via social), ma una dichiarazione di voto, un atto politico.
Come diceva Totò, «a proposito di politica, ci sarebbe qualcosa da mangiare?».

Corriere 10.9.17
E la Calabria rifiutò i controlli sui falsi invalidi
di Gian Antonio Stella

L a tartaruga Bertie è entrata nel Guinness dei primati sfrecciando alla velocità temeraria di 28 centimetri al secondo? Il giudice Lanfranco Balucani sa far di meglio. Altro che giustizia-lumaca! È riuscito ad accogliere un ricorso due giorni (due!) dopo che era stato presentato. Un prodigio prodigioso. Che ha stoppato i controlli Inps sugli invalidi calabresi. Tutto nasce dal tentativo dell’Istituto nazionale di previdenza di accentrare gli accertamenti sulle pensioni di invalidità civile. Accertamenti farraginosi a causa del doppio controllo dello stesso Inps e delle Aziende sanitarie locali.
I n pratica, per chiedere la concessione di un vitalizio di invalidità, il disabile (vero o presunto) compila una domanda corredata da un attestato firmato da un «medico certificatore». Ricevuta la domanda, l’Asl convoca il portatore di handicap davanti alla Commissione Medica Integrata, composta da dottori del Servizio sanitario (pagati con un gettone extra per ogni seduta) più uno (senza bonus) dell’Inps. Segue la redazione di un verbale di visita. Sottoposto al giudizio finale da parte dei medici dell’Istituto di previdenza. A farla corta: stando alla Fish (Federazione italiana superamento handicap che raggruppa 82 associazioni) la giostra dei controlli su ogni singolo caso impegna oggi almeno 15 persone. Che possono salire, di ricorso in ricorso, fino a 25. Un delirio.
«Sono anni che chiediamo di semplificare il sistema affidando la responsabilità a un soggetto unico», spiega il presidente Vincenzo Falabella, «Vogliono che se ne occupi l’Inps? Le Asl? I Comuni? Vedano loro: a noi interessano due punti: che vengano ridotti i tempi burocratici e che chi avrà la delega abbia ben chiari il rispetto della legalità, della trasparenza, delle competenze, dei diritti».
Squilibri nella spesa
Ferma restando, si capisce, la consapevolezza che lo Stato italiano spende complessivamente, per la disabilità, l’1,7% del Pil. Contro l’1,9 del Portogallo e del Regno Unito, il 2,1 della Francia, il 2,3 della Germania e del Belgio, il 3,5 della Croazia e della Finlandia, il 3,9 della Svezia, il 4,1 della Danimarca. Con squilibri abissali fra i Comuni settentrionali e quelli meridionali. Se la media pro capite italiana è di 2.990 euro l’anno (8 al giorno) i Comuni altoatesini spendono per ogni concittadino diversamente abile 21.628 euro, i sardi 8.517, i lombardi 4.117, i toscani 2.679 e giù giù fino ai municipi siciliani (1.699), lucani (1.482), pugliesi (1.065)… Per non dire dei portatori di handicap campani, che ricevono dai loro municipi 706 euro l’anno, e dei calabresi: 469. Cifre umilianti. Come umilianti sono le quote dei non-autosufficienti che hanno la possibilità di essere ricoverati, al Sud, in strutture protette. Il 60% di questi posti letto sono concentrati infatti in quattro regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte.
L’alta incidenza al Sud
I dati degli invalidi civili, dicono Istat e Inps, sono in compenso rovesciati. È vero che su 2.472.101 pensioni distribuite dall’Inps la regione con più portatori di handicap che hanno diritto al vitalizio è la Lombardia (316.815 assegni) ma è solo perché è più popolosa. In proporzione, tutte le regioni del Nord sono sotto la media nazionale di 4,1 invalidi ogni 100 residenti: 4% in Liguria, 3,5 in Toscana, 3,4 in Friuli-Venezia Giulia, 3,2 in Veneto, in Piemonte e in Lombardia, addirittura 3,1 in Emilia-Romagna. Sul fronte opposto, tutte le regioni del Centro-Sud sono sopra. Con punte massime di 5,8 invalidi in Umbria, 5,9 in Sardegna, 6,3 in Calabria. Una delle regioni dove più frequentemente sono deflagrate le polemiche intorno a tante truffe finite sulle prime pagine. Il finto cieco che faceva il guardalinee, il finto zoppo che giocava a calcio, i 144 coinvolti nella maxi inchiesta «Medical market» sui finti incidenti stradali che generavano nuovi disabili...
Scandali protetti
Scandali che, come spiegò anni fa il «Libro Bianco sull’invalidità civile» riguardano una minoranza dei pensionati (37,8 milioni di risparmio 2010-2013 su 854.192 verifiche straordinarie) e colpiscono per primi, seminando sospetti e zizzania, i disabili veri. Ma scandali protetti per anni da chi sosteneva che i falsi invalidi rappresentassero «una sorta di ammortizzatore sociale dopo tanti torti al Mezzogiorno».
Fatto sta che il tentativo di semplificare le regole per ridurre i contenziosi tra l’Inps e le Asl, agevolare i disabili veri e smascherare più rapidamente i furbi, sta trovando qua e là difficoltà. Quella che più colpisce, però, come dicevamo, è la reazione della Regione Calabria. La quale, messa nei guai dalla decisione del commissario ad acta alla Sanità di aderire al progetto Inps, ha fatto ricorso al Tar perché non fosse ridotta l’influenza delle Asl, storicamente di manica più larga perché più legate al territorio ma anche alla politica e alle clientele. Poi, indispettita per la sentenza dei giudici amministrativi che davano ragione al commissario, ha bussato al Consiglio di Stato. Il quale, col giudice monocratico Balucani di cui dicevamo, è scattato con una prontezza mai vista, in anni e anni, nella burocrazia italiana.
Occhio alle date: martedì 22 agosto la sentenza del Tar che dava il via libera all’Inps, venerdì 25 il decreto del giudice d’appello amministrativo che, per ragioni di «estrema gravità e urgenza», rinviava tutto al 21 settembre. Bloccando tutto. Una settimana prima che il 1° settembre scattassero i nuovi meccanismi di controllo...

Il Fatto 10.9.17
Scuola, il concorso è bacato: 500 euro solo per provarlo
Per chi è già laureato - Il ministero prevede 24 crediti per accedere alla selezione, ma non tutti li hanno maturati durante l’università
Scuola, il concorso è bacato: 500 euro solo per provarlo
di Virginia Della Sala e Lorenzo Giarelli
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/scuola-il-concorso-e-bacato-500-euro-solo-per-provarlo/

Repubblica 10.9.17
Intercettazioni, il Csm contro la riforma
No al riassunto delle conversazioni: “C’è il pericolo di ridurre la genuinità delle prove”. Dubbi anche dai magistrati. L’ex pm Ardituro: “Non riportare i virgolettati non garantisce né gli imputati né la verità”
di L. M.

ROMA. Intercettazioni per riassunto nelle carte giudiziarie? Dal Csm arriva un secco niet. «Va ribadito con decisione che il rimedio alla divulgazione non può essere rappresentato dalla riduzione dell’area operativa del mezzo di ricerca della prova in esame, indispensabile per le investigazioni». Ancora: «Né tantomeno dall’opzione di riportare per riassunto, e non in forma integrale, le conversazioni nei provvedimenti giudiziari, col rischio di ridurre la genuinità della prova scaturita dalla conversazione intercettata».
Il Csm, e il suo vice presidente Giovanni Legnini, non sono, né potevano essere, tra gli interlocutori che il Guardasigilli Andrea Orlando ha invitato in via Arenula. Ma in tempi non sospetti, il Consiglio ha prodotto una risoluzione sul tema caldo delle intercettazioni, quando molte procure in Italia – Torino, Firenze, Roma, Napoli – avevano deciso di dotarsi di un codice di autoregolamentazione. A ridosso, e nella linea dei singoli codici, il Csm ha espresso il suo parere in una delibera del 29 luglio 2016. Un testo artiolato, votato all’unanimità da togati e laici di ogni estrazione, un evento al Csm soprattutto su un tema fortemente divisivo.
Antonello Ardituro, esponente della sinistra di Area ed ex pm a Napoli, relatore assieme a Paola Balducci e Francesco Cananzi, valuta così il decreto legislativo del ministero che invece ipotizza di eliminare le virgolette dalle misure dei giudici: «Non riportare il contenuto delle intercettazioni è assolutamente negativo, non garantisce gli indagati, né consente di fare una valutazione diretta della prova. Il grande rischio è che nei singoli passaggi processuali, ci si allontani pericolosamente dal testo effettivo, a danno dell’imputato e della verità processuale ». Orlando ha già detto che «questo è un punto che sicuramente può cambiare». Tant’è che l’ex ministro della Famiglia ed ex vice della Giustizia Enrico Costa ironizza: «Giudicavo interessante la bozza di delega come base di partenza, ma è bastato che qualcuno evocasse il bavaglio e in 24 ore si è registrato il dietrofront più fulmineo della storia». Un dietrofront sul riassunto che però potrebbe riaprire la strada al dialogo con la Federazione della stampa.

Repubblica 10.9.17
Contraria.
Giulia Bongiorno: “Rischioso affidargli la scelta sugli ascolti irrilevanti”
“Un mostro giuridico così diamo alla polizia il potere di insabbiare”
di Liana Milella

ROMA. «Un «mostro giuridico», creato da chi, il Pd, ai tempi di Berlusconi denunciava il bavaglio. Un «black out» giudiziario, che mette tutto nelle mani della polizia, «e quindi del potere esecutivo». È il parere dell’avvocato penalista Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera ai tempi delle riforma Alfano-Berlusconi sulle intercettazioni.
Leggendo il testo del decreto cosa l’ha colpita in negativo?
«È una riforma da brivido: viene attribuito un potere nuovo e mai conferito prima a nessuno. La polizia giudiziaria potrà decidere quali conversazioni cestinare e quali documentare. Il rischio è che vengano insabbiate conversazioni scomode per il potente di turno o che se ne “perdano” di utili per la difesa. Una scelta politica che dovrebbe far scendere i cittadini in piazza».
Allude all’ipotesi di non trascrivere più le conversazioni non rilevanti ai fini della prova o quelle private? Non si rischia di eliminare dal processo un pezzo della sua storia?
«Chi ascolta per primo le conversazioni avrà il potere di definirle irrilevanti e accantonarle senza nemmeno indicare il nome degli interlocutori. Mi sembra singolare tutto questo mistero, e anomalo che il pm debba chiedere a occhi chiusi, con decreto motivato, la trascrizione. Andrà a intuito? E gli imputati come faranno?» Magari chi ha la fortuna di avere lei come legale è in salvo, chi finisce con un avvocato d’ufficio sarà penalizzato...
«Gli imputati che non possono pagare studi legali ben attrezzati saranno di certo discriminati rispetto a chi dispone di risorse per mandare avvocati ad ascoltare ore e ore di conversazioni al fine di scovare quelle utili ma “cestinate”».
Politicamente che effetto le fa? È un segnale che l’ipotesi arrivi da via Arenula, con un ministro Pd alla guida in un governo del Pd?
«Nei verbali della commissione Giustizia della scorsa legislatura è documentato che il Pd contestava la scelta del centrodestra di occuparsi della materia. Finalmente Orlando ha capito che serviva un intervento, ma sta correggendo nel peggiore dei modi».
La polemica quanto le ricorda i tempi di Berlusconi e della sua battaglia per evitare un bavaglio che, in quel caso, avrebbe compromesso anche le indagini?
«Certo, si è discusso molto, ma alla fine avevamo trovato un punto d’incontro accettabile; e comunque nessuno si era sognato di creare un sistema come questo, in cui alcune conversazioni potrebbero volatilizzarsi. Il vero blackout è questo testo, non il nostro».
La Fnsi rifiuta la proposta e grida all’attacco alla libertà di stampa... Hanno ragione?
«Non pubblicare il privato e l’irrilevante è corretto, ma il nuovo testo – anziché intervenire su questo punto – permette a chi ascolta di “amputare” il procedimento di conversazioni secondo una discrezionalità che può sconfinare nell’arbitrio».
Archivio riservato: diventerà la cassaforte del potere e di possibili ricatti?
«Il problema è a monte: l’enorme potere conferito alla polizia giudiziaria nella scelta di ciò che è rilevante esprime uno sbilanciamento dei poteri in favore dell’esecutivo».
Consip e decreto sulle intercettazioni: vede un legame?
«Da avvocato non mi piacciono i sospetti e le dietrologie, ma se così fosse sarebbe l’ennesima prova che il Pd fa esattamente quello che prima contestava. Quando era all’opposizione, ogni iniziativa del governo veniva bollata come “legge ad personam” e il tema giustizia era considerato tabù. Quelli che sollevavano questioni morali e promuovevano manifestazioni antibavaglio sono gli stessi che oggi hanno creato questo mostro giuridico».

Repubblica 10.9.17
Favorevole.
Giovanni Maria Flick: “Una modifica attesa da vent’anni, niente marce indietro”
“Orlando vada avanti alla libertà di stampa non serve il gossip”
di Dario Del Porto

ROMA. «Si parla di riforma delle intercettazioni da più di vent’anni. Dunque, se non ora quando?», ragiona Giovanni Maria Flick, giurista che nella sua carriera è stato magistrato, avvocato, Guardasigilli e presidente della Consulta. «Spero che il ministro Orlando, cui pure va dato atto di aver affrontato la questione, non cada nella tentazione di fare macchina indietro rispetto alla bozza di decreto legislativo. Sarebbe un peccato se questo percorso dovesse fermarsi ancora, per giunta a causa di tecnicalità che nulla tolgono alla sostanza delle cose».
Però la scelta di escludere dagli atti le trascrizioni integrali dei colloqui per sostituirli con una sistesi non è un dettaglio, professor Flick.
«Non è importante l’espressione testuale, ma che le sintesi siano fedeli. Toccherà a pubblici ministeri e giudici garantire che il riassunto rispecchi fedelmente il contenuto della conversazione, evitando di appiattirsi sui cosiddetti brogliacci della polizia giudiziaria».
Come ci si difende, in caso di arresto sulla base di intercettazioni, se non si conosce l’esatto tenore dei dialoghi?
«Se la sintesi è corretta, il problema non si pone. Questo naturalmente richiama i magistrati alle loro responsabilità. Ma non vedo particolari differenze rispetto al sistema attuale. Dopo l’esecuzione della misura cautelare, ci sarà sempre la discovery degli atti per il difensore attraverso l’udienza stralcio».
Non c’è il rischio di complicare il lavoro dei magistrati?
«Ci siamo dimenticati tutti, temo, che la legge prevede come presupposto delle intercettazioni la indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini. Si parla di prosecuzione, non di inizio. Questo significa probabilmente che oggi si fanno troppe intercettazioni. E non possiamo invocare il principio di legalità solo quando ci fa comodo ».
Come la mettiamo con l’opinione pubblica? Molti scandali non sarebbero esplosi, se non si fossero conosciute le trascrizioni integrali.
«Per garantire la libertà di informazione non è necessario utilizzare frasi testuali, prese dal lessico comune, che servono solo per fare gossip, o addirittura umiliare le persone. Sa quanti di noi, se fossero pubblicate le loro telefonate, verrebbero bruciati in piazza Campo dei Fiori senza aver commesso alcun reato? È giusto che l’opinione pubblica conosca il contenuto, ma i processi si fanno nelle aule di tribunale ».
L’esclusione del sistema di intercettazione Trojan per la corruzione non rappresenta un passo indietro?
«Sono d’accordo anche io sulla limitazione di questo strumento che entra nel corpo elettronico di una persona. È già tanto che venga impiegato per le indagini di terrorismo e criminalità organizzata. Ma corruzione e mafia non sono la stessa cosa. Spesso camminano in parallelo, ma sono realtà profondamente diverse. Penso anche io che occorra un salto di qualità nel contrasto alla corruzione, però non come sembra si stia facendo adesso».
In che modo, allora?
«Non si può combattere un fenomeno, che purtroppo è diventato sistema, solo per via burocratica, attraverso una prevenzione affidata al privato e, soprattutto, compilando scartoffie. Né si possono aumentare le pene per evitare la prescrizione, accumulando controlli che, come ricorda il procuratore generale della Corte dei conti, costano un sacco di soldi. Bisogna mettere in campo riforme».
Anche sulle intercettazioni?
«Certamente. Quando ero al governo ci abbiamo provato, ma forse i tempi non erano maturi. Spero proprio che il ministro Orlando non perda questa occasione».

La Stampa 10.9.17
Il popolo anti-Brexit nel cuore di Londra “Non ci arrenderemo”
Meno gente del previsto nelle strade, vip e politici assenti
Nel Paese aumenta la rassegnazione per l’uscita dalla Ue
di Alessandra Rizzo

«Dobbiamo continuare a combattere, è il momento di arrabbiarci, noi inglesi siamo sempre così educati», dice Sally Long, in mano un cartello che è un grido di battaglia, «Non mi arrenderò mai». Sono alcune migliaia e vogliono fermare la Brexit. Hanno portato la loro battaglia di fronte al Parlamento, sotto lo sguardo severo di Winston Churchill, la cui statua domina la piazza antistante Westminster. «Il vecchio Churchill, lui sì aveva un bel messaggio sull’Europa», dice Sally, signora di mezza età arrivata da Bath per far sentire al governo la sua voce. La Brexit le ha fatto scoprire l’impegno politico. «Non avevo mai partecipato a una manifestazione in vita mia, adesso faccio volantinaggio per strada».
Alla Camera dei Comuni domani sera verrà votata la legge che cancella dalla legislazione britannica oltre quarant’anni di integrazione europea. In piazza, l’Unione europea è ovunque: nelle bandiere stellate che sventolano sotto il cielo settembrino, nelle spillette attaccate sui baveri delle giacche, nell’azzurro dipinto sui volti dei manifestanti, nei cartelli mostrati alle telecamere: «Exit Brexit», «Non possiamo stare senza di te, Ue!», e qualche slogan contro il Governo e la premier Theresa May. Sul palco si alternano i portavoce del movimento, qualche rappresentante politico, europarlamentari. «Je suis Europeen», grida qualcuno, con parole che piacerebbero a Michel Barnier, il negoziatore (francese) della Ue.
Ma la manifestazione, nel cuore della Londra cosmopolita ed europeista, non fa breccia. La rockstar annunciata, Bob Geldof, non è arrivata («all’ultimo momento non ce l’ha fatta», dice una portavoce del movimento). Sono arrivate invece cinquantamila persone, secondo gli organizzatori, forse anche meno, e comunque la metà di quelle che si aspettavano e della protesta organizzata quest’inverno.
Gli organizzatori dicono che il calo è dovuto alla stagione, la fine dell’estate, e promettono battaglia in quello che chiamano l’«autunno dello scontento». Ma forse è un segno che la rassegnazione ha preso il sopravvento tra il 48% che al referendum del 23 giugno 2016 ha votato contro la Brexit. Nessuno dei due partiti principali, conservatori al potere e laburisti all’opposizione, propone di tornare indietro. Troppo anti-democratico, troppo rischioso politicamente. La battaglia a Westminster si gioca sulle modalità del divorzio, sul ruolo del Parlamento, sulla relazione futura con Bruxelles.
In piazza di rassegnazione non se ne trova. Il serpentone partito da Hyde Park arriva di fronte al Parlamento nel primo pomeriggio, il Big Ben tace (per restauro), ma ci pensano i manifestanti a riempire di suoni la piazza. Ci sono famiglie con bambini, scienziati preoccupati per la fine dei fondi europei alla ricerca, universitari. E cittadini europei, piccola frazione degli oltre tre milioni che vivono nel Paese e i cui diritti sono oggetto di negoziato. «Sono in questo paese da vent’anni, non ho potuto votare al referendum, e Theresa May non ci dà nessuna garanzia, anzi ci usa come merce di scambio», dice Inaki Valcarcel, spagnolo, chimico presso la University of London. I partiti maggiori sono rimasti alla larga, solo i liberal democratici, gli unici anti-Brexit, sono presenti con le loro coccarde gialle e un piccolo stand.
Che senso ha ancora manifestare se l’Articolo 50, che determina l’avvio delle procedure di divorzio è stato invocato da sei mesi, se i negoziati sono avviati (anche se in panne), e il Parlamento sta per votare la legge che rescinde l’atto di adesione al blocco? «Dobbiamo essere pronti, quando si sentiranno gli effetti della Brexit sulla vita delle persone il Paese cambierà idea e allora si troverà la volontà politica», dice Helen. Qualcuno vuole dimostrare che la Gran Bretagna è ancora un Paese tollerante, aperto agli immigrati. Ma soprattutto i manifestanti vogliono un secondo referendum una volta che l’accordo con l’Ue sarà definito; e vogliono mettere pressione ad una premier debole, con una strategia incerta.
Il Governo di pressione ne ha già parecchia, e nei giorni scorsi ha combattuto su più fronti. Il partito conservatore è spaccato tra europeisti euroscettici, ciascuna corrente scontenta delle scelte della May; il partito laburista, che dopo mesi di tentennamenti si è schierato per una Brexit morbida, ha attaccato la legge in discussione in Parlamento e promette di votare contro; e a Bruxelles l’Ue ha criticato le posizioni negoziali di Londra e messo in dubbio l’impegno e l’affidabilità del ministro inglese per la Brexit, David Davis.
La manifestazione finisce, arriva un po’ di pioggia, le bandiere vengono arrotolate. È la fine dell’estate, e forse la fine delle speranze di fermare la Brexit. Ma non per tutti. «Dicono che è cosa fatta, ci sono tante pressioni per farci rassegnare», racconta Tarit Mitra, cittadino britannico nato a Roma, arrivato al corteo con i due figli piccoli. «Penso che sia quasi impossibile tornare indietro, ma sento che bisogna provarci».

La Stampa 10.9.17
Donne, i diritti che portano la modernità
di Maurizio Molinari

Il mondo dell’Islam è attraversato dallo scontro fra fautori ed oppositori della modernizzazione e per capirne l’andamento bisogna guardare al rispetto dei diritti delle donne. E dunque spiccano le notizie arrivate durante questa estate da Tunisi ed Amman.
La condizione delle donne è un indicatore strategico dei cambiamenti in atto nei Paesi musulmani perché si tratta della maggioranza degli abitanti, ovvero madri, mogli, figlie e sorelle che costituiscono la spina dorsale delle famiglie ma al tempo stesso sono le vittime più frequenti di imposizioni islamiche, tradizioni tribali e leggi nazionali che le trasformano in cittadini di serie B. Ovunque prevale l’intolleranza, sono le donne a soffrire di più, così come ovunque l’eguaglianza si affaccia sono le stesse donne le prime a giovarsene.
È tale cornice che spiega l’importanza di quanto sta avvenendo in Tunisia, dove il presidente Beji Caid Essebsi si è detto favorevole a raggiungere «la piena eguaglianza fra le donne e gli uomini» proponendo l’equiparazione nel diritto di eredità e la possibilità di sposare anche dei non musulmani. Nella nazione dei gelsomini le donne rappresentano il 60 per cento degli operatori medici, il 35 per cento degli ingegneri, il 41 per cento dei giudici, il 43 per cento degli avvocati ed il 60 per cento dei laureati ma la parità di genere, pur sancita dalla Costituzione del 2014, resta da acquisire.
Forte del sostegno di un Parlamento dove su 217 deputati ben 75 sono donne - record arabo - Essebsi ha così scelto di accelerare, prima facendo approvare la legge contro le violenze sessuali, che pone fine all’impunità per i colpevoli in cambio delle nozze con le vittime, e poi rilanciando su eredità e matrimoni misti. Le reazioni dell’Islam più conservatore sono state aspre, con gli imam dell’Università di Zitouna che si sono detti «sotto shock» e Sheikh Abbas Shuman, vice del Grande Imam Ahmad al-Tayeb di Al-Azhar, maggiore autorità sunnita, che ha parlato di «misure ingiuste in contrasto con la Sharia» scagliandosi in particolare contro i matrimoni misti perché «l’unione di una musulmana con un non musulmano nuoce alla stabilità della coppia». Ma si è trattato di interventi che i maggiori partiti tunisini hanno condannato e le autorità islamiche nazionali - Diwan al-Ifta - hanno rimandato al mittente, descrivendo quanto la secolarizzazione avanza nella nazione che vide nel 2011 l’inizio delle rivolte arabe. E non si tratta di un caso isolato perché anche la Giordania ha abolito la legge che proteggeva i violentatori, seguendo le analoghe decisioni di Marocco e Libano. Si tratta, certo, di piccoli passi ma suggeriscono come qualcosa stia avvenendo sul fronte dei diritti delle donne nel mondo arabo. Sulle note del cantante egiziano Ramy Sabry, autore del motivo «L’uomo» che recita «una donna non deve dire sì e poi perdonare il giorno dopo» sommando oltre tre milioni di visualizzazioni su YouTube. Non c’è dubbio che si tratta di una strada ancora in salita. Per rendersene conto basta leggere la recente indagine, pubblicata sul «New York Times» e condotta in Egitto, Libano, Marocco e Territori palestinesi, secondo cui tre quinti degli uomini ritengono che «una donna deve tollerare la violenza domestica per tenere unita la famiglia». Come dice l’avvocato tunisina sui diritti umani Khadija Moalla, «puoi avere le leggi migliori ma se non cambi la cultura popolare non serviranno a nulla» e, aggiunge lo scrittore giordano Fadi Zaghmout, «se una donna viene violentata o ha rapporti sessuali prima delle nozze il suo futuro resta difficile». Ma nonostante le perduranti resistenze, qualcosa si muove sul fronte dei diritti delle donne e sottolinearlo può aiutare tutte coloro che, da Riad a Teheran, scommettono sul fatto che possa essere questa la vera rivoluzione capace di modernizzare l’Islam.

Corriere La Lettura 10.9.17
L’evoluzione della stupidità
“Il punto è: che cosa sarà della nostra libertà
di Viviana Mazza
Le app uccidono l’intelligenza

Dalla collina dove sorge il Santa Fe Institute, puoi osservare le nubi che si addensano a valle pronte a scaricare le piogge torrenziali del monsone. L’istituto, fondato nel 1984 da scienziati di Los Alamos, alcuni dei quali lavorarono alla prima bomba atomica, è un centro di ricerca «iconoclasta», spiega il presidente David Krakauer, mentre pranziamo nel patio sferzato dal vento. Qui non ci sono dipartimenti né discipline. Scienziati e letterati si interrogano sui comuni denominatori, riflettendo con rigore matematico su problemi complessi come l’evoluzione dell’intelligenza o la natura del tempo.
Non è un caso che l’istituto sorga nel Sudovest degli Stati Uniti, un luogo dove è ancora vivo il mito della frontiera, gli spazi sono immensi, le regole assenti e la morte onnipresente. «È come un monastero, una sorta di antidoto alla modernità, un luogo dove minimizzare le stronzate», dice Krakauer, che sta scrivendo un libro «sull’evoluzione dell’intelligenza e della stupidità sulla Terra e nell’universo». Cormac McCarthy è uno dei membri di questa comunità: qui ha scritto libri straordinari e di recente un saggio sull’inconscio. L’autore di Meridiano di sangue , che ama circondarsi di scienziati più che di scrittori, ha commissionato un enorme ritratto di Isaac Newton che guarda dall’alto in basso gli intellettuali raccolti nella sala riunioni, in modo che non si montino la testa. Aziende come eBay, Google, Intel — persino i Marines — vengono qui ad attingere idee.
Dal mese di giugno del prossimo anno nascerà un «Festival interplanetario», che aprirà il «monastero» al pubblico coinvolgendo chiunque lo voglia in dibattiti (anche online), con l’obiettivo pratico di diffondere la consapevolezza che «le decisioni economiche, ecologiche, tecnologiche e politiche sono interconnesse, anche se continuiamo a trattarle come cose separate».
Presidente Krakauer, qual è la differenza tra il suo approccio all’intelligenza e quello di altre istituzioni?
«Intelligenza è un termine potente dal punto di vista tecnologico, sociale, etico. È un concetto di cui spesso si è abusato, in un certo senso è alla radice del razzismo, ed è fonte di ansia per la gente. Viviamo nell’era dell’ossessione per l’Intelligenza Artificiale e la capacità delle macchine di apprendere: è il dibattito del nostro tempo. E in America abbiamo Trump, un presidente considerato stupido dalla maggioranza delle persone. È un tema che interessa a molti, la differenza è che per noi i confini contano di meno. Noi non studiamo l’intelligenza in un certo modo nella facoltà di Psicologia, in un altro modo in Informatica, in un altro ancora in Storia. Siamo piuttosto unici anche per quanto riguarda la scala temporale, perché lavoriamo molto sulle origini della vita nell’universo. Ci chiediamo da dove viene l’intelligenza e qual è il rapporto tra biologia, cultura, storia, tecnologia. Anziché misurarla con un numero, il che sarebbe come valutare un capolavoro artistico solo attraverso il suo valore di mercato, cerco di capire come funzionano gli elementi costitutivi dei sistemi intelligenti: la memoria, la rappresentazione (il più importante), il rapporto tra rappresentazioni e società… Sono molto interessato all’intelligenza collettiva: nessuna delle piccole cellule nella nostra testa è di per sé molto interessante, ma nell’aggregato, quando sono 86 miliardi, succede qualcosa. Allora mi chiedo: se ci fossero nel mondo 86 miliardi di persone, interconnesse tra loro, ci sarebbe più intelligenza, un’abilità collettiva che il singolo non ha?».
Anche altri hanno studiato la stupidità...
«I grandi studiosi della stupidità sono i romanzieri: Flaubert, Cervantes, Jonathan Swift. Bouvard e Pécuchet di Flaubert è un magnifico trattato sulla stupidità. I viaggi di Gulliver di Swift è un’analisi straordinaria della stupidità nella società. E di fatto cos’è la satira se non un tentativo di far luce sull’idiozia umana? Abbiamo un gran patrimonio di conoscenze sulla stupidità, ma non nelle scienze».
Come mai?
«Non lo so, a volte scherzando dico che per uno scienziato sarebbe imbarazzante definirsi un esperto di stupidità, non sembra compatibile con l’essere intelligente. C’è un’enorme quantità di ricerche sulla teoria dell’indecisione e sulle decisioni fallaci, che certo sono un elemento, ma non vedo per la stupidità lo stesso interesse che c’è per l’intelligenza (per esempio non si parla mai di Stupidità Artificiale): abbiamo una certa familiarità con alcuni suoi “ingredienti” ma non pensiamo ad essa in modo olistico. Sarebbe strano se qualcuno dicesse che l’Austria negli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale era una nazione stupida, ma io credo che sarebbe un’affermazione corretta. La gente pensa al genius loci , ai luoghi e ai tempi di fioritura della creatività umana come il Rinascimento italiano, ma non ai momenti di fioritura della stupidità».
Come definisce la stupidità?
«L’esempio che faccio è quello del cubo di Rubik. Se ti do un cubo, ti chiedo di risolverlo e tu lo manipoli in modo casuale, ci sono dieci quintilioni di soluzioni: se tu fossi immortale prima o poi lo risolveresti. Questa è un’esecuzione casuale. Un’esecuzione stupida consiste invece nel ruotare solo una faccia del cubo all’infinito: così non arriverai mai alla soluzione. Stupido, nella mia definizione, è ciò che è nettamente peggiore del caso. Se invece una persona impara come manipolare il cubo e conosce varie regole che permettono, da qualunque configurazione iniziale, di arrivare alla soluzione in venti minuti o meno, questo è un comportamento intelligente, nettamente migliore del caso. Intelligenza è quel che facciamo per arrivare a risolvere un problema in modo efficiente e senza sforzo, mentre la stupidità consiste nel seguire regole che richiedono più tempo del caso o che non condurranno mai alla soluzione…».
Nel suo libro parlerà di stupidità in politica?
«In un certo senso, ma tendo ad essere molto cauto quando si parla di politica, in parte perché non la capisco: è possibile che sia l’arena della stupidità nella sua forma più pura, uno spazio dove si manifestano le tendenze e i pregiudizi peggiori».
Secondo Elon Musk l’Intelligenza Artificiale è una minaccia alla sopravvivenza umana. È d’accordo?
«C’è una più immediata minaccia all’intelligenza umana che non è l’Intelligenza Artificiale o AI, ma quella che io chiamo la App-I, l’intelligenza delle app. Sta già accadendo. Quando dobbiamo decidere che libro leggere, che film vedere, o in quale ristorante andare, non prendiamo una decisione ragionevole basata sull’esperienza, ma ci affidiamo a Netflix, ad Amazon, alle app. Spingendosi più oltre, si può immaginare una app per votare: ho un dato salario, certe aspettative e idee, inserisco i dati in una app che mi dirà chi eleggere. Una delle mie paure è la sistematica erosione del libero arbitrio, che volontariamente scegliamo di non esercitare. Non voglio essere apocalittico, adoro la tecnologia e penso che la storia dell’umanità sia una storia di co-evoluzione con strumenti che rendono la nostra vita più semplice. Ma mentre il linguaggio o i numeri sono artefatti cognitivi complementari che aumentano le nostre capacità di ragionamento, ci sono artefatti cognitivi competitivi che fanno l’opposto: non amplificano le capacità umane ma le sostituiscono, con un impatto negativo sul nostro cervello. Il fatto che le macchine diventeranno sempre migliori è scontato. Il punto è: cosa vogliamo tenere per noi stessi? Ed è un quesito che va affrontato dalla filosofia morale più che dalle scienze».

Corriere 10.9.17
La Cina in guerra con le bici «libere» che sono tornate ad invadere le città
di Guido Santevecchi

Multe per frenare il «bike sharing» selvaggio
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO Hanno conquistato le città cinesi, superando i 100 milioni di adepti. Sono state lanciate alla conquista del mondo, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dal Kazakhstan al Giappone, fino a Milano dove le abbiamo appena accolte. Sono le biciclette in condivisione, forse il primo trionfo globalizzato di un’innovazione made in China dai tempi della polvere da sparo. Ma ora, l’eccesso di successo del «bike-sharing» ha spinto il governo cinese a frenare la corsa selvaggia delle due ruote.
Pechino ha vietato di mettere in strada nuove biciclette. Perché nella capitale quelle condivise sono già oltre 2,4 milioni, con 11 milioni di clienti registrati: metà della popolazione della capitale. Il risultato è che queste bici offerte da una dozzina di società per cifre irrisorie, uno yuan all’ora (12 centesimi di euro), occupano marciapiedi, slarghi, aiuole, i lati delle strade in enormi file e anche in pile di mezzi aggrovigliati. È colpa della formula che ha determinato la popolarità dei pedali, e li ha spinti verso un imprevisto recupero di diffusione rispetto alle automobili.
L’innovazione, rispetto ai programmi adottati anni fa dalle amministrazioni comunali di molte città del mondo, è che le nuove bici non vanno prese e riconsegnate in un parcheggio fisso. Finito l’uso si lasciano nel punto più comodo: davanti a un negozio, la fermata della metropolitana o dell’autobus, disinvoltamente su un marciapiedi. Basta guardarsi intorno a Pechino e se ne vedono una, dieci, centomila. L’idea geniale delle aziende private è stata proprio di liberare le due ruote dalle rastrelliere e fornirle di un sistema di affitto hi-tech: si scarica una app sul telefonino, ci si registra pagando con lo smartphone una cauzione di circa 30 euro, si controlla sulla mappa che compare sullo schermo dov’è la bici più vicina, si sblocca l’antifurto scannerizzando un codice QR stampato dietro il sellino e si pedala fin che si vuole.
È la «soluzione del primo e dell’ultimo chilometro»: vale a dire che se la fermata dell’autobus è un po’ distante da casa e poi dall’ufficio, invece di prendere l’auto ora in Cina conviene montare in bicicletta e raggiungerla. Un decimo dei pendolari cinesi oggi sceglie i pedali come mezzo di trasporto rispetto al 5% di un anno fa.
Ma poco più di un anno dopo l’introduzione del sistema da parte delle startup Ofo e Mobike, che sono diventati giganti del valore di 2 miliardi di dollari, grazie a massicci investimenti da parte di gruppi tecnologici come Alibaba e Tencent, le biciclette offerte in condivisione in decine di città cinesi sono circa 16 milioni. Le «biciclette libere» da ogni vincolo hanno trasformato il panorama urbano in modo disordinato, anarchico. E l’anarchia non piace al governo cinese. Ecco perché stanno arrivando regolamenti sempre più severi. Pechino ha deciso la stretta seguendo un’altra decina di metropoli.
A Shenzhen, dove circolano oltre mezzo milione di bici in affitto, a luglio la polizia ha multato per infrazioni varie 13 mila ciclisti imponendo alle società di bike sharing di squalificarli appiedandoli per una settimana. E in un ritorno al clima da Rivoluzione Culturale, ai trasgressori è stato ordinato come insegnamento supplementare di copiare a mano mille parole (caratteri mandarini) dal codice della strada. Siccome i tempi sono cambiati e il maoismo non è più dominante, le autorità hanno dato la possibilità di scegliere tra la scrittura e una multa da 2 mila yuan (poco più di 250 euro). Ma la strada non finisce certo qui. Ultima offerta: CoolQi propone bici munite di carica telefonino incorporato sul manubrio. Color oro, come il business.

Corriere La Lettura 10.9.17
Abdessamad Dialmy
So perché l’islam teme il sesso
intervista di Marco Ventura

Abdessamad Dialmy racconta da molti anni l’intreccio tra frustrazione sessuale, islam e violenza: nel suo Marocco e in generale nelle società islamiche. Sociologo, psicologo di formazione, ha insegnato nelle università di Rabat, Casablanca, Fez. È conosciuto in Francia. Pochi giorni fa, sul quotidiano parigino «Libération», ha commentato le proteste di piazza a Casablanca dopo l’ennesima aggressione sessuale di gruppo, filmata e postata in rete, vittima una adolescente su un bus: «L’islam — ha scritto — è divenuto oggi islamismo e ha cessato di essere una morale. Le donne non sono ancora considerate cittadine, sono solo corpi al contempo eccitanti e inaccessibili». Dialmy è ormai in pensione, ma i suoi studi e le sue teorie sono sulla breccia. «La Lettura» lo ha incontrato nella sua casa di Rabat, negli stessi giorni in cui due suoi connazionali, fratelli e minorenni, confessavano gli stupri di Rimini.
Dopo le violenze sessuali di Colonia nella notte del capodanno del 2016, il giornalista algerino Kamel Daoud ha invitato i musulmani a porsi apertamente la questione sessuale.
«Daoud s’è appropriato della mia analisi. Posi la questione molto prima di lui: dagli anni Novanta scrivo che le masse arabe urbane vivono una situazione di miseria sessuale. Due le possibilità davanti alla presenza ansiogena delle donne nello spazio pubblico: aggredirle, insultarle, violentarle; o darsi all’islamismo».
La norma islamica è severa sul sesso.
«Il codice penale marocchino punisce i rapporti omosessuali, le relazioni sessuali fuori dal matrimonio e l’adulterio. Eppure il Marocco vive un’esplosione sessuale».
Un’esplosione sessuale?
«Il sesso si fa ormai fuori del matrimonio e della norma eterosessuale. Esplode la sessualità: come mercato nella prostituzione, come discorso nei media».
I giovani sfidano le norme?
«I giovani sono sperduti. Si sentono umiliati anche a causa dello scenario internazionale. I giovani uomini non hanno più i mezzi economici per esercitare il dominio sulle donne. Restano due vie per imporsi: violenza o religione. L’uomo dice alla donna: ho diritto di dominarti perché Dio mi ha fatto superiore a te».
E le donne subiscono.
«Sono timide quando si parla di sessualità. Anche le femministe. Pensano che convenga la discrezione. Non si battono perché i rapporti sessuali siano fondati sul consenso. Ma la loro discrezione è una carta perdente. Penso alle femministe come la nostra Aïcha Chenna: è meritoria la sua lotta per le madri celibi, per le discriminazioni verso i figli illegittimi, ma perché non si batte per il diritto delle giovani a una vita sessuale fuori del matrimonio?».
Come è divenuto un pioniere sulla questione sessuale nelle società islamiche?
«I problemi sessuali sono di ordine sociale. Negli anni Ottanta ho dedicato al rapporto tra sessualità e società il mio dottorato all’università di Rabat e alle donne in Marocco il mio dottorato francese a Amiens. Poi, nel mio libro Logement, sexualité et islam ( « Alloggio, sessualità, islam» : Eddif, Casablanca, 1996, ndr ) , denunciai il rapporto tra sessualità, disagio sociale e religione».
Le minacce di morte sono arrivate a fine anni Novanta.
«La prima volta nel 1999. A Sana’a, in Yemen, dissi che l’islam doveva riformare se stesso prima di ambire a cambiare la società. L’interpretazione dei testi è necessaria, una nuova legge islamica è possibile. Poi nel 2000 pubblicai la prima inchiesta capillare mai realizzata in Marocco sulla crisi della mascolinità. Ricevetti ancora insulti e minacce».
Non si sente solo? Datato?
«Sono minoritario, lo so bene. Per i giovani di oggi l’islam è la sola carta che si può giocare, il solo rifugio. Un islam mitizzato, l’utopia del califfato».
Sulla sessualità nell’islam lei sostiene che abbiamo superato una prima fase storica.
«Quella dell’unità religiosa tra le norme e le pratiche sessuali. Per secoli vi è stata concordanza, continuità».
E ora siamo nella seconda fase.
«Quella della rottura tra norme che continuano a essere religiose e pratiche che si secolarizzano e diventano autonome».
Ci sarà una terza fase?
«È in gestazione. Non sono più soltanto le pratiche a cambiare. Le norme stesse cessano di essere religiose e si secolarizzano. Vi è un riallineamento tra pratiche e norme, di segno secolare. È la mia teoria della transizione sessuale».
Si capiscono meglio le minacce.
«Mi batto per nuove norme. Contesto il monopolio degli ulema , i dottori della legge ufficiale. L’ho detto anche in tv, di recente, in diretta, quando hanno cercato di impedirmi di parlare del testo sacro perché non c’era un ulema in studio. Il testo religioso riguarda tutti: psicologi, sociologi, storici e linguisti. Noi intellettuali abbiamo il diritto e il dovere di interpretare le fonti sacre per trarne la legge».
Psicologo, sociologo, figlio di un giudice, lei si fa esegeta del Corano per combattere ipocrisia e schizofrenia?
«Non uso queste nozioni. Non sono sociologicamente rigorose. L’ipocrisia è morale. Lo schizofrenico è inconsapevole. Il marocchino sa di dire una cosa e farne un’altra. La schizofrenia riguarda un individuo, il problema qui è collettivo».
E le categorie usate dagli islamisti?
«Parlano di deviazione gli islamisti moderati, i soft, quelli vicini al palazzo. I meno moderati parlano di caos, sedizione, fitna . I radicali vedono un ritorno alla jahiliyya , il tempo dell’ignoranza pagana che precedette la rivelazione».
Agli islamisti preme difendere l’islam contro l’esplosione sessuale.
«Gli islamisti concordano su un punto: l’islam è perfetto e i musulmani sono cattivi; l’islam è innocente e i musulmani sono colpevoli. Il sociologo non può accettare questa teoria».
Lei intravvede una nuova norma islamica e lavora per essa. In gennaio uscirà in Francia il suo nuovo libro, per l’editore L’Harmattan: «Transizione sessuale tra genere e islamismo».
«Dobbiamo impegnarci sulla reinterpretazione dei testi, lo dico da vent’anni».
Ma così facendo non si cede alla modernità occidentale?
«Gli islamisti oppongono noi da un lato e la modernità occidentale dall’altro. Io distinguo tra occidente e modernità. La modernità è anche mia. Abbiamo lavorato tutti per costruirla nella storia. Quando l’occidente tradisce la modernità lo critico. In nome della modernità stessa».
E se con la modernità arriva la secolarizzazione?
«La secolarizzazione è il mio ideale. Non l’ateismo o il comunismo che vogliono sradicare la religione. Ma uno Stato che non impone la religione nella sfera pubblica».
Ma il suo ideale pare irrealizzabile.
«Bisogna essere realisti. Nell’immediato bisogna riformare il testo religioso dall’interno, modernizzarlo. Per il momento deve cambiare l’islam. Si deve riconoscere che è cambiato il contesto sociale e si devono cambiare le leggi. Non contro l’islam, ma in nome dell’islam».

Corriere La Lettura 10.9.17
I fronti dell’Africa
A partire dalle rivoluzioni del 2011 intere aree del Continente sono state inglobate in una «mediorientalizzazione» della guerra
di Antonio Morone

La guerra, in tutta la sua drammaticità, ha costituito un tratto permeante della storia contemporanea di molte società africane. I conflitti in Africa hanno spesso cause complesse che non si possono ridurre alle cosiddette «guerre tribali» e a un’immagine stereotipata degli africani, primitivi, organizzati in tribù e quindi intrinsecamente inclini a farsi la guerra l’un l’altro. Al contrario le guerre sono il portato di processi storici di lungo periodo (il colonialismo e il nazionalismo soprattutto) che si sono intrecciati con le dinamiche di un ordine mondiale nel quale il continente africano è stato spesso relegato, suo malgrado, a periferia di qualcos’altro. La guerra allora è stata anche una risposta per riaffermare una centralità dell’Africa e degli africani rispetto a interessi, ingerenze e interferenze esterne.
Se durante gli anni della guerra fredda i conflitti africani si svolsero prevalentemente all’interno degli Stati (movimenti secessionisti o rivoluzionari), dopo il 1990 le guerre africane sono state combattute tra gli Stati oltre che all’interno dello Stato. La forte interdipendenza tra la dimensione interna ed esterna della guerra ha finito per travolgere e lacerare intere società, oltre a mettere in crisi la tenuta delle istituzioni statali, per lo meno nelle forme e lungo i confini ereditati dal passato dominio coloniale. In questo quadro non convenzionale della guerra, che durante gli anni Novanta ha fatto parlare di «nuove guerre», non è stata l’economia a ristrutturarsi in funzione delle necessità belliche, ma è stata l’instabilità legata alla guerra a creare nuove dinamiche economiche (spesso illegali). Anche per questo motivo, molti conflitti in Africa hanno dimostrato una capacità di radicarsi e durare a lungo, alimentandosi delle logiche neopatrimoniali funzionali alla guerra stessa: le risorse dello Stato non sono messe al servizio di tutti i cittadini, ma del solo gruppo dirigente e dei suoi clienti, mentre l’alternanza di governo passa spesso per una nuova fase del conflitto. La disuguaglianza sociale ed economica, ancora prima della violenza, costituisce allora il tratto saliente di tanti conflitti in Africa.
Negli anni più recenti, dal 2011, una nuova tendenza è stata l’inclusione di intere aree africane nelle logiche della guerra in Medio Oriente. Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen, Somalia, Sudan, Nigeria, Mali e Libia sono oggi fronti diversi di un’unica grande guerra transnazionale che si sta combattendo per l’islam, al punto da aver fatto passare in secondo piano il conflitto arabo-israeliano. In questo quadro, la «mediorientalizzazione» del conflitto somalo durante gli anni Duemila ha solo anticipato una tendenza che oggi riguarda non solo il Corno d’Africa, ma l’intera regione sahelo-sahariana oltre a quella mediterranea. I movimenti jihadisti combattono prima di tutto una guerra contro altri musulmani per affermare una società improntata a una visione rigorista dell’islam e a un modello statuale alternativo allo Stato-nazione. Solo in seconda battuta viene il confronto diretto con l’Occidente, una guerra asimmetrica che non si fa scrupolo di ricorrere al terrorismo internazionale come strumento di lotta.
Congo e Grandi Laghi
Nel corso del 2017 è tornata a salire la tensione nelle province orientali (Kivu e Kasai) della Repubblica democratica del Congo, dopo che nel dicembre 2016, alla scadenza del secondo mandato, il presidente Joseph Kabila ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di cedere il potere. Il Congo è stato l’epicentro di una guerra regionale che tra il 1996 e il 2003 ha visto l’intervento degli eserciti di Angola, Zimbabwe e Namibia a sostegno del governo di Laurent-Désiré Kabila (padre di Joseph) contro il tentativo di Ruanda e Uganda di controllare almeno una parte del Paese, dopo aver appoggiato Kabila nella lotta all’ex dittatore Mobutu Sese Seko. A dispetto degli accordi di pace del 2003, ugandesi e ruandesi non si sono mai rassegnati a rinunciare alle ricche province minerarie del Congo orientale, alimentando una guerra per procura difficilmente contenibile dal contingente di peacekeeping dell’Onu. Fin dall’indipendenza nel 1960, fu difficile trovare un chiaro riferimento nazionale per uno Stato nei cui confini nessuno dei principali gruppi linguistico-culturali (Luba, Kongo, Mongo, Azande e Lunda) costituiva la maggioranza della popolazione.
Il problema del Congo è il problema di tanti Paesi africani nei quali i confini di derivazione coloniale hanno arbitrariamente messo insieme società diverse per lingua, cultura e storia: in un contesto di estrema debolezza della nazione, una componente sub-nazionale (o etnica) può allora aspirare a farsi nazione, ridisegnando i confini dello Stato. Non a caso per l’Organizzazione dell’unità africana (Oua), nata nel 1963 ad Addis Abeba, l’intangibilità dei confini e il principio di non interferenza negli affari interni di un altro Paese membro rappresentavano la migliore risposta a crisi come quella del Congo del 1960, quando la provincia mineraria del Katanga tentò senza successo la carta della secessione, grazie al sostegno dell’ex potenza coloniale belga e del governo bianco sudafricano. L’incapacità dell’Onu di arginare questa e tante altre crisi africane lasciò all’Oua la speranza di attuare soluzioni africane per le crisi del continente.
Somalia e Corno d’Africa
La guerra civile iniziata in Somalia nel 1991 ha portato a una riorganizzazione dello spazio somalo con la nascita nella regione centro-settentrionale del Somaliland (1993) e del Puntland (1998), due «quasi-Stati» mai riconosciuti a livello internazionale. Al contrario il Sud della Somalia ha continuato a essere l’epicentro di un conflitto che è spesso stato definito come paradigma della guerra clanica o tribale e del collasso dello Stato. In realtà è proprio la metafora del clanismo a fungere da copertura per un insieme di violenze contro civili inermi che altrimenti sarebbero riconosciute come crimini di guerra, se non come crimini contro l’umanità. Al di là della retorica del fallimento dello Stato, in Somalia si continua a combattere per poste che sono al centro dei processi di ricostruzione istituzionale. Il fallimento nel 2006 dell’esperimento di governo dell’Unione delle Corti islamiche e l’intervento dell’esercito etiopico hanno portato a un ulteriore processo di radicalizzazione della componente islamica del conflitto. Intanto l’Eritrea, dopo aver conquistato con trent’anni di guerra l’indipendenza dall’Etiopia nel 1991 (riconosciuta internazionalmente nel 1993), ha sostenuto le milizie islamiste somale in funzione anti-etiopica, prima ancora di impegnarsi in una nuova guerra con l’Etiopia dal 1998 al 2000: il casus belli fu ufficialmente una disputa confinaria, ma in realtà la posta in gioco erano gli interessi economici che legavano le due economie una volta unificate.
Sudan e Sud Sudan
Nel 2011 la secessione del Sud Sudan dal Sudan sancì la nascita di un nuovo confine internazionale: un unicum nella storia recente dell’Africa se si eccettua il caso dell’Eritrea che nel 1991 ripristinò il vecchio confine coloniale italiano. Le istanze autonomiste del Sud non-arabofono e in parte cristianizzato, rispetto all’élite dirigente arabo-musulmana del Nord, avevano innescato fin dal 1955 una guerra civile che, a fasi alterne, si concluse solo nel 2005 con la firma del Comprehensive Peace Agreement che aprì alla secessione del Sud. Nel 2013 tuttavia il conflitto in Sud Sudan è riesploso a seguito di una spaccatura al vertice dell’élite dirigente. La lezione è allora che non sono i confini a generare i conflitti, ma piuttosto le poste in gioco per il controllo dello Stato e delle sue risorse (petrolio prima di tutto); perciò la moltiplicazione degli Stati (e dei confini) provoca facilmente una moltiplicazione dei conflitti, non necessariamente la loro risoluzione. Inoltre la secessione del Sud Sudan alimentò le spinte autonomiste sia nel Darfur che nel Kordofan, suscitando la dura reazione del governo di Omar al-Bashir che proprio per aver appoggiato le bande Janjaweed in Darfur fu condannato nel 2010 dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. L’isolamento del regime di Khartoum dopo le sanzioni internazionali volute dagli Stati Uniti nel 1997 per il sostengo offerto dal Sudan a movimenti islamisti radicali (Al Qaeda, i gruppi islamisti in Algeria, Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina) è andato allentandosi a partire dal 2014 quando il governo sudanese ha iniziato a collaborare con l’Unione Europea per politiche di contenimento dei flussi migratori al confine con Libia e Ciad.
Nigeria e Mali
La Repubblica federale di Nigeria ha una storia di forte conflittualità interna tra le tre principali componenti linguistiche e culturali (Hausa-Fulani, Yoruba e Igbo) che portò tra il 1967 e il 1970 a un fallito tentativo di secessione da parte della regione del Biafra a maggioranza Igbo. Tuttavia negli anni più recenti è stata soprattutto la competizione tra musulmani e cristiani ad accentuarsi con l’introduzione della legge islamica negli Stati settentrionali. Il movimento armato jihadista Boko Haram, nato nel 2002, ha preso progressivamente il controllo degli Stati del Borno e di Adamawa, dichiarando tra il 2014 e il 2015 la sua affiliazione al califfato dell’Isis e penetrando nei territori di Ciad, Camerun e Niger. Nel dicembre 2015 il presidente nigeriano Muhammadu Buhari ha dichiarato la sconfitta di Boko Haram, anche se rimangono ancora sotto il controllo di suoi affiliati importanti centri nel Nord-Est della Nigeria.
Scenario simile è quello del Nord del Mali, che a partire dal 2012 è caduto sotto il controllo di diversi gruppi jihadisti, alleati con i separatisti tuareg. Nel fermare l’avanzata dei jihadisti si è rivelato determinate nel 2013 l’intervento militare francese in favore del governo di Bamako.
Libia
Nel quadro delle proteste popolari che percorsero diversi Paesi arabi nel 2011, il caso della Libia si distinse per una rapidissima progressione verso una guerra civile che oppose il regime di Gheddafi alle forze di opposizione sostenute dall’esterno dalle potenze occidentali, dalla Turchia e da alcuni Paesi arabi. L’intervento militare sotto l’egida dell’Onu doveva difendere i civili dalla repressione del regime. La continuazione delle incursioni aeree della Nato, nonostante una credibile proposta di mediazione negoziata dal Sud Africa per conto dell’Unione Africana (Ua), rivelò senza dubbi che il vero obiettivo dell’intervento era mettere fuori gioco Gheddafi. Dopo gli anni del panarabismo militante e l’appoggio libico al terrorismo internazionale in chiave antioccidentale, Gheddafi si era convertito al panafricanismo e aveva diretto molti investimenti libici in Africa sub-sahariana. Non a caso l’Ua fu l’unica organizzazione internazionale a non appoggiare la risoluzione dell’Onu sulla Libia, dopo che anche la Lega araba aveva scaricato Gheddafi. Se l’intervento internazionale si riprometteva di sostenere una rapida e ordinata transizione della Libia alla democrazia, il risultato è oggi quello di un paese diviso tra l’autorità di due governi e due parlamenti, con vari gruppi armati che hanno sempre più peso nella gestione delle risorse dello Stato e della rendita petrolifera. La guerra per la Libia ha segnato la sconfitta dell’Ua e di una politica improntata a soluzioni africane per i conflitti di un continente dove sono invece sempre più coinvolti attori esterni emergenti: la Cina ha aperto una base a Gibuti, la Turchia ha inviato i suoi soldati a Mogadiscio e la Russia sostiene il generale Haftar a Bengasi.

Corriere La Lettura 10.9.17
Vengono rivendicate diverse forme di supremazia territoriale, economica e politica
I fronti del Pacifico
di Manlio Graziano

Il fronte del Pacifico rappresenta oggi il punto più fragile degli equilibri politici internazionali. A prescindere dalla Corea del Nord. In quella regione sono coinvolte le prime tre grandi potenze in termini di prodotto, lì si concentra la metà del Pil mondiale e da lì transitano merci per 5.300 miliardi di dollari all’anno (dati 2015). Ma non è tutto: nell’area del Pacifico convive un gruppo di Paesi orgogliosi, dall’individualità nazionale molto netta. E infine, ed è questo l’elemento più importante, i pesi relativi tra quei Paesi sono drasticamente mutati nel corso degli ultimi decenni, rendendo ancora più precario il quadro generale. In un simile contesto, la Corea del Nord è una macchiolina sullo sfondo, ingigantita dall’uso spregiudicato che gli altri ne hanno sempre fatto per lanciarsi velenosi avvertimenti obliqui.
Russia e Cina
Le superpotenze di quell’area — Cina, Giappone, Russia e Stati Uniti — non solo si sono costantemente misurate tra di loro ma hanno anche regolarmente trascinato nelle loro rivalità altri Paesi fieri della propria storia e della propria indipendenza: Corea, Filippine, Vietnam, Cambogia, Thailandia, Indonesia. Senza dimenticare l’Australia, e senza ignorare il ruolo solo apparentemente esterno dell’India che, degli equilibri asiatici, è uno dei pesi più rilevanti.
La Russia e il Giappone si sono battuti a lungo per il controllo del mar Giallo, situato tra la penisola coreana e la Cina continentale. Dopo la vittoria nel 1905, i giapponesi occuparono sia la Manciuria che la Corea, e lo stesso fecero i russi dopo la vittoria del 1945 (anche se dovettero spartire la Corea con gli americani e restituire la Manciuria ai cinesi dopo l’ascesa al potere di Mao nel 1949). Quell’ostilità ha lasciato tracce profonde: tutti conoscono le animosità e i sospetti mai sopiti tra Cina, Corea e Giappone; ma nei pensieri dei dirigenti di quei tre Paesi, la Russia, e la minaccia che essa rappresenta, non sono mai molto lontane. E reciprocamente: la Russia non può che considerare con apprensione una Cina sempre più assertiva e un Giappone che, nonostante i suoi ormai tre «decenni perduti», resta comunque la terza potenza economica mondiale (con la quale, tra l’altro, Mosca non ha mai firmato un trattato di pace). Nel 1949, Stalin poteva permettersi di restituire la Manciuria a Mao perché considerava la Cina come una sorta di protettorato russo; oggi i rapporti di forza tra i due Paesi si sono rovesciati. I russi sanno bene che Vladivostok e il suo retroterra (circa 1.600 chilometri di costa tra le foci dell’Amur e dell’Ussuri, di fronte all’isola di Sachalin) erano cinesi fino XIX secolo; e sanno ancora meglio che, oggi, alla frontiera con la Manciuria c’è uno squilibrio demografico impressionante: 7 milioni di persone sul lato russo, 70 sul lato cinese.
La collaborazione tra Russia e Cina in seno alla Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Ocs) è vista da molti come la prova che i due Paesi hanno finalmente superato i rancori della storia e trovato un’intesa strategica; ma il fatto che due (o più) potenze possano avere uno scopo comune (in questo caso, tenere gli Stati Uniti il più lontano possibile dall’Asia) non significa che i loro contenziosi sugli altri fronti siano scomparsi. Nel caso specifico, anzi, l’Ocs è nata anche per permettere a Mosca e Pechino di sorvegliarsi a vicenda, non solo in Manciuria ma, soprattutto, in Asia centrale — cioè in aree dove il loro antagonismo geopolitico è insanabile.
L’offshore balance degli Stati Uniti
Anche per Giappone e Corea del Sud la preoccupazione comune è la Cina; ma la loro identità di vedute finisce lì. Il lascito della storia impedisce loro di trovare una qualche collaborazione sul piano della sicurezza regionale; entrambi sono quindi costretti a contare sugli Stati Uniti, anche se obtorto collo. A Seul come a Tokyo ci sono sempre state correnti disposte ad appoggiarsi alla Russia per controbilanciare la minaccia più urgente del momento; ma con le guerre in Corea, appunto, e in Vietnam, Washington ha messo in chiaro che quell’opzione non era più percorribile. Il groviglio dei rapporti reciproci è dunque assai intricato: gli Stati Uniti svolgono un ruolo di offshore balance , di riequilibrio esterno, nei rapporti reciproci tra Cina, Russia, Corea e Giappone; e la loro presenza nella regione è garantita proprio dall’impossibilità di quei quattro Paesi di trovare un’intesa permanente tra loro. Ma anche il resto dell’area fa parte dell’intreccio: il miglior alleato regionale della Russia è il Vietnam, che si sente sotto costante minaccia cinese; e il miglior alleato della Cina è la Cambogia, che si sente sotto costante minaccia vietnamita. Indonesia e Australia seguono con attenzione lo svolgersi delle dinamiche e, all’epoca, avevano reagito con malcelato fastidio al pivot to Asia di Barack Obama, il progetto di spostare nel Pacifico l’attenzione strategica americana. Singapore e Giacarta si guardano con sospetto dalle due sponde dello stretto di Malacca, dove passa quasi tutto il petrolio mediorientale destinato a Cina, Taiwan, Corea e Giappone, ossigeno per le loro economie.
Se gli Stati Uniti fanno da offshore balance a Oriente, l’India svolge un ruolo simile a Occidente: i rapporti politici sul fronte del Pacifico sarebbero incomprensibili se si facesse astrazione degli uni o dell’altra. Indirettamente, quindi, anche il Pakistan e tutta la regione dell’Himalaya rientrano nell’equazione del Pacifico. Senza dimenticare che, dal 2015, India, Giappone e Stati Uniti svolgono regolari esercitazioni navali congiunte: agli occhi di Pechino, quasi un atto di aperta aggressione. Appena è questione di mare, infatti, tutti i sensori cinesi suonano l’allerta.
Pechino e il mare
Quando si parla di peso della storia, si intende che le rivalità reciproche sono tutt’altro che recenti. Nel corso della storia, però, i rivali mutano di peso e d’importanza. Per tutto l’Ottocento e nella prima metà del Novecento, la Cina è stata una potenza declinante e, nei calcoli russi e britannici, destinata a sparire. Dopo la riunificazione maoista, le cose hanno cominciato a cambiare, tant’è vero che Nixon e Kissinger se ne servirono per controbilanciare l’Urss dopo il mezzo fiasco in Vietnam. Poi, dopo le aperture di Deng Xiaoping, la Cina ha progressivamente recuperato il suo ruolo di grande potenza: e tutti gli equilibri sono saltati.
Pensando, come Stalin, che la Cina maoista fosse un protettorato russo, gli Stati Uniti lanciarono ai tempi della guerra di Corea la strategia della «doppia catena di isole»: la serie di isole dall’Hokkaido al Borneo doveva restare in mano a Paesi amici (Giappone, Formosa, Filippine, Vietnam e Malaysia), ed essere consolidata da una seconda catena, più al largo, allora controllata dagli americani (Iwo Jima, Guam, Marianne e Caroline). All’epoca dell’autarchia maoista, quella strategia non ha granché nuociuto alla Cina; quando però il Paese si è aperto al mercato internazionale, la «doppia catena» è diventata una minaccia: più gli scambi commerciali aumentavano, più la protezione delle rotte commerciali marittime — circa il 90% del volume totale dei suoi scambi — diventava per la Cina una priorità geopolitica.
Pechino è oggi fermamente intenzionata a riacquistare la sovranità marittima, che è anche sovranità militare, a costo di provocare il confronto con i suoi vicini — e col grande protettore dei suoi vicini, gli Stati Uniti. Nel 2012, il governo ha adottato una nuova carta geografica ufficiale che permette di visualizzare la nine-dash line (linea dei nove tratti) nella sua integralità. Quella linea fu tracciata da Chiang Kai-shek nel 1947, e adottata tale e quale da Mao come frontiera marittima del mar Cinese meridionale: due milioni di chilometri quadrati che inglobano parte delle acque territoriali (secondo le convenzioni internazionali firmate anche dalla Cina nel 1982) di Taiwan, Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei, più un’ampia fascia di acque internazionali. Secondo Pechino, la «sovranità incontestabile» di quelle «acque storiche» risalirebbe a duemila anni fa, e sarebbe quindi anteriore ai trattati del 1982. A quella disputa, che ha dato luogo a numerosi incidenti col Vietnam e le Filippine soprattutto, si aggiungono altre rivendicazioni marittime, come quella sulle isole Senkaku-Diaoyu (7 chilometri quadrati), nel mar Cinese orientale, controllate dal Giappone, o sullo scoglio di Socotra, rivendicato anche dalla Corea del Sud, sui quali Pechino ha unilateralmente stabilito una zona di identificazione aerea nel 2013.
La guerra per le isole
All’interno della nine-dash line si trovano le isole Paracel, situate di fronte alle coste del Vietnam, occupate da Pechino nel 1974 e instancabilmente rivendicate da Hanoi. E soprattutto si trovano le cosiddette «isole» Spratly, in realtà uno sciame di una quarantina di scogli e di atolli inabitabili per un totale di meno di due chilometri quadrati di terra calpestabile, ma sparsi su quasi mezzo milione di chilometri quadrati, contesi tra Cina, Vietnam, Taiwan, Filippine, Malaysia e persino il sultanato del Brunei. Molti asseriscono che la disputa sia solo economica: quelle acque farebbero gola perché, si dice, ricche di petrolio e pesce. È difficile però pensare che Pechino vi costruisca isole artificiali con tanto di aeroporti (come sta facendo) e sia perfino disposta a rischiare un conflitto solo per ragioni di ipotetici giacimenti e alta pescosità. La Cina vuole il libero accesso al Pacifico e all’Oceano Indiano; petrolio e pesce sono certo importanti, ma la sua libertà di movimento, e la libertà di movimento delle sue merci, sono più importanti ancora.
Lo scontro delle civiltà , il celebre e controverso libro di Samuel Huntington, si concludeva su un’ipotesi che, quando apparve nel 1996, poteva apparire fantascientifica: una guerra mondiale provocata da un iniziale conflitto tra Cina e Vietnam per le isole Spratly. Per non perdere credibilità di fronte ai suoi alleati regionali, immaginava Huntington, gli Stati Uniti correvano in soccorso del Vietnam contro la Cina, dando origine a un concatenamento di eventi del tipo di quello sfociato nella Prima guerra mondiale.
Nello scenario di Huntington, la guerra scoppiava perché gli Stati Uniti avevano rispettato i loro impegni; oggi, il rischio è esattamente l’opposto. I calcoli politici si fanno mettendo in conto anche gli imponderabili, ma con tutti gli attori al loro posto. Oggi, non è dato di sapere se gli Stati Uniti sono ancora al loro posto. La nuova presidenza è stata inaugurata con il ripudio del più ambizioso piano di inserimento degli Stati Uniti nella regione, il Trattato transpacifico di libero scambio (Tpp), e quella prima mossa è stata sufficiente a rimettere in movimento la slavina degli equilibri regionali. Si potrebbe pensare che gli avversari degli Stati Uniti si rallegrino della scomposta cacofonia che regna oggi nella gestione della politica estera americana, ma non è così: infatti, se nei prossimi anni quel caos diventasse permanente, sul fronte del Pacifico tutti, amici e avversari, sarebbero tentati — o addirittura costretti — a «fare da sé», riaprendo inevitabilmente le ferite di un passato che non passa.
Sul fronte del Pacifico, gli elementi di fragilità non mancano. Oggi, però, la fragilità maggiore si trova a Washington.

Corriere La Lettura 10.9.17
Ti amo. Ti bacio. Il tuo Unga
Giuseppe Ungaretti aveva 76 anni, lei 26
di Roberto Galaverni

Giuseppe Ungaretti scrisse a Bruna Bianco almeno 377 lettere d’amore in due anni e mezzo soltanto, tra il settembre del 1966 e l’aprile del 1969. Basterebbe forse questo a dire dell’intensità, della necessità, del trasporto di una corrispondenza oltre-oceanica scritta in nome di una passione che ha segnato e, alla lettera, reso incandescenti gli ultimi anni di vita del poeta. Dall’inizio alla fine senza il minimo calo di battiti e di temperatura, senza un rientro nella norma quotidiana o ordinaria, senza che un argomento, una frase, anche una sola parola, non fosse che il riverbero di quel sentimento così forte e totale. «Ecco, caro amore mio, tutto. Ti penso sempre, Ti amo. Ti bacio. Il Tuo Unga», così si chiude l’ultima lettera.
Questa corrispondenza, anche se solo per la parte di Ungaretti, si può trovare ora raccolta nel volume Lettere a Bruna , che Silvio Ramat ha curato con grande competenza per Mondadori. Ungaretti aveva conosciuto Bruna in Brasile, dove si era recato per tenere alcune conferenze, ma anche per visitare a San Paolo la tomba del figlioletto morto nel 1939, a 9 anni soltanto, per un’appendicite mal curata (a San Paolo il poeta aveva insegnato all’Università tra il 1937 e il 1942). Bruna gli si era avvicinata proprio al termine di una conferenza per consegnargli qualche suo verso, e da lì, da quel momento, era nato tutto.
Le prime lettere vengono inviate già dalla motonave su cui lo scrittore stava rientrando dal Sud America. Originaria delle Langhe, da una decina d’anni Bruna vive con la famiglia in Brasile, dove il padre ha aperto una filiale della sua azienda produttrice di spumanti. Anche se è laureata in giurisprudenza, è lì che lavora, nell’amministrazione. È bella, aggraziata, elegante, ma soprattutto molto giovane. Ha infatti 26 anni, 52 in meno del grande, vecchio poeta, che in quel momento ne ha 78. La «legge dell’età», come viene chiamata, graverà infatti sul loro intero rapporto, in qualche misura sempre angustiando un Ungaretti mai così attaccato alla vita, ma senza tuttavia ostacolare l’amore, e anzi, come in genere gli impedimenti, legittimandolo e rafforzandolo oltre misura.
Come spiega Ramat, «la corrispondenza è intervallata da periodi nei quali Bruna e Ungà non hanno bisogno di scriversi poiché due volte ritorna lui in Brasile, due volte arriva lei in Italia». Di conseguenza, l’epistolario è stato suddiviso in cinque capitoli, corrispondenti ad altrettanti piccoli cicli non soltanto cronologici della vicenda amorosa.
Ma di che cosa parla Ungaretti quando scrive a Bruna? È presto detto: parla di tutto eppure di nient’altro che non sia il suo amore. Credo che su questo aspetto Ramat abbia visto giusto nella sua introduzione. Non ci sono scene o quadretti autonomi, pezzi di bravura, racconti o raccontini che contengano in sé il proprio fine. Così, se una possibile chiave di lettura di queste lettere si può indicare, sta proprio qui: resoconti di viaggi, cronaca della vita, informazioni, aneddoti, constatazioni, scoperte, giudizi sugli uomini e sul tempo presente, riflessioni sull’arte e la letteratura, consigli e insegnamenti (anche sull’arte poetica), perfino i ricordi e i rimorsi (anzitutto quello per la propria «passiva complicità con il fascismo»), tutto è scritto pensando a lei o comunque confessando senza riserve quello che la passione ha provocato in lui — sensi, cuore, mente, tutto insieme — quasi che il poeta volesse, proprio come accade nelle antiche canzoni, trovare la forza per spingere le sue parole al di là di un oceano che è anche quello di una differenza d’età e di destino che non potrà essere superata. Certo, esistono lettere migliori di altre, pagine più reattive e interessanti, più vive; ma ogni parola andrà comunque letta tenendo ben presente il fuoco o, se si preferisce, la freccia d’amore che la genera, senza poi perdere mai di forza, senza mai precipitare nell’acqua.
Il sentimento, diciamo pure il romanticismo di queste lettere è dunque estremo, smisurato. In fondo, succede con Ungaretti quello che capita con tutti gli innamorati: si scrive a chi si ama per essere veri, semplici, diretti, e dunque per bucare la pagina, per spazzare via la letteratura; si scrive per dire che non si tratta di parole ma di realtà, di una persona in carne e ossa che vive e sente, che patisce e gioisce; e si scrive, ancora, per affermare l’unicità del proprio sentimento e per fare della parola (com’è difficile, com’è impossibile, però) qualcosa che gli occhi, la bocca, le mani, non possono avere, non possono toccare.
Ungaretti se ne rammarica più e più volte, tant’è che ritorna sempre lì, sulle stesse parole che vogliono immediatamente essere gesti, baci (molti, moltissimi ne vengono mandati), corpo, respiro, contatto. L’estasi e, al contempo, la forza drammatica delle lettere si trova anzitutto in questa tensione. In una tra le prime, scrive ad esempio: «Mi stringo con le due mani il viso, e l’accarezzo, e nel mio viso rinasce il Tuo nelle mie mani, la più cara cosa, la sola che amo su tutte, l’anima della mia anima, sei l’anima della mia anima, l’ultima forza che mi resta, l’ultima mia poesia, la vera, l’unica vera». Il valore di testimonianza estrema ma comunque sostitutiva, inadeguata della parola raramente si fa sentire tanto come in queste occasioni. Capita allora che le frasi fatte, la parole comuni, quelle che almeno una volta tutti (così spero, almeno) abbiamo detto, anche e tanto più sulla bocca del vecchio poeta si rivelino le più efficaci, le più dirette e toccanti. Le ripete in ogni momento, ossessivamente, come un ragazzino, perché in fondo non gli è possibile dire altro. Ecco allora i tanti attacchi che si susseguono come minime variazioni l’una dell’altra: «Amore mio», «Anima mia» (il più ricorrente), «Luce mia», «Angelo mio», «Amorissimo mio», «Piccolina mia», «Sposina mia», ma anche: «Amore inverosimile, amore incredibile, intrepido amore, ritemprante amore, amore illuminante, graziosa mia sovrana». E allo stesso modo i congedi: «Ti amo immensamente. Ti amo. Ti bacio», o ancora: «Ti amo tanto, tanto, tanto».
Bruna — Ungaretti lo dichiara più volte — è per lui l’amore, la Musa, la poesia, e dunque la vita stessa. Energia e forza si avvertono da tutte le parti, ma sono sempre indirizzate bene, volta a volta con entusiasmo, furia, dolcezza, candore, malinconia, anche tristezza. Non si trova praticamente nulla dell’Ungaretti incattivito e polemico, talora anche malevolo, che tante volte affiora, ad esempio, nelle lettere a Leone Piccioni, suo allievo, ma poi amico e confidente elettivo ( L’allegria è il mio elemento. Trecento lettere con Leone Piccioni , uscite sempre per Mondadori nel 2013 a cura di Silvia Zoppi Garampi). No, qui il poeta, l’uomo, vuole dare il suo meglio. A volte, certo, come niente fosse fa un po’ mostra di sé e dei propri successi, a volte assume un tono un poco saputo e didascalico. Potremmo anche dire che ci tiene a fare bella figura agli occhi di lei.
Ma è proprio questo il punto, anzi, il bello delle lettere, perché è appunto qui che Ungaretti si mostra più naturale e scoperto, più arreso al volere della sua stessa passione. Il fatto è che quello che ha fatto e scritto non è sufficiente, non serve, non importa. Non gli basta la sua figura consolidata, non gli basta la gloria poetica, il passato, perché sente di essere vivo qui e ora, sente di essere vivo per lei. E deve dirlo. «Sono furente d’amore. Urlo come una belva — alla mia bell’età — d’amore; ma sono un prodigio. La poesia salva un uomo dagli anni, rimane fino all’ultimo un bramoso, con i bramiti. T’amo, T’amo, t’amo, e ti bacio fino all’oblio di me e di tutto».

La Stampa 10.9.17
“Io, ultimo amore di Ungaretti. Il suo fascino era irresistibile”
Mondadori pubblica leLetterea Bruna Bianchi, italiana di San Paolo Ventiseienne, seppe accendere la passione del settantottenne poeta
di Mario Baudino

Si incontrarono alla Ca’ d’oro, l’unico buon albergo di San Paolo, proprietari veneti. Bruna Bianco aveva 26 anni, da dieci era in Brasile e lavorava per l’azienda vinicola del padre. Scriveva poesie un po’ scolastiche «come accade alle ragazze veramente stupide», ci racconta nella casa di Pietra Ligure che alterna alla residenza brasiliana, e non sapeva nulla di Giuseppe Ungaretti. Ma adorava sentir parlare italiano e aveva letto sul giornale che era un importante poeta: decise di conoscerlo, fece irruzione in albergo, fu un colpo di fulmine. «Lo stavo aspettando nella Hall. Come entrò, non capii che cosa mi stesse accadendo. Parlammo per un’ora, mi invitò a colazione, mi chiese il numero di telefono».
Allora, in Brasile, un telefono privato era ancora una costosissima rarità. L’invito fu respinto, il numero - l’unico che c’era, quello dell’ufficio - fu invece concesso, e i due si separarono. «Mi abbracciò e mi accompagnò con un lungo gesto delle mani. Tutto il mio corpo fu solcato da una lunga, intima vibrazione, da un piacere sensoriale che non avevo mai provato».
Il poeta settantottenne aveva un fascino intatto, unico - e già sperimentato con altre donne. Ma questa volta fu l’uomo a imporsi. «Avevo conosciuto un uomo così totale che, pensai, avrei potuto presentarlo immediatamente a mio padre per annunciare che intendevo sposarlo. Ero turbata. Nessuno mai che mi avesse fatto vibrare così follemente al tocco di una mano».
Ungaretti doveva lasciare San Paolo ma promise di tornare. Pochi giorni dopo il telefono dell’ufficio squillava imperiosamente, e di lì in poi ebbe inizio la storia narrata insieme a tante altre cose da questa lettere. Tre anni di passione con rari incontri: sei in tutto, 3 in Brasile, 3 in Italia. «Ha presente quella carta antimosche che si usava un tempo? Io ero come una mosca, appiccicata alla carta di un amore venuto fuori con una forza inarginabile, un amore fatto di mani, la parte più sensuale di quell’uomo». Scrissero insieme (le poesie di Dialogo) sognarono insieme, e alla fine pensarono al matrimonio. «Nel ’69, Ungà (così si firmava nelle lettere, perché, spiega subito, «Ungà (…) è il nome che mi dà chi mi vuol bene». N.d.r.) incaricò lo scultore Ninì Santoro di preparare le fedi, era tutto pronto perché venisse in Brasile per il mio compleanno. Dopo la cerimonia ci saremmo trasferiti in Italia». Sì, ma dove? Ungaretti abitava con la figlia e il genero, una stanzetta nel loro appartamento all’Eur, non era certo ricco, ad onta della fama e della popolarità conquistata con le sue straordinarie letture televisive dell’Odissea.
«L’idea di un casa a Canelli, dove la mia famiglia poteva aiutarci, mi sembrò infastidirlo, aveva un suo orgoglio». Sperava nel Nobel (ne parla diffusamente con Bruna), che non venne. E ci fu chi in Italia ostacolò il progetto, tanto che «qualche mia lettera sicuramente non gli è stata consegnata». Incomprensioni, silenzi. «Il mio amore per te arde sotto le ceneri» fu la dedica - preoccupante - che le scrisse sulla copia di Dialogo», il libro con le loro poesie. Per Bruna Bianco, un segno che non si poteva ignorare. «Ci eravamo promessi che se il nostro amore si fosse allentato, non ci saremmo più scritti».
Non sarà arretrato davanti a un passo troppo impegnativo, data la situazione? «No, era troppo grande per le piccole cose. Era un uomo: solo la seconda volta che ci siamo incontrati ho cominciato capire che era anche un grande poeta». E dopo? «Dopo, ho dovuto ricominciare da capo, azzerare tutto. E mai più un verso». La timida poetessa innamorata diventa un grande avvocato brasiliano, crea una famiglia. In qualche modo, senza farsi condizionare da quella vasta ombra. «E sa perché? Me lo aveva già scritto lui: perché sono un soldato. Voleva che fossi felice. Lo sono stata. Ho avuto altre persone, ma mai come Ungà».

Corriere La Lettura 10.9.17
Il «calesse del Poggione» di Asciano, Siena
La Rolls Royce etrusca correva pure nell’aldilà
di Livia Capponi

Nell’Italia etrusca di età orientalizzante e arcaica (VII-VI secolo a.C.) il carro a due ruote, in legno e spesso impreziosito da una copertura in lamine in ferro, bronzo o oro decorate a sbalzo, da sculture e intarsi, era non solo un mezzo di trasporto, usato dai proprietari terrieri per visitare i possedimenti o muovere persone o cose, ma soprattutto uno status symbol, paragonabile a una Rolls Royce appannaggio delle élite, che per questo era spesso inserito nelle tombe come celebrazione del rango del proprietario. Certamente gli etruschi usavano vari tipi di carri anche in ambito militare, per il trasporto del principe guerriero sul campo di battaglia o in occasioni trionfali o di parata. Che fosse usato anche per matrimoni ce lo suggerisce un bassorilievo in terracotta da un palazzo arcaico della città etrusca di Poggio Civitate, i cui reperti sono oggi nel Museo di Murlo in provincia di Siena. La lastra raffigura la coppia nuziale sul calesse circondata da servi che coprono gli sposi con un ombrellino, secondo un’iconografia presente anche in raffigurazioni persiane dal palazzo di Serse a Persepoli.
Finora sono stati trovati centinaia di frammenti di carri in ambiti funerari etruschi, non solo in Etruria ma anche in altri siti nell’Agro Falisco, in Umbria, Sabina, e nel Piceno, un fenomeno che indica l’esistenza di legami gentilizi e di un retroterra comune fra le aristocrazie dell’Italia Centrale. Il carro a due ruote o carpentum (da cui deriva il termine «carpentiere») passò poi dagli etruschi ai romani, che lo usarono anche per spettacoli e competizioni nel circo.
Da un mese a questa parte è tornato visibile al pubblico nelle sale del Museo di Palazzo Corboli di Asciano (Siena) il «calesse del Poggione», un carro etrusco in ferro, con grandi ruote, ritrovato negli anni Ottanta nella tomba «A» della necropoli di Poggione, presso Castelnuovo Berardenga, sempre in provincia di Siena, e forse appartenuto a un principe. Si presenta come un tiro a due trainato da asini o cavalli, una cassa a forma di parallelepipedo aperta davanti e dietro, con la seduta quasi all’altezza dei bordi, senza predellino, in origine coperto da un baldacchino, e con uno spazio nella parte posteriore che doveva ospitare i bagagli o eventuali passeggeri. Aveva due grandi ruote cerchiate e doveva permettere, viaggiando seduti, di sostenere percorsi anche lunghi, come visite di principi o signori ai loro possedimenti e trasporto di beni. Nella sepoltura in cui fu rinvenuto il calesse, una tomba a camera del VII secolo a.C., erano sepolti un uomo e una ragazza di alto rango, accompagnati nel viaggio ultraterreno da ricchi corredi, l’uomo da scudi, armi, gratelle per cucinare la selvaggina, coltelli, coppe per bere, la donna da oggetti d’avorio, pettini, rocchetti per la filatura, fibule e gioielli.
Il calesse in questi ultimi anni è stato sottoposto a un complesso intervento di restauro, che ha ordinato e innestato la miriade di frammentini emersi dallo scavo su una struttura in legno per restituire forme e dimensioni originali. Un puzzle tridimensionale che ha richiesto anni di lavoro e tutta l’esperienza di un gruppo di restauratori, archeologi e architetti guidato dall’archeologa Irma della Giovampaola, della Soprintendenza per le province di Siena, Arezzo e Grosseto.
Fra questi reperti spicca il carro a due ruote trovato a Montecalvario, restaurato nel 2014 ed esposto al Museo Archeologico di Castellina in Chianti (Siena), in legno decorato con lamine in bronzo e ferro sbalzate a rilievo con motivi ornamentali orientalizzanti e greci; ma il più celebre di questi oggetti è senza dubbio la biga d’oro di Monteleone di Spoleto (Perugia), eccezionale carro da parata del VI secolo a.C. scoperto per caso da un contadino, che durante i lavori di costruzione dell’aia nel 1902 s’imbattè in una tomba etrusca, completa di coppia di defunti e corredo funerario. Venduto a un mercante locale per novecento lire, il carro, dopo rocamboleschi passaggi fra Norcia, Firenze, Roma e Parigi, attraversò furtivamente l’Oceano Atlantico per ricomparire l’anno dopo al Metropolitan di New York. Si tratta di un lussuoso carro di rappresentanza, forse usato in contesti trionfali e in cerimonie da più di una generazione e poi deposto nel tumulo dell’ultimo proprietario. In legno di noce, cuoio, con lamine di ferro e bronzo dorato lavorato a sbalzo, e intarsi in avorio, era finemente decorato con pannelli raffiguranti scene del ciclo troiano ed episodi della vita di Achille, fra cui la ieratica consegna dell’elmo e dello scudo all’eroe da parte della madre Teti, il combattimento contro il re etiope Memnone e l’ascesa di Achille all’Isola dei Beati su un carro trainato da cavalli alati, sotto il quale giaceva Polissena, principessa sacrificata in suo onore.
Il livello delle decorazioni fa pensare a un artista di grande levatura. Al Met il carro fu inizialmente assemblato in maniera erronea. Più di recente, è stato sottoposto a un lungo restauro a cura dell’équipe dell’archeologa Adriana Emiliozzi del Cnr, che ha riallestito i pannelli decorativi nel 2007. Fu una perdita incalcolabile per l’archeologia italiana, a cui il governo dell’epoca assistette senza far niente. Da allora il contenzioso per la restituzione è sempre stato frustrato.
Un altro carro etrusco da guerra del VII-VI secolo a.C., composto da 145 pezzi in lamina d’oro e bronzo, con decori a sbalzo raffiguranti animali veri e fantastici, dalla tomba di un «principe sabino» in una necropoli presso Fara Sabina, l’antica Eretum , illegalmente scavato e rubato, fu acquisito negli anni Settanta dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen. In questo caso la storia ha un lieto fine. Nel 2016 il Mibact ha sottoscritto con il museo danese un accordo di cooperazione che ha riportato in Italia il carro e il corredo funebre pertinente. Ora i reperti sono custoditi dai carabinieri, in attesa di essere esposti in mostra e poi definitivamente collocati in un museo. Un importante successo della neonata «diplomazia culturale», che ha davanti a sé una lunga lista di beni archeologici e artistici in attesa di tornare a casa. Sempre che la casa sia preparata ad accoglierli, e a sostenere chi li dovrà comprendere, studiare, far riscoprire.

Corriere La Lettura 10.9.17
Il museo
Yad Vashem e il nodo dei genocidi
di Macello Flores

A fine luglio Nadia Murad, la giovane yazida divenuta ambasciatrice delle Nazioni Unite per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani, che a Milano l’anno scorso ha raccontato la tragedia del suo popolo e del genocidio cui è stato sottoposto da parte dell’Isis in Iraq, si è recata allo Yad Vashem e ha commentato: «Se solo saremo in grado di tornare nella nostra patria dovremo fare una cosa simile», come documentare, educare, commemorare la storia della Shoah è, da quando fu fondato nel 1953, il compito dello Yad Vashem, l’Ente nazionale per la memoria della Shoah dello Stato di Israele, il cui museo è stato riorganizzato nel 2005. Dagli anni Sessanta spetta allo Yad Vashem stabilire chi debba avere il titolo di «giusto fra le nazioni» per avere rischiato la vita nel salvare gli ebrei durante la persecuzione nazista. Proprio per essere il depositario della memoria ebraica sulla Shoah, lo Yad Vashem è stato nel corso degli anni al centro di polemiche storiografiche, politiche, religiose, che ne hanno di volta in volta criticato l’eccessiva autonomia o messo in guardia dalla sua sudditanza alle politiche governative dello Stato d’Israele.
Nel corso della visita di Nadia Murad il direttore della International School for Holocaust Studies di Yad Vashem si è rifiutato di commentare se ritenesse — come affermato dalla commissione istituita dalle Nazioni Unite — quello degli yazidi un genocidio, l’ultimo in ordine di tempo in un mondo devastato da crimini contro l’umanità. Per anni si è dibattuto se la Shoah sia stato un genocidio «unico» nel suo genere. Yehuda Bauer, il grande storico israeliano che per molto tempo è stato in qualche modo la guida storiografica dello Yad Vashem, ha sempre preferito parlare di un crimine «senza precedenti» e, recentemente, si è apertamente schierato con chi ritiene necessario affrontare tutti i genocidi e accettare uno studio comparativo tra loro, senza lasciare la Shoah nel «ghetto ebraico», come proprio Yad Vashem era stato accusato di fare, rifiutando di prendere in considerazione altri genocidi (a Yad Vashem vi sono numerosi «giusti fra le nazioni» armeni ma non si è mai parlato apertamente di «genocidio» armeno, che Israele rifiuta ancora di riconoscere). Molto critico dello Yad Vashem è lo storico israeliano Yair Auron, che pure negli anni Settanta ha diretto il suo dipartimento di educazione e ha poi insegnato dal 2005 alla Open University of Israel (la prima dove si è parlato apertamente di «altri» genocidi).
In una realtà internazionale in cui le violenze di tipo genocidario o comunque i crimini contro l’umanità si sono moltiplicate, e in una società sempre più globalizzata, restare chiusi nell’ambito del solo proprio genocidio — tanto fondamentale che fu quello da cui il termine venne inventato nel 1944 — sembra un limite sia di documentazione sia di pratica educativa.
È in questa situazione che Yad Vashem sta vivendo, soprattutto in confronto con analoghe istituzioni di tipo storico-museale (per esempio il Museo dell’Olocausto di Washington), una sorta di crisi d’identità, in cui non è più sufficiente riproporre la propria missione, elaborata in un’epoca in cui di Shoah nessuno parlava, senza affrontare le richieste di una maggiore comparazione che provengono da ogni parte, dal mondo storiografico internazionale come dalle vittime di genocidi, dai sopravvissuti come dagli insegnanti.
Yad Vashem si è trovato di recente, per bocca del proprio direttore della ricerca, Dan Michman, a polemizzare col proprio governo, un evento assai raro: è stato quando il premier Benjamin Netanyahu alla fine del 2015 dichiarò che Hitler non aveva alcuna intenzione di sterminare gli ebrei ma voleva solo espellerli, e fu convinto alla scelta della distruzione dal gran muftì Haj Amin al-Husseini. Una strumentalizzazione della storia per fini politici che nessuno, neppure in Israele, si è sentito di avallare. Anche in Italia non sono mancate polemiche con le scelte di Yad Vashem, soprattutto in riferimento alla decisione di attribuire il titolo di «giusto fra le nazioni». Era già successo con Giovanni Palatucci, commissario di polizia a Fiume, insignito del riconoscimento nel 1990, che nel 2013 il centro Primo Levi di New York aveva denunciato come collaborazionista senza che Yad Vashem modificasse il suo giudizio. Adesso è il caso di Gino Bartali, insignito come «giusto» proprio a fine 2013 e su cui un articolo sul web dello storico Michele Sarfatti ha fatto sorgere qualche dubbio, mettendo in discussione la plausibilità della documentazione sull’apporto del ciclista al salvataggio di ebrei.

La Stampa10.9.17
Madame la Guillotine se n’è andata solo ieri
Quarant’anni fa (il 1977 della morte di Elvis Presley) l’ultima esecuzione con il “Rasoir National” a Marsiglia. Uno strumento nato per ridurre le sofferenze che prese il nome da un medico contrario alla pena capitale
di Claudio Gallo

La ghigliottina e uno pensa a Luigi XVI e Maria Antonietta, a Robespierre e Danton, a Marat e Carlotta Corday, alle illustrazioni della storia della rivoluzione francese del Michelet, brulicanti di furore sanculotto. È facile, invece, che la memoria sovraffollata ci nasconda che l’ultima esecuzione con la «macchina compassionevole» è avvenuta in Francia solo quarant’anni fa, il 10 settembre 1977. L’anno dell’elezione di Carter, della morte di Elvis Presley, il mese in cui uscì il doppio degli Stones Love You Live. Il dubbio onore di essere l’ultimo a rimetterci la testa toccò a un immigrato tunisino, condannato per aver torturato e ucciso una ragazza. I cultori del macabro possono rivedere su YouTube l’ultima esecuzione pubblica nel 1939 a Versailles. (Un genere di spettacolo abolito lo stesso anno. Bisognerà aspettare il 1981 perché Mitterrand cancelli la pena di morte).
La fama sinistra della ghigliottina nasconde alcuni paradossi: l’invenzione aveva in realtà l’intento pietoso di ridurre la sofferenza al condannato; e l’uomo da cui prende il nome, il medico Joseph-Ignace Guillotin, era un illuminista contrario alla pena capitale. Fin dal 1779 Guillotin proponeva di uniformare perlomeno il metodo delle esecuzioni. Allora la decapitazione, con la spada o con l’ascia, era applicata soltanto ai nobili o ai ricchi borghesi. Per il popolo c’era la più lenta e crudele forca se non la ruota dello squartamento o il rogo.
Il dottore illuminato precorreva la sensibilità moderna in un tempo in cui la pena di morte era generalmente considerata naturale. Nel celebre elogio del boia, nelle Serate di San Pietroburgo, De Maistre fa dire al conte: «Ogni grandezza, ogni potenza, ogni subordinazione riposa sull’esecutore: egli è l’orrore e il legame dell’associazione umana. Togliete dal mondo questo agente incomprensibile; nel momento stesso l’ordine lascia il posto al caos, i troni si inabissano e la società scompare». Ancora oggi la maggioranza degli americani sarebbe più o meno d’accordo.
L’idea di Guillotin diede vita a un comitato di esperti per costruire la macchina della morte indolore. Non è chiaro chi meriti il cappello dell’inventore, se il medico di corte Antoine Louis, il costruttore tedesco di clavicembali Tobias Schmid, un funzionario del tribunale di Strasburgo. O infine l’illustre boia Charles-Henri Sanson: «Le spade perdono il filo ad ogni uso - si lamentava -, sostituirle è una spesa insostenibile».
La macchina non nasce dal nulla. Già i romani avevano escogitato un sistema di guide in legno per ottimizzare il colpo letale della pesante ascia bipenne. Gli inglesi vantavano diversi prototipi, di uno parla con scetticismo Defoe; gli scozzesi avevano già spedito molta gente all’altro mondo con la loro «Maiden», poi abbandonata nel 1710; e gli italiani avevano inventato la mannaia. Tragica ironia, nel dibattito era intervenuto anche Luigi XVI, carpentiere per diletto. Il 7 marzo 1792, meno di un anno prima di finire lui stesso sotto la lama, parlò all’Assemblea in favore della ghigliottina: «Sarebbe facile costruire un tale strumento, che avrebbe effetti certi e la decapitazione avverrebbe in un istante, secondo la lettera e lo spirito della nuova legge».
Nato con intenti umanitari, il «Rasoir National» acquisì subito una fama sinistra, tanto che ai primi impieghi fu fatto sorvegliare dai soldati di Lafayette per timore che la folla lo distruggesse. Nacque la leggenda nera che le teste mozzate conservassero per pochi istanti un guizzo di vita. Quando un rivoluzionario schiaffeggiò il capo troncato di Carlotta Corday, molti giurarono di aver visto un moto di sdegno avvampare sul suo viso. Oltre un secolo dopo, nel 1905, il medico Gabriel Beauriux raccontò che, per qualche secondo, la testa del condannato Languille rispondeva al proprio nome con un’alzata di ciglia. Fantasie smentite dalle medicina odierna, che valuta la possibile durata della coscienza dopo la decapitazione in due o tre secondi. Eventuali movimenti sarebbero soltanto riflessi nervosi incoscienti.
Oggi, il consenso alla pena capitale è globalmente crollato, la ghigliottina è uscita definitivamente dalla storia e il presunto sollievo del suo impersonale meccanismo suscita solo orrore. Non si è avverato il progresso, satiricamente previsto dal Giusti, di una ghigliottina a vapore: una macchina che «in tre ore/Fa la testa a centomila/Messi in fila». Il mondo, apparentemente, è invece diventato più buono.

La Stampa 10.9.17
Grazie a un accordo con la Crusca
il dizionario Battaglia sbarca sul web

Martedì alle 12, presso l’Accademia della Crusca, a Firenze, sarà firmato uno storico accordo che consentirà la consultazione gratuita via web del Grande Dizionario della Lingua Italiana Utet. L’opera lessicografica monumentale, contenente 21 volumi da 22 mila 700 pagine, e di fondamentale importanza per lo studio e la conoscenza della lingua italiana, è nota agli studiosi di tutto il mondo come dizionario Battaglia, dal nome del suo fondatore. Frutto di 40 anni di lavoro, dal 1961 al 2002, sotto la direzione prima del filologo Salvatore Battaglia e poi del critico letterario Giorgio Bàrberi Squarotti, grazie all’accordo tra Utet e Accademia della Crusca, il Battaglia è il più grande vocabolario della lingua italiana mai portato a compimento nel nostro Paese e di eccezionale importanza in particolare per la storia della lingua letteraria. Si tratta infatti di una raccolta imponente delle parole usate dagli scrittori italiani dalle origini della lingua fino al Novecento. Il Battaglia documenta i lemmi con milioni di citazioni tratte da 14 mila opere di oltre 6 mila autori.

La Stampa 10.9.17
“Quando Picasso si innamorò dei Balletti Russi”
Olivier Berggruen, Storico dell’arte
di Alain Elkann

Olivier Berggruen è il curatore della mostra Pablo Picasso. Tra Cubismo e Neoclassicismo 1915-1925 che si apre a Roma il 20 settembre alle Scuderie del Quirinale e a Palazzo Barberini. «È il centesimo anniversario del viaggio di Picasso a Roma e Napoli - spiega - con Cocteau e Diaghilev. Picasso aveva 35 anni e aveva perso inaspettatamente una donna amata, Eva Gouel: cittadino spagnolo, non aveva obblighi militari; perciò decise di sfuggire all’atmosfera opprimente di Parigi durante la guerra».
Come nacque la collaborazione con Cocteau e Diaghilev?
«Cocteau lo “sedusse” e lo convinse a collaborare ai Balletti Russi sotto la guida di Diaghilev, il grande impresario russo che nel 1913 cambiò la scena artistica in Europa con La Sagra della primavera con le musiche di Igor Stravinsky. Era un’opportunità per Picasso, ma anche per Diaghilev, che aveva bisogno di idee e spunti innovativi e desiderava entrare in contatto con l’avanguardia incarnata da Picasso. E il balletto russo aveva il suo quartier generale all’Hotel de Russie di Roma. A Roma Picasso entrò in contatto con un gruppo internazionale di celebrità; Stravinsky, Diaghilev, Leonide Massine, primo ballerino e coreografo dei Balletti Russi, Leon Bakst, e i futuristi italiani come Balla, Prampolini e Fortunato Depero. Insieme lavorarono all’allestimento di Parade con la musica di Erik Satie, che venne rappresentato a Parigi e non a Roma».
Perché il sipario di Picasso perParadesarà esposto a Palazzo Barberini ?
«Perché è enorme! Misura 17 metri e Palazzo Barberini ha uno spazio magnifico, la Sala Pietro da Cortona, ed è a pochi passi dalle Scuderie del Quirinale dove è ospitata la mostra principale. Ho pensato che sarebbe stato bello il contrasto tra il sipario ampio, molto teatrale di Picasso e lo stretto soffitto del XVII secolo del pittore romano Pietro da Cortona».
Questo viaggio in Italia influenza notevolmente il lavoro di Picasso?
«Sì, enormemente. Lavorare a un allestimento teatrale gli diede l’opportunità di sviluppare alcune delle sue idee cubiste, come la nozione di costruzione e assemblaggio. Utilizzò le texture e le superfici delle sue composizioni cubiste per ridefinire lo spazio, compreso lo spazio di una produzione teatrale. Il Cubismo divenne aperto - non solo uno stile, ma uno strumento prezioso per articolare e riunire vari elementi all’interno di un singolo schema, come ad esempio un dipinto o una scenografia».
A Roma, Picasso si innamorò anche di una ballerina russa, Olga Khokhlova, e le fece molti ritratti, non è vero?
«Sì. Picasso amava l’ambiente dei Balletti Russi, e ha ritratto anche altre ballerine della compagnia, come Lydia Lopokova, che alcuni anni dopo sposò l’economista John Maynard Keynes. Picasso corteggiò Olga a Roma e un anno dopo si sposarono a Parigi. Fu influenzato dalla traiettoria delle linee della danza, dal movimento dei ballerini nello spazio e forse le linee fluide di alcuni dei suoi disegni dei primi Anni 20 riflettono questa vicinanza e il suo amore per il mondo del balletto».
Quali sono i principali capolavori in mostra?
«La mostra si apre con l’Homme accoudé sur une table del 1915, appartenente alla Pinacoteca Agnelli di Torino. Ci sono i tre dipinti realizzati durante il soggiorno a Roma, compreso Arlecchino e donna con collana dal Pompidou di Parigi. Capolavori dei primi Anni 20 come Arlecchino allo specchio del museo Thyssen-Bornemisza di Madrid o il monumentale Grand nu à la draperìe dal Musée de l’Orangerie di Parigi e il Flauto di Pan, dal Museo Picasso; si conclude con I tre ballerini (1925) dalla Tate Gallery, che segna simbolicamente l’addio di Picasso al mondo della danza. Abbiamo anche moltissimi disegni e un’affascinante e fin qui ignota corrispondenza del 1917 tra Picasso e i suoi amici, ora nella collezione del Metropolitan Museum di New York. Il catalogo sarà pubblicato da Skira».
Ha deciso di curare questa mostra per via dei legami familiari con Picasso?
«No. Nel 2006 ho curato una grande mostra, Picasso and the Theatre alla Schirn Kunsthalle di Francoforte e sono rimasto colpito da due cose. Innanzitutto quanto fossero originali le opere di Picasso tra il 1917 e il 1925; poi quanto fosse importante il suo lavoro di scenografo: influiva sullo svolgimento delle storie, l’allestimento e la concezione del palcoscenico. Tutti gli elementi del palco portano la sua impronta di raffinata eleganza e semplicità all’interno del canone modernista».
Da dove viene il suo amore per Picasso?
«Da mio padre, Heinz Berggruen, che non è stato solo un collezionista delle opere di Picasso ma ha anche lavorato a stretto contatto con lui negli Anni 50 e 60 come editore. Picasso e mio padre hanno creato insieme una serie di libri illustrati. C’era una ricchezza incomparabile nei dipinti e nelle sculture di Picasso che erano nella nostra casa di Parigi. Mio fratello Nicolas e io siamo stati molto fortunati a crescere circondati da grandi opere, che riflettevano la purezza della visione di nostro padre».
Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 10.9.17
Scienza e coscienza
Quando Nobel inventò il Nobel
Non voleva passare alla storia per il brevetto della dinamite (che aveva depositato centocinquanta anni fa) così il chimico svedese ideò il premio che ha cambiato la vita di tanti scienziati Di chi l’ha vinto e di chi l’ha “perso”
di Massimiano Bucchi

La scena potrebbe essere stata più o meno questa. Una mattina dell’aprile 1888, Alfred Nobel sfoglia i giornali mentre fa colazione nella sua bella casa di Parigi, al numero 53 di avenue de Malakoff. Sobbalza sulla sedia. Il giornale riporta il suo necrologio. Sì, proprio il suo! E che titolo: “ Il mercante di morte è morto”. C’è un errore, naturalmente. Il quotidiano ha scambiato Alfred per il fratello maggiore Ludvig, morto qualche giorno prima. Il nome è sbagliato, il necrologio è sbagliato, ma quel titolo, “Il mercante di morte è morto”, è proprio per lui: chimico, inventore e imprenditore di straordinario successo, titolare di 355 brevetti, tra cui quelli della dinamite ( nel 1867, centocinquanta anni fa) e della gelatina esplosiva, anche se quasi mai le sue invenzioni sono state effettivamente impiegate in contesti bellici. La sorpresa lascia posto allo sconforto e all’amarezza. Dunque è così che sarò ricordato, pensa. Poi torna al suo laboratorio, ai suoi mille progetti, alla sua vita perlopiù solitaria e schiva. Ma il pensiero di quel necrologio, di quel giudizio così duro da parte dei suoi contemporanei, non lo abbandona.
Sette anni dopo, nel 1895, quattro uomini vengono convocati in gran segreto al club svedese-norvegese di Parigi. L’amico Alfred Nobel chiede loro di fare da testimoni alla firma del testamento che ha scritto qualche giorno prima da solo, senza consultarsi con alcun legale. Il testamento è breve, sta tutto in una pagina, e annulla tutte le disposizioni precedenti.
In poche righe che cambieranno per sempre la scienza e la sua immagine pubblica, Alfred Nobel dispone che “tutto il resto del patrimonio realizzabile” sia destinato a premiare le scoperte o invenzioni più importanti in fisica, chimica e medicina; all’opera letteraria più notevole “di ispirazione idealistica”; a chi più si sia prodigato per “la fraternità delle nazioni”.
Il breve testo contiene tutto ciò che stava a cuore a Nobel. C’è la scienza, il suo lavoro e la sua vita. C’è la letteratura, una delle sue più grandi passioni. C’è la pace mondiale, un tema che lo aveva molto appassionato negli ultimi anni. Infine, la sua esperienza di cosmopolita e poliglotta, da cui “l’espresso desiderio che i premi siano assegnati senza tenere in alcun conto la nazionalità dei candidati”.
Alfred Nobel muore il 10 dicembre 1896. Neppure i parenti sanno nulla del testamento. Inizia una frenetica corsa a ostacoli in cui gli esecutori testamentari dovranno rastrellare il patrimonio (31 milioni di corone, circa 177 milioni di euro ai valori attuali) in giro per l’Europa, difenderlo dalle pretese di parenti ed ex amanti, superare lo scetticismo degli stessi scienziati svedesi chiamati ad attribuire i premi.
Il 10 dicembre 1901, nel quinto anniversario della morte di Nobel, nel salone dell’Accademia reale svedese della musica a Stoccolma, vengono finalmente assegnati i primi Nobel della storia. Sono per la fisica il tedesco Röntgen; per la chimica l’olandese van’t Hoff, per la medicina il tedesco von Behring; per la letteratura il francese Prudhomme (il premio per la pace è conferito a Oslo).
Da quel 10 dicembre 1901 a oggi (nel 2017 si comincia il 2 ottobre con la medicina) la macchina messa in moto sulla base delle volontà di Nobel non si è ( quasi) mai fermata. Dal 1901 al 2016 hanno ricevuto il premio Nobel 885 individui e ventisei organizzazioni. In particolare nelle scienze sono stati assegnati centodieci premi per la fisica a 204 premiati; 108 premi per la chimica a 175 premiati; 107 premi per la medicina o fisiologia a 211 premiati.
In oltre un secolo non sono mancate critiche e polemiche. Quelle più comuni riguardano le scelte dei premiati. Il libro Come vincere un Nobel. Il premio più famoso della scienza racconta come si sia arrivati ad alcune attribuzioni piuttosto discutibili (o quantomeno, oggi giudicate discutibili); come contributi e scienziati significativi siano rimasti “fantasmi” ignorati dal premio; come si sia rischiato di escludere dal premio più celebre della scienza uno degli scienziati più grandi e celebrati del Ventesimo secolo.
La storia del premio Nobel si intreccia fin dall’inizio con quella dell’immagine pubblica della scienza. Il significativo ammontare in denaro del premio e le polemiche scoppiate dopo la pubblicazione del testamento attirano da subito l’attenzione di stampa e pubblico. È la prima volta che gran parte della fortuna accumulata da un grande industriale viene destinata a finanziare dei premi. La combinazione tra ambiti così diversi (scienze, letteratura, pace) si rivela in realtà uno dei punti di forza. Da un lato, l’associazione con la pace e la letteratura conferisce un’aura di spiritualità ai premi scientifici. Dall’altro, l’associazione con le conquiste materiali del progresso dà rilevanza e visibilità ai premi per la pace e la letteratura.
Nasceranno in seguito altri e più ricchi premi scientifici, ma nessuno sarà più ambito dagli scienziati e più importante per la scienza e il suo ruolo sociale di quello voluto da Alfred Nobel: l’invenzione più celebre dell’uomo che aveva 355 brevetti.

Repubblica 10.9.17
Peter Sloterdijk
“Non esistono veri maestri. Per fortuna non ho mai incontrato Adorno: mi è stata risparmiata una delusione
Sono stato troppo indipendente per aderire a una scuola”
Heidegger e i Quaderni Neri
di Antonio Gnoli,

Un paio di mesi fa Peter Sloterdijk è stato a Roma, in occasione della laurea honoris causa che l’Università di Roma Tre gli ha conferito. Bella e intensa la laudatio tenuta da Giacomo Marramao con Peter visibilmente felice per il riconoscimento. Sloterdijk vive a Karlsruhe, dove è anche nato nel 1943 e dove è stato rettore nella omonima università. Passa alcuni mesi dell’anno in Provenza ed è un uomo a un tempo appartato e socievole. I suoi tratti caratteriali rinviano alla prosa di un personaggio irregolare: affascinante e controverso. Habermas, in anni ormai distanti, lo ha attaccato violentemente: troppo conservatore, anzi un pericoloso reazionario, decretò. L’idea che Sloterdijk riducesse noi poveri mortali a una sorta di parco umano addomesticato e addomesticabile ha fatto saltare la mosca al naso a numerosi accademici e intellettuali. Eppure, se oggi si guardasse al pensiero europeo, difficilmente si potrebbe fare a meno del punto di vista di questo eterodosso della filosofia che è stato un contestatore alla fine degli anni Sessanta e in qualche modo legato alla predicazione indiana nel decennio successivo. Ha pubblicato in questi giorni, per Bollati Boringhieri, una raccolta di saggi Che cosa è successo nel XX secolo?. Già, che cosa è accaduto, in quel Novecento che continua a tormentarci con il suo volto di Medusa? «È stato un secolo segnato dalla passione del reale e al tempo stesso dalla fuga della civiltà occidentale dal dogmatismo della pesantezza», dice. A volte le parole di Sloterdijk ricordano quelle di un venditore di giocattoli (o di sogni), di cui le “Sfere” sono il più ambito e singolare dei doni.
A quando risale il suo interesse per la filosofia?
«Dal tempo del ginnasio, quando avevo tredici anni. All’età di quindici anni, durante l’ora di religione, tenni davanti alla classe una relazione sulla critica alle prove dell’esistenza di Dio. Colsi una certa meraviglia in chi ascoltava e in me la soddisfazione di aver messo a frutto certi insegnamenti. Sono stato per lo più un talento cresciuto al riparo degli eccessi della didattica. E sono tuttora convinto che, se si apprende qualcosa, ciò accade non grazie alla scuola ma a dispetto di essa».
Non ci sono maestri nella sua formazione?
«Nel senso stretto della parola maestri li ho avuti al liceo. Dopo ci sono state solo occasioni, incontri dettati dalla casualità. Mi sentivo troppo indipendente per aderire a una scuola».
C’era più superbia o consapevolezza nei suoi mezzi?
«Forse entrambe, chissà. Quel tempo fu per me segnato da un grande bisogno di teoria. Affrontai e conobbi rapidamente gran parte delle scuole in voga allora: fenomenologia, idealismo tedesco, esistenzialismo, psicoanalisi, marxismo, formalismo russo, strutturalismo e teoria critica. Era il gran bazar culturale dei tardi anni Sessanta. Quell’abbondanza mi riempiva di gioia. Ho conosciuto così la felicità dell’onnivoro che fino a oggi non mi ha mai abbandonato».
A tratti lei ricorda un personaggio uscito dalla mente di Rabelais. Ma è come se non si accontentasse dei cibi di cui si nutre. Vuole cambiarne le ricette.
«A cosa pensa?».
Penso ad esempio al suo lavoro di alta cucina negli intingoli della scuola di Francoforte, da cui pure a un certo punto sembrava un autentico erede.
«Nel momento in cui mi sono dedicato ad attraversare i territodi ri dell’antropologia storica e filosofica, il mio pensiero è andato oltre l’orizzonte di quella vecchia scuola. Dietro la “ Scuola di Francoforte” si nascondeva il neomarxismo e questo ha fatto sì che negli anni sia divenuta sempre più obsoleta. Il marxismo è oggi solo un modo fra gli altri per non comprendere il mondo. Sa indicarmi un solo problema che potrebbe essere chiarito attraverso l’impiego delle categorie di Adorno o Habermas?».
Ha mai conosciuto personalmente Adorno?
«No, non ci siamo mai incontrati e devo confessare che non mi rammarico per questo».
Perché?
«Mi è stata risparmiata una delusione. Preferivo ammirarlo da lontano. Mi piaceva credere di essere al cospetto di una stella di prima grandezza. Alcuni decenni dopo mi sono accorto che si trattava di un’illusione ottica».
Con Habermas il contrasto è stato molto più duro.
«Non per colpa mia e francamente non ho voglia di soffermarmi oltre sulla tensione che ha caratterizzato la mia relazione con lui. Se ne è già detto fin troppo».
Beh, le ha dichiarato guerra su tutta la linea.
«Mi ha bollato come un nemico dal momento in cui — durante un convegno a Baltimora alla fine degli anni Ottanta — ha capito che avevo trattato positivamente l’opera di Nietzsche. Fu un episodio che lo fece infuriare».
Al punto da accusarla di essere un teorico dell’eugenetica.
« Assolutamente ridicola quell’accusa che nasceva dalle mie considerazioni sul “parco umano”. La critica in realtà non era che il sintomo di uno stato d’animo pregresso. Certo, non faccio fatica a riconoscere che la sua “ teoria dell’agire comunicativo” è stata all’epoca una grande trovata, anche se purtroppo noiosa come una tardiva tesi di abilitazione».
Sia Adorno che Habermas hanno criticato la figura di Heidegger. Lei ha cercato di salvarlo. Perché?
«Heidegger è da sempre un autore controverso e continuerà ad esserlo. Non è un mio capriccio privato considerarlo uno dei grandi della storia del pensiero. Oltretutto, è di gran lunga il più commentato tra i filosofi del XX secolo. Il che può perfino essere pericoloso per la salute».
In che senso?
«Richard Rorty disse che era stato colpito della stessa malattia che aveva ucciso Jacques Derrida, un cancro incurabile al pancreas. Poi, sarcasticamente aggiunse che sua figlia aveva ipotizzato che quel tipo di tumore derivasse da un eccesso di letture heideggeriane ».
Ha parlato di una “politica di Heidegger”. Cosa intende?
«Ne ho parlato pensando di aver trovato la ragione della temporanea adesione al nazionalsocialismo nella sua teoria della “ Storia”. Heidegger compie una diagnosi di prim’ordine dell’epoca che sta vivendo. È convinto che gli individui siano finiti fuori da qualsiasi storia dotata di senso. La noia e l’inautenticità sono le componenti che dominano il comportamento dell’individuo. È per uscire da questa situazione emotiva che Heidegger è disposto a pagare il prezzo dell’assoggettamento a un dubbioso movimento ipernazionalista e al suo isterico Führer».
Un prezzo decisamente troppo alto, non trova?
«Per noi che possiamo oggi avvalerci di uno sguardo retrospettivo la faccenda si presenta abbastanza chiara. Heidegger si è perso nella nebbia degli eventi. Ma ciò che soprattutto colpisce è la totale mancanza di gusto di quest’uomo. La vediamo crudamente esibita nei suoi Quaderni neri. Mi pare di poter dire che in alcuni casi la filosofia è un training autogeno dell’eccentricità».
In fondo, tutto il suo lavoro è una degna prosecuzione di questa idea di eccentricità.
«In che senso lo pensa?».
Il capolavoro di Heidegger è certamente “ Essere e Tempo”, su quel solco la sua trilogia “Sfere” si sarebbe potuta intitolare “Essere e Spazio”.
« Mi sembra un’ipotesi interessante, “ Essere e spazio” come una sorta di titolo nascosto della trilogia. Si tratterebbe comunque di una parodia. In effetti, Essere e tempo inizia come se dovesse risolversi in “Essere e spazio”. Heidegger si interroga con incredibile insistenza sul significato della preposizione “in”. Dopotutto, l’uomo è quell’animale che crea e abita uno spazio. E abitare significa sempre costruire “sfere”».
Come le è venuta l’idea di usare l’immagine della sfera?
«Nel 1990 tenni all’Accademia delle arti figurative di Vienna un corso di teoria estetica, rivolto a giovani studenti austriaci del tutto digiuni dell’argomento. Ricordo che per agevolarli avevo fatto ricorso a delle immagini. Soprattutto a quella del cerchio. Oltretutto, in quel periodo ero fresco di lettura del bel libro di Georges Poulet Le Metamorfosi del cerchio. Le mie “ Sfere” potrei anche definirle le “Metamorfosi della palla”!».
La sua filosofia sembra un po’ un palleggio continuo, un gioco di abilità. Pura acrobazia.
«C’è molto di acrobatico e di atletico nella filosofia».
Il significato che lei attribuisce alla sfera è quello immunologico, cioè uno spazio rifugio che abbia una funzione protettiva per l’uomo.
« Si comincia con le sfere più intime — l’utero materno per esempio — per passare alle sfere-mondo delle metafisiche imperiali per finire con le sfere pluralistiche del mondo moderno. Come vede non è un semplice capriccio se la mia opera sulle sfere sia diventata una trilogia».
Ogni volume porta un’indicazione precisa: “ Bolle” il primo; “Globi” il secondo; infine “Schiuma” il terzo. Perché ha sentito la necessità di utilizzare delle immagini ulteriori?
«Si tratta del tentativo di raccontare la storia umana, in particolare quella occidentale, attraverso una serie di crisi che investono il format della sfera. “ Bolle” è un’archeologia dell’intimità; “ Globi” è il passaggio a una intimità che perde il suo carattere individuale: le grandi conquiste europee viste come il tentativo di esportare la nozione di intimo occidentale; infine la “schiuma”, cioè la perdita di quell’intimità cui l’Occidente aveva creduto e realizzato come comfort e lusso, ovunque andiamo ci viene incontro l’estraneo ».
Al centro di tutto questo c’è il concetto di globalizzazione che lei declina, mi pare, in modo diverso rispetto all’uso contemporaneo che ne viene fatto.
«La globalizzazione è un processo, non un semplice risultato. Essa prende avvio dai concetti dell’antica cosmologia filosofica. Ma quando la terra ha rivelato la sua sfericità ha smesso di essere bella ed è diventata interessante. Poi, intorno al diciassettesimo secolo, ha inizio la globalizzazione nautica: conquiste e scoperte oceaniche, trasporto con navi e capitale galleggiante. Quando entriamo nel ventesimo secolo si assiste a due ulteriori globalizzazioni: attraverso i viaggi aerei e la comunicazione elettronica».
Intende dire la conquista dello spazio e Internet?
«Esattamente e scopriamo che in tutte queste fasi si realizza un intreccio costante tra sviluppo tecnico e momento psicologico-antropologico. Lo “spirito libero” è all’inizio un cosmopolita logico, diciamo pure un filosofo dell’antichità; poi un cosmopolita nautico, cioè un viaggiatore che attraversa gli oceani; in seguito un cosmopolita aeronautico che vola nei cieli e infine un cosmopolita elettronico, che usa la Rete per i suoi viaggi. E magari fa sosta in un web-café».
Questa distribuzione di figure, quasi un’antropologia dei caratteri occidentali, in che misura tiene conto del tratto distruttivo che ha sempre caratterizzato il ventesimo secolo?
«Direi che non può prescinderne. Il volto di Medusa del Novecento ha un duplice carattere, frutto di due immani tragedie senza precedenti: le guerre mondiali e i genocidi, sia interni che esterni. Ma quel secolo, come il nuovo, resta confuso poiché i sopravvissuti continuano imperterriti ad andare avanti e vogliono sapere il meno possibile di ciò che è stato».
Lei parla a questo proposito di “ sogno alchemico” come l’avvenimento fondamentale del XX secolo. Sapere sempre meno nel nome del principio dell’opulenza, della ricchezza da conquistare ad ogni costo.
«Può sembrare stravagante che io abbia colto tanta importanza in questo “sogno”. Ma l’alchimia fu inizialmente la scienza che mirava a trovare, o meglio a inventare, la cosiddetta “pietra filosofale”. Con il tempo essa si è trasformata nella pretesa di dominare tecnicamente l’arricchimento, il processo del “diventare ricchi”. Questo sogno originario della modernità è più antico ed energeticamente più potente del cosiddetto capitalismo».
Quel capitalismo fin dalle origini ha oscillato tra i fuochi d’artificio e l’ascesi. Dove lo collocherebbe oggi?
«Si tratterebbe di scegliere tra due eccessi. Ma nella vita pratica gli estremismi non funzionano mai a lungo. Alla fine si impongono le vie di mezzo. O come dicevano i nostri antenati latini: l’aurea mediocritas. Tradotto per noi significa attenzione all’ecosistema, sviluppo di un’etica co-immunitaria e una sincera diffidenza verso tutte le atroci semplificazioni».
Il suo modo di ragionare oltre alla filosofia esplora le possibilità della letteratura.
«Posso dirle che è così».
Ho come l’impressione che nel suo “parco letterario” due figure spicchino: Dostoevskij e Melville. È così?
«Dostoevskij è presente nel mio lavoro come l’autore che, dopo Kierkegaard, ha fuso nel modo più impressionante la filosofia con la prosa letteraria. E Melville è nostro contemporaneo in quanto autore, dopo Dante, del libro sommo, della più grande avventura romanzesca. Egli ha creato la più efficace metafora del modus vivendi moderno: la caccia alla balena. Lo si voglia o no, tutti noi ci troviamo a bordo di una baleniera. E, grazie a Dio, i membri dell’equipaggio non sono tutti così ossessionati come il loro capitano».

Repubblica 10.9.17
Note per cambiare la storia
Il “supergruppo”, i Prophets of Rage
di Luca Valtorta

I Prophets of Rage non sono una semplice band ma un “supergruppo” i cui componenti sono celebri figure del rock e dell’hip hop. Per loro la musica è solo un mezzo per riuscire a portare un messaggio politico a più gente possibile perché “se non ti muovi, non cambierà mai niente”
Suono di sirena. La band sale sul palco e resta in piedi a guardare il pubblico.
Pugno chiuso. Chitarra. Dietro di loro si alternano enormi pannelli disegnati da Obey (uno dei più noti esponenti della street-art). Quella che suona non è una band come le altre: si chiamano Prophets of Rage e hanno un disco in uscita dallo stesso titolo. Tom Morello, quello che li ha messi insieme, è stato il chitarrista dei Rage Against the Machine e poi degli Audioslave in cui cantava Chris Cornell, recentemente scomparso. Ha suonato con Springsteen e collaborato con i Linkin Park. Chuck D, fondatore dei Public Enemy, è una figura chiave del rap, creatore del “conscious hip hop”, il filone più impegnato. B-Real, origini cubano-messicane, è il frontman dei Cypress Hill, icona dell’hip hop “latino”.
Tim Commerford (basso) e Brad Wilk (batteria) sono una delle sezioni ritmiche più potenti della storia, entrambi provengono dai Rage, mentre Dj Lord, ai piatti, è stato dj dei Public Enemy dal 1999. Insieme significano milioni di dischi venduti e una fama planetaria ma anche un’attenzione alle tematiche politiche mai venuta meno. Il pezzo più famoso dei Public Enemy ha un titolo che non lascia dubbi: Fight the Power e il nome Prophets of Rage viene anch’esso da una loro canzone. «Era perfetta perché conteneva “rage”, un riferimento all’altra band». Sono in tour ma non gli interessa parlare di musica: «Noi facciamo politica nel “mosh pit” (la zona sotto il palco dove si balla, il cuore del concerto, ndr) ma musicalmente devi essere all’altezza: il pubblico deve impazzire e perché questo succeda i beat, le chitarre, la parte visiva, tutto quanto deve essere un potente “rock and roll hip hop show” da cui devi andartene sudato e senza voce».
Perché questo “supergruppo”?
Tom Morello: «Durante le scorse elezioni ho visto in tv un programma in cui si diceva che Trump era “rabbia contro la macchina”, ovvero il nome della mia band, Rage Against the Machine. Mi sono arrabbiato moltissimo, ho fatto uno screenshot con quella scritta e ho twittato subito “Questo NON è quello che noi avevamo in mente”. Poi mi sono reso conto che twittare non era sufficiente, bisognava fare qualcosa di più. Così ho chiamato gli altri».
Quali erano i suoi riferimenti politici prima dei Public Enemy?
Chuck D: «Io sono nato nel 1960 e sono stato influenzato dalle lotte di quel periodo storico e dai musicisti che avevano canzoni che parlavano di ciò che succedeva nella società, da Crosby, Stills, Nash & Young a James Brown».
Gli altri parlavano di gang, il vostro slogan era “Fight the Power”.
C.D.: «Noi negli anni Ottanta eravamo curiosi di quello che era successo negli anni Sessanta mentre gli altri guardavano più ai Settanta e c’è una grossa differenza tra le due decadi. Le radici di tutto erano nei Sessanta: il Black Panther Party è nato nel ’66».
Quali sono invece le sue radici?
T.M: «Sono cresciuto a Libertyville, in Illinois, dove ero l’unico ragazzo nero in un piccolo paese tutto di bianchi».
Sua madre è di origini italiane...
T.M: «Sì, il cognome vero è Morelli. Mia madre è italo-irlandese e mio padre, keniano, così la mia esposizione all’ingiustizia e all’intolleranza è personale e di prima mano. La mia famiglia è sempre stata molto politicizzata: mia madre era coinvolta nelle organizzazioni per i diritti civili e mio zio era Jomo Kenyatta, il primo presidente del Kenya che ha guidato il movimento anticolonialista. Ma la cosa fondamentale per me è stata scoprire band come i Clash e i Public Enemy.
Grazie a loro mi sono sentito meno solo e mi sono reso conto che quel piccolo amplificatore che usava Joe Strummer avrebbe potuto essere la mia arma!».
Lei ha mai avuto problemi con la polizia, visto il messaggio che portavate come Public Enemy?
C.D.: «Certo ne ho avuti, ma ben prima dei Public Enemy. Sta parlando di un maschio nero negli Stati Uniti nel mezzo degli anni Ottanta con Ronald Reagan e George Bush che hanno dominato l’intera decade. Era come se a persone come me venisse detto: “Voi non contate niente”. Così dovevi veramente credere in te stesso e ho scoperto che una via verso la libertà era la musica».
Che cosa è stato Black Lives Matter?
T.M.: «Una continuazione del processo di scontento di questi ultimi anni iniziato con Occupy Wall Street e culminato con Trump».
Lei non ha supportato la Clinton, ma neanche Sanders, perché?
T.M.: «Non sono così ingenuo da pensare che tutto si equivalga, ma nessuno dei tre rappresentava la mia voce».
Ma lei cosa vuole?
T.M.: «Un mondo senza persone che muoiono di fame, in cui ogni bambino può ricevere un’educazione e avere una chance, in cui non si rischia di venir uccisi da un drone se sei in Medio Oriente o da un poliziotto se sei in America. Se non continuiamo a sperare in questo in nome del cosiddetto “pragmatismo” non cambieremo nulla».
Lei però ha lavorato per la politica…
T.M.: «Nel 1987 sono stato per due anni segretario del senatore Alan Cranston, uno dei più progressisti, una brava persona, oggi è morto. Ma è stato proprio con quell’esperienza che mi sono reso conto di come il sistema politico degli Stati Uniti non può funzionare. La maggior parte del suo tempo era dedicato alla ricerca dei fondi ed era costretto a continui compromessi».
Qual è la cosa più efficace da fare contro Trump?
T.M.: «Trump non è un politico come gli altri: è un clown. Ed è molto difficile organizzarsi contro un “clown show”. In questo però sta anche la speranza: tutto l’attuale movimento di opposizione infatti è causato proprio da Trump. La sua azione politica reale sarà sempre più palese e anche chi lo ha votato si renderà conto dell’errore. Cambiare le cose dipende da noi. Dipende da te. Dipende da me. Dipende dai lettori di questo articolo. Il messaggio in cui si può riassumere il senso politico della nostra band è questo: “Il mondo non cambierà da solo. Sei tu che devi agire! Ognuno nel suo ambito e con i mezzi che ha”».

Il Sole Domenica 10.9.17
Amenofi II, faraone atletico
La grande mostra al Mudec di Milano narra la storia del monarca e la scoperta della sua tomba, la più importante dopo quella di Tutankhamon
di
di Paolo Matthiae

Il fascino insuperabile della civiltà dell’Egitto faraonico rivive nella bella, sofisticata e documentatissima mostra sulla tomba reale di Amenofi II allestita a Milano al Museo delle Culture con la collaborazione del Gruppo 24 Ore Cultura. Mostra che è anche un evento, in quanto, come spesso non accade più, non solo in essa si possono ammirare capolavori artistici della fase centrale della gloriosa e splendida XVIII Dinastia del Nuovo Regno, ma, ad un tempo, vi si ricostruisce la vita di quella sfarzosa età imperiale e, soprattutto, vi si ritrovano numerose e dettagliate testimonianze della sua scoperta, rimaste a lungo inedite.
La tomba di Amenofi II, KV 35 della Valle dei Re nella Tebe occidentale, è forse la più celebre tomba faraonica tebana dopo la Tomba di Tutankhamon scoperta nel 1922 da Howard Carter, perché ebbe una sorte particolarissima qualche secolo dopo la morte del faraone avvenuta nel 1401. Essa venne, infatti, riutilizzata negli anni attorno al 1000 a.C., come nascondiglio per restituire un sereno riposo in un luogo sicuro alle salme mummificate di una quindicina di alcuni dei più famosi sovrani e di loro stretti congiunti della XVIII, XIX e XX dinastia del Nuovo Regno, il periodo di massimo splendore della civiltà egizia, i cui sepolcri originari erano stati profanati e saccheggiati nei decenni precedenti.
Quando la tomba di Amenofi II fu scoperta, nel marzo del 1898, da Victor Loret, era già avvenuto nel 1881 che in un nascondiglio ricavato nella parete rocciosa della poco distante Deir el-Bahri, erano state ritrovate da Gaston Maspero oltre cinquanta mummie di faraoni delle due maggiori dinastie del Nuovo Regno, tra le quali quelle di sovrani famosissimi, quali Thutmosi III e Ramesse II. Nella tomba di Amenofi II, che al momento della scoperta giaceva ancora nel suo sarcofago come non accadde mai per tutti gli altri re, tranne ovviamente Tutankhamon, per i saccheggi, gli sconvolgimenti e le nuove sepolture in cui incorsero tutti gli altri faraoni del Nuovo Regno, furono recuperate le mummie di altri celebri sovrani. Tra gli altri, Amenofi III, l’autore con Ramesse II della più straordinaria monumentalizzazione dell’architettura faraonica, Hatshepsut, la regina faraone per cui il suo geniale architetto Senenmut eresse lo spettacolare tempio funerario di Deir el-Bahri, e Ramesse III, l’ultimo dei grandi faraoni guerrieri che si vantò di aver respinto, in un epico scontro alla foce del Nilo, l’attacco dei «Popoli del Mare» di cui probabilmente la mitologia greca serbava il ricordo nei ritorni interrotti degli eroi achei reduci da Troia.
Le personalità individuali dei faraoni sono, in generale, di assai disagevole individuazione per la difficoltà di discernere, nella documentazione epigrafica contemporanea delle iscrizioni ufficiali reali e delle iscrizioni delle tombe dei loro funzionari, cortigiani e sacerdoti, tra gli elementi topici della tradizione e quelli specifici dei singoli regnanti. Malgrado queste difficoltà, il caso di Amenofi II è unico forse in tutta la storia egizia, per l’emergere ripetuto di una personalità segnata da una particolare eccellenza nelle attività atletiche, che andavano dal tiro con l’arco all’equitazione, dal remeggio alla corsa. Figlio di un grande faraone conquistatore, Thutmosi III, colui che definitivamente consolidò l’impero asiatico dei faraoni del Nuovo Regno, e secondo erede designato a succedergli sul trono dopo la prematura morte del fratellastro Amenemhat morto in giovane età, fu incitato dall’illustre e impareggiabile genitore a domare destrieri di razza per divenire certo a sua volta un condottiero valoroso, sfidò i suoi stessi cortigiani a misurarsi con lui nella destrezza del maneggio dell’arco, di cui uno splendido esemplare è stato trovato nel suo stesso sepolcro, si distinse come timoniere insuperabile in battelli con decine di vogatori e non aveva rivali nella corsa, primeggiando sempre con un fisico splendidamente sviluppato e ignorando ogni “brama del corpo”, espressione che fa riferimento al rischio cui un giovane principe prestante poteva soggiacere di licenziosità e dissolutezza.
Rispetto alle molte trionfali spedizioni in Siria del padre contro l’impero rivale di Mittani, attaccato fin oltre l’Eufrate, tuttavia, Amenofi II, salito al trono diciottenne, dopo una breve coreggenza, e sul trono rimasto per ventisei anni, condusse solo agli inizi del regno tre campagne militari in Asia, di diversa portata: una spedizione punitiva nella Siria centrale nell’area di Qadesh, che avrebbe visto più tardi le incerte ma celebratissime imprese di Ramesse II, una lunga campagna nella Siria settentrionale probabilmente ancora più a nord dimostrativa della perdurante volontà dell’Egitto di mantenere il controllo dei suoi domini asiatici e una minore azione più a sud nel paese di Canaan, nella Palestina settentrionale, per mantenere il controllo del territorio straniero. Assai meno clamorose delle imprese militari del grande predecessore, le spedizioni asiatiche di Amenofi II, con le non insolite impiccagioni dei ribelli a Tebe e presso Napata, rispettivamente nella capitale e all’estrema periferia dell’estensione nubiana dell’impero, presso la quarta cateratta del Nilo, dovettero avere gli effetti programmati di riaffermazione della potenza militare dell’Egitto, se è veritiera la notizia, contenuta in una stele eretta a Menfi, che i re di Mittani, degli Hittitti e di Babilonia, i “Grandi Re” della successiva corrispondenza diplomatica di Amarna, si affrettarono a riconoscere il domino dei faraoni su un’ampia parte della Siria-Palestina. L’efficacia dell’azione politica e militare di Amenofi II sembra certa, se la seconda parte del regno fu un periodo di pace, che si prolungò per decenni sotto i regni dei successori Thutmosi IV e Amenofi III, fino alle gravi turbolenze nei territori asiatici che afflissero il regno di Amenofi IV/Akhenaton, il grande protagonista dell’eresia monoteista di Amarna.
Nella sterminata produzione della statuaria faraonica, che non ha paragoni nell’antichità per la rappresentazione del potere, di Amenofi II sono conservate un centinaio di statue, che hanno la particolarità, rara, di un contesto di ritrovamento noto per quasi due terzi. La maggioranza di esse appartengono allo stile thutmoside, inaugurato dal fondatore dell’impero d’Asia, Thutmosi I, e diffuso largamente da Thitmosi III, ma una serie di quasi impercettibili varianti in quelle che devono appartenere alla fine del regno del faraone preannunciano un cambiamento nella suggestiva storia del ritratto faraonico. I volti sereni dai caratteri fortemente ideali dei suoi illustri predecessori subiscono una singolare mutazione verso un’espressione dolce e sensibile, che in qualche modo contrasta con la corporatura atletica che gli artisti, per lo più tebani, non mancarono di conferire alle immagini del sovrano conformemente all’esaltazione delle sue doti fisiche descritte nei testi.
Se la mostra milanese, oltre ad esporre una quantità di reperti, provenienti, tra l’altro, dai Musei del Cairo, di Leida, di Vienna, oltre che dalle collezioni storiche italiane, che documentano efficacemente sia la vita del faraone che quella dei suoi cortigiani, cui appartengono tombe della necropoli tebana di particolare valore artistico, ha un significato documentario e scientifico particolarissimo, questo dipende dall’intenso impegno profuso dalla cattedra di Egittologia dell’Università Statale di Milano da parecchi anni nell’acquisire fondamentali archivi di importanti egittologi europei che contengono numerosissimi documenti inediti delle loro ricerche. Così, gli archivi di Alexandre Varille, giunti alla Statale nel 2002, comprendono tutte le note di scavo, mai prima pubblicate, del Loret relative, tra l’altro, alla scoperta della tomba di Amenofi II. L’edizione di questi preziosi giornali di scavo nel 2004 ad opera di Patrizia Piacentini, titolare della cattedra milanese, e di Christian Orsenigo, che sono i brillanti curatori della mostra del Museo delle Culture, è alla base di questa iniziativa espositiva, che ha avuto l’entusiastica adesione del Museo del Cairo e delle massime autorità culturali egiziane.
Una mostra frutto di un’eccellente collaborazione internazionale, corredata da ricostruzioni multimediali convincenti e illustrata da un catalogo esemplare, agile e denso al tempo stesso: semplicemente da non perdere.


Viaggio nella civiltà del Nilo
Dal 13 settembre 2017 al 7 gennaio 2018 il MUDEC-Museo delle Culture di Milano ospita la grande mostra dal titolo Egitto. La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II che narra il racconto della vita e della figura del faraone Amenofi II, vissuto tra il 1427 e il 1401 a.C. durante la XVIII dinastia (1550 – 1295 a.C.), figlio del grande Thutmosi III e sovrano di una corte sfarzosa, eroico protagonista di un’epoca storica straordinariamente ricca.
La mostra è promossa dal Comune di Milano-Cultura e da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE (che ne è anche il produttore) in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano. Sono egittologi della Statale infatti i due curatori, Patrizia Piacentini e Christian Orsenigo, che con il coordinamento dell’egittologa Massimiliana Pozzi Battaglia (SCA-Società Cooperativa Archeologica) hanno ideato un percorso che coniuga approfondimento scientifico ed emozione.
La rassegna espone diversi reperti (statue, stele, armi, oggetti della vita quotidiana, corredi funerari e mummie) provenienti da collezioni private e dalle più importanti collezioni egizie mondiali (Museo Egizio del Cairo, Rijksmuseum van Oudheden di Leida, Kunsthistorisches Museum di Vienna e Museo Archeologico Nazionale di Firenze).
Fondamentale la collaborazione con l’Università Statale di Milano, che presta i documenti originali di scavo della tomba del faraone custoditi nei suoi Archivi di Egittologia, e con la rete dei musei civici milanesi, particolare il Museo del Castello Sforzesco che presta alcuni reperti della collezione egizia in occasione della chiusura temporanea delle proprie sale per ristrutturazione.
Di grande importanza l’apparato multimediale e scenografico presente nelle sale della mostra, con esperienze immersive che evocano le atmosfere dei paesaggi egiziani del II millennio a.C.
La mostra si propone l’intento di raccontare al pubblico una doppia “riscoperta”: quella della figura storica del faraone Amenofi II, spesso ingiustamente oscurata dalla fama del padre Thutmosi III; e la “riscoperta” archeologica del grande ritrovamento nella Valle dei Re della tomba di Amenofi II. Sebbene sia stato un sovrano importante, Amenofi II non è mai stato oggetto di una mostra monografica ed è poco noto al grande pubblico perché i documenti relativi alla scoperta della sua tomba nella Valle dei Re da parte dell’archeologo Victor Loret nel 1898 erano sconosciuti fino a una quindicina di anni fa. Questi documenti originali (di proprietà dell’Università degli Studi di Milano) vengono esposti per la prima volta al pubblico in un contesto “teatrale”: i preziosi materiali sono presentati facendo vivere l’emozione della scoperta al visitatore attraverso una ricostruzione in scala 1:1 della sala a pilastri della tomba di Amenofi II. L’antica civiltà del Nilo all’epoca del II millennio a.C. viene ripercorsa nelle quattro sezioni della mostra.
Prima sezione: i giorni del Faraone
Una stele da una collezione privata – esposta per la prima volta al pubblico – apre la sezione offrendo molti spunti interessanti sulla genealogia di Amenofi II. Una scenografia imponente accompagna il pubblico alla scoperta di alcune statue che raffigurano il faraone e offre un approfondimento sul tema della propaganda reale nel periodo detto Nuovo Regno. La multimedialità permette esperienze “immersive” come la visita del Tempio di Amenofi II sulla piana di Giza all’ombra delle Piramidi e della Sfinge o la partecipazione agli esercizi agonistici del sovrano e alle sue fortunate campagne militari.
Seconda sezione: la vita dell’alta società
Esempi di statuaria e oggetti d’uso (armi, gioielli e suppellettili ) offrono uno spaccato sulla vita quotidiana dell’alta società egiziana della metà del II millennio a.C.
Terza sezione: dalla morte alla vita
Questa sezione risponde ai numerosi quesiti che gli appassionati si pongono sulle credenze funerarie nell’antico Egitto, con un’ampia casistica di sarcofagi e mummie umane e animali del Nuovo Regno e di epoca più recente. La multimedialità permette al pubblico di conoscere meglio le tecniche di mummificazione e di scoprire le informazioni che le mummie possono dare sulla vita degli antichi egiziani.
Quarta sezione: la tomba di Amenofi II
Il cuore della mostra sarà costituito dai documenti che raccontano la storia della scoperta della tomba di Amenofi II da parte di Victor Loret nel 1898.