domenica 17 settembre 2017

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il giornalismo scientifico è un malato incurabile
Informazione | I master di specializzazione esistono in Italia da 25 anni, ma difficilmente chi esce da queste scuole trova posto nelle redazioni. Che sbagliano definendo la malaria un virus, come nel caso di Brescia
di Gianna Milano

«La disinformazione non è innocua ». A dirlo è Marcia Angell, che dal 1988 al 2000 ha diretto una delle riviste di medicina più autorevoli del mondo, il New England Journal of Medicine e che nel suo ultimo saggio Pharma&Co mette a nudo le strategie usate dall’industria dei farmaci per promuovere se stessa più che la salute. In Italia il caso della bimba di quattro anni, Sofia, morta di malaria agli Ospedali Civili di Brescia dimostra quanto fondata sia l’affermazione della Angell, medico oltre che scrittrice. L’informazione sui media italiani è stata in molti casi approssimativa e fuorviante (se non becera). Non solo si sono commessi veri e propri errori, si è parlato di “virus” quando l’agente patogeno della malaria è un parassita che si trasmette con la puntura di zanzare Anopheles, ma si è anche scritto che la piccola è stata colpita probabilmente dallo stesso “virus” che ha infettato i due bimbi di una famiglia del Burkina Faso, quindi provenienti da un Paese a rischio: entrambi ricoverati all’ospedale di Trento dov’era anche Sofia prima di essere trasferita in gravi condizioni a Brescia. Ignoranza, superficialità, demagogia hanno fatto partire sulle prime pagine di alcuni giornali, da L ibero a Il Tempo, la caccia all’u n t ore. Sarebbero gli extracomunitari a riportare la malaria in Italia, non le zanzare.
• Giornalisti a scuola
Certo spiegare la scienza non è un compito semplice. Non ci si può improvvisare, occorre una formazione specialistica. Prova ne sia che negli ultimi vent’anni anni sono nati nel nostro paese diversi master annuali o biennali che preparano i giornalisti a scrivere di argomenti scientifici: a Trieste alla Sissa (varato 25 anni fa), ma anche a Milano, Ferrara, Torino, Roma, Padova. E ai master si aggiungono diversi corsi di comunicazione della scienza all’interno di vari dipartimenti universitari. Si potrebbe dedurre, e a ragione, che giornalisti scientifici “ad hoc” in Italia in grado di evitare nei giornali o alla Tv “errori” come quelli commessi nel caso di Sofia dovrebbero essercene. È di certo così, ma paradossalmente le sezioni dedicate nei giornali a scienza e medicina, che proliferarono negli anni 70-80 (fra le più prestigiose quella del New York Times creata nel 1978) per incentivare il cosiddetto “public understanding of science”, sono state man mano eliminate. Le aveva il Corriere della Sera, continua ad averle La Stampa, non ci sono più su Panorama e L’Espresso. In anni recenti infatti si è deciso di dire addio alle “science section” che contenevano notizie sia di scienza sia di medicina, e di distribuire le “science news” nella cronaca, legandole all’attualità. Come fanno da tempo diversi quotidiani da La Repubblica al Secolo XIX, dal Corriere della Sera a Il Fatto Quotidiano. «Nelle testate tradizionali, tutte in crisi e con un personale ridotto all’osso, i giornalisti scientifici assunti si contano sulle dita» spiega Nico Pitrelli, co-direttore alla Sissa del master di comunicazione della scienza Franco Prattico. «Il paradosso - tanti giornalisti specializzati e niente più sezioni scientifiche - è solo apparente. I nostri allievi in nove casi su dieci trovano lavoro, ma non come giornalisti giornalismo non lavorano nelle redazioni ma per lo più come freelance e collaborano soprattutto con testate specializzate come Wired, Le Scienze, Mente&Cervello, Oggi Scienza, Scienza in Rete o a Radio3 Scienza. Gli altri – e sono il 70 per cento - trovano impiego nella comunicazione istituzionale della scienza, nell’editoria scolastica, nell’organizzazione di eventi, nella progettazione multimediale, nei musei della scienza». Si direbbe che la copertura dei mezzi di comunicazione per la scienza da attenta e solerte, quale era stata a partire dagli anni Settanta-Ottanta quando nacquero tutte le iniziative editoriali per favorire l’alfabetismo scientifico, sembra subire le conseguenze della crisi economica.
• Paure e false speranze
Giocare sull’emotività o sull’effetto, alimentare false speranze o paure irrazionali, fare dell’informazione scientifica spettacolo, sono alcuni dei “vizi” dei media individuati da Rae Goodell Simpson, del Massachusetts Institute of Technology (MIT). A suo parere, dovrebbe esistere una responsabilità speciale dei mass media nella comunicazione scientifica. «L’etica della responsabilità dovrebbe applicarsi all’universo intero delle notizie, ma la medicina ha “qualcosa di più”, ha una dimensione più importante perché attiene all’individuo: paura, aspettative e sofferenza non sono costruzioni sociali». La bioetica del quotidiano, per usare le parole di Giovanni Berlinguer, riguarda anche il modo con cui si danno le notizie: strumentalizzare la retorica della speranza o della paura per vendere più copie o accaparrarsi favori/voti, o quote di mercato, non è eticamente corretto. È vero anche, come ha sostenuto la sociologa americana Dorothy Nelkin, che una notizia può diventare degna di attenzione da parte dei media a seconda del contesto politico. Ed è indubbio che nel caso della piccola Sofia la tragedia sia stata strumentalizzata politicamente.
• Cercasi watchdog
Una informazione corretta, che apra le porte della conoscenza e fornisca gli strumenti per compiere delle scelte e capire, dovrebbe essere un obbligo morale. I giornalisti fanno un buon lavoro? Ray Moynihan, ricercatore australiano che scrive di medicina sul British Medical Journal, nel lontano 2000 ha analizzato quanto spesso nelle storie riportate da giornali e Tv si facesse accenno a costi, rischi e benefici o un eventuale conflitto di interessi. Quattro anni dopo, nel 2004, nacque l’Australian Media Doctor Web, un progetto di monitoraggio di come vengono date le notizie di medicina. Iniziative che, a loro volta, hanno ispirato l’HealthNewsReview.org che dall’aprile 2006 valuta in tempo reale le storie che escono su giornali, agenzie di stampa, e i maggiori settimanali americani (Time, Newsweek, U.S.News&World Report). I risultati? Poco confortanti. Il sensazionalismo ruota spesso attorno alle notizie di medicina: se i giornalisti riescono a catturare l’attenzione del pubblico, gli scienziati vedono nell’attenzione dei media un trampolino per le loro carriere. E gli interessi delle due professioni sembrano compenetrarsi in modo poco “salutare”. Secondo Dorithy Nelkin: «I giornalisti che scrivono di medicina dovrebbero svolgere un ruolo critico di “watchdog”, di cani da guardia. La semplificazione e lo stile aneddotico dei media mal si addicono all’incertezza e alla complessità che fanno parte del procedere scientifico». Fare del buon giornalismo scientifico non significa riportare, possibilmente senza errori, ciò che le fonti riferiscono, ma fornire un’informazione critica, capace di dare al lettore anche gli strumenti per comprendere e a farsi un’idea propria. Un concetto ben formulato dal Premio Pulitzer americano Jack Fuller: «Il giornalismo deve affrontare il mondo della scienza con lo stesso scetticismo consapevole che si riserva a un uomo politico».