mercoledì 27 settembre 2017

La Stampa TuttoScienze 27.9.17
“Inizia l’avventura più grande. La caccia alla vita aliena”
Michel Mayor è il pioniere della ricerca dei pianeti al di fuori del sistema solare “Nuove missioni sono in preparazione: il momento della scoperta si avvicina”
intervista di Attilio Ferrari

Michel Mayor, professore emerito all’Università di Ginevra, da oltre 20 anni studia i pianeti extrasolari, gli esopianeti, il primo dei quali, 51 Peg b, ha scoperto nel 1995. È ancora nel pieno dell’attività. Il suo telefono squilla continuamente, ma lui è disponibile a raccontare gli ultimi risultati della sua ricerca.
Come si è aperta la strada verso lo studio della vita extraterrestre?
«L’astronomia è un vaso di Pandora. Quando un nuovo metodo di osservazione viene sviluppato, il cielo si apre su nuovi orizzonti. È quanto è accaduto a me. Fin da ragazzo ero appassionato di astronomia, e di tutte le scienze, fisica, geologia, oceanografia. M’iscrissi alla facoltà di fisica teorica a Losanna. Al momento di scegliere un programma per il dottorato mi rivolsi all’astronomia, in particolare alla struttura a spirale della nostra Galassia. Dimostrai che era necessario raccogliere più dati sulle velocità radiali, delle stelle nelle vicinanze del Sole. Completata la tesi, ottenni la possibilità di lavorare al progetto di uno spettrografo capace di effettuare misure spettrali Doppler di alta precisione delle velocità stellari».
Che cosa studiò?
«Lo strumento “Coravel” mi permise di pubblicare uno studio sulla cinematica dei sistemi delle stelle doppie vicine al Sole. Le misure rivelarono anche l’esistenza di sistemi con stelle di massa circa 10 volte quella di Giove, le “nane brune”: era ovvio pensare di estendere la ricerca a compagni con una massa ancora minore, i pianeti giganti. All’inizio degli Anni 90, così, in collaborazione con l’Osservatorio dell’Alta Provenza concepimmo un nuovo strumento chiamato “Elodie”, la cui precisione era migliorata di un fattore 20: si potevano misurare velocità stellari di alcuni metri al secondo. Fu lo strumento per aprire il vaso di Pandora degli esopianeti».
Quando si rese conto di aver fatto un’eccezionale scoperta?
«Nel 1994 con l’aiuto del mio dottorando Didier Queloz iniziammo ad osservare 140 stelle simili al Sole per rivelare nane brune e pianeti giganti. Nell’autunno notammo che la stella 51 Pegasi mostrava oscillazioni periodiche delle righe spettrali interpretabili come causate dal moto orbitale di un pianeta di massa simile a Giove. La sorpresa era, però, il periodo orbitale, poco più di 4 giorni, corrispondente ad un’orbita vicina alla stella, ben più vicina di Mercurio al Sole: era una configurazione inattesa, secondo le teorie dei sistemi planetari correnti. Era quella l’interpretazione giusta? Oppure si trattava di un fenomeno di pulsazione stellare? Impiegammo un anno a ripetere le osservazioni per escludere le altre ipotesi e il 6 ottobre 1995 pubblicammo l’osservazione del primo esopianeta intorno ad una stella simile al Sole».
E dopo che cosa successe?
«Già il 12 ottobre Geoffrey Marcy e Paul Butler dalla California confermarono la scoperta, ripetendo la misura. Nei mesi che seguirono furono misurati i moti orbitali di altri esopianeti. La dimostrazione finale che molte stelle posseggono pianeti orbitanti, poi, è stata data dal satellite “Corot”, osservando per la prima volta nel 2007 la variazione dell’intensità luminosa emanata da una stella al passaggio di un pianeta davanti a essa».
Oggi gli esopianeti scoperti sono oltre 3 mila. Che cosa abbiamo imparato?
«L’attuale precisione degli spettrografi “Harps” all’Eso - lo European Southern Observatory di La Silla in Cile - e “Harps-N” al Tng - il Telescopio Nazionale Galileo, nell’isola di San Miguel de la Palma - ha permesso di trovare pianeti che si avvicinano alla massa della Terra: le “superterre” sono moltissime. Alcune di queste, come tre dei sette esopianeti intorno alla stella Trappist-1, sono nella “zona di abitabilità”, laddove esistono le condizioni per l’esistenza di acqua allo stato liquido e quindi di forme di vita compatibili con la nostra. Un secondo passo importante viene dall’osservazione di “transiti planetari” con le missioni “Corot” e “Kepler”».
Di che cosa si tratta?
«Insieme con la conoscenza della massa che si deriva dal metodo spettroscopico ci permettono di determinare il diametro dei pianeti, la loro densità media e quindi di indagarne la struttura interna. Inoltre i transiti consentono di “vedere” le atmosfere dei pianeti, misurarne la temperatura e la composizione chimica: vi abbiamo già trovato l’acqua. Il terzo punto fondamentale è che le orbite e le masse degli esopianeti mostrano un’impressionante diversità dei sistemi planetari: questa ci sfida a comprenderne i meccanismi di formazione e quindi la nascita del nostro sistema solare».
La vita è presente ovunque nell’Universo? Quando potremo avere una risposta a questa appassionante domanda?
«Questa domanda resta una delle “grandi questioni” della scienza. Non è di pertinenza esclusiva dell’astronomia, perché riguarda altresì la biologia e la filosofia: la vita è comune nell’Universo oppure il nostro è un fenomeno unico? Le ricerche di astrobiologia mirano a comprendere lo sviluppo della vita e a rilevarla fuori dal sistema solare, combinando le competenze di scienziati dai diversi orizzonti: biologi, astronomi, fisici, geologi, chimici. È certamente uno dei campi di ricerca più affascinanti per giovani che vogliano intraprendere una carriera scientifica».
Quali sono i progetti di ricerca della vita?
«Il contrasto fantastico fra la luminosità delle stelle e quella dei pianeti (un miliardo all’incirca il contrasto fra il Sole e Giove), insieme con la loro piccola distanza angolare, non permette facilmente di produrre un’immagine di un esopianeta. Molti scienziati, tanto nei laboratori quanto nell’industria, stanno sviluppando le tecnologie necessarie per raggiungere questo obiettivo e per misurare la chimica dettagliata delle loro atmosfere, così da scoprirvi tracce di marcatori biologici. Vi sono inoltre progetti per missioni spaziali intese a cercare la vita in situ nel nostro sistema solare, su Marte o sui satellite di Giove e Saturno con abbondanza di acqua. Sono convinto che presto troveremo segni di vita altrove».
Che funzione potranno avere la robotica e l’Intelligenza Artificiale nei progetti spaziali di ricerca della vita?
«Le missioni robotiche sono il metodo più adatto per esplorare e cercare la vita negli ambienti più alieni del sistema solare. E con lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale potremo avere sistemi che sostituiscono quasi completamente l’uomo. Ma mai completamente. Chi lavora nella ricerca non subirà mai la competizione da parte dell’Intelligenza Artificiale. Anzi. Poiché i robot lavoreranno per noi e ci lasceranno sempre più tempo libero, dovremo pensare ad approfondire le nostre conoscenze di matematica, fisica e biologia per indagare nuove domande».