La Stampa
Teenager, la tecnologia batte l’amore
I ragazzi iperconnessi della i-Generation preferiscono le relazioni on line agli appuntamenti dal vivo
intervista di Vittorio Sabadin
I
ragazzi della i-Generation, quelli nati dopo il 1995, sono meno
interessati alle storie d’amore di quelli della generazione precedente.
Passano più tempo a socializzare online che di persona, escono meno
volentieri di casa, non si danno quasi più appuntamento e stanno
sviluppando patologie che dovrebbero essere portate maggiormente
all’attenzione dei loro genitori e degli insegnanti. L’ultimo libro di
Jean Twenge, docente di psicologia all’Università di San Diego, in
California, ha dato vita a un acceso dibattito negli Stati Uniti e in
Gran Bretagna: alcuni l’accusano di essere troppo allarmista e di
gridare inutilmente al lupo; altri pensano invece che abbia ragione,
perché alla prima generazione di esseri umani nata e cresciuta con
l’iPhone sta accadendo qualcosa di strano, del quale dovremmo
preoccuparci.
Jean Twenge è autrice di 130 pubblicazioni
scientifiche e di 6 libri. L’ultimo ha un titolo di una lunghezza
spropositata, che descrive però bene la situazione: «iGen: perché i
ragazzi superconnessi di oggi crescono meno ribelli, più tolleranti,
meno felici – e completamente impreparati all’età adulta – e che cosa
questo significa per noi». La psicologa americana ha esaminato i dati
raccolti tra 11 milioni di ragazzi, scoprendo che la i-Generation si è
costruita un mondo a parte, del quale è prigioniera. Chi ha 14 o 15 anni
esce meno di un tredicenne del 2009 e se l’85 per cento della
generazione dei baby boomer si dava appuntamenti con l’altro sesso, oggi
questa percentuale è scesa al 56 per cento nella fascia d’età tra i 14 e
i 18 anni.
Sesso? No grazie
I rapporti sessuali sembrano
interessare meno, e la prima esperienza avviene in media a 17 anni, un
anno dopo rispetto alla generazione X, quella nata tra il 1960 e il
1980. «I teenager – dice Jean Twenge – passano una enorme quantità di
tempo sullo smartphone e comunicano in modo elettronico. Questo
significa che hanno meno tempo per comunicare direttamente, uscendo con
gli amici». Ma anche quando escono in gruppo, non è detto che i ragazzi
parlino fra di loro: spesso ognuno preferisce continuare a smanettare e a
comunicare con qualcun altro nel modo che ormai è il più facile e
familiare.
Abbiamo sempre avuto la certezza di dominare le
tecnologie che inventiamo e non pensiamo che le tecnologie possano
dominare noi, modificando il nostro modo di essere e di pensare: ma è
proprio quello che sta avvenendo, secondo la professoressa Twenge. I
ragazzi che passano più di tre ore al giorno sullo smartphone hanno,
secondo la sua indagine, una maggiore predisposizione a fattori di
rischio legati al suicidio o al pensiero di suicidarsi. Gli omicidi
commessi da adolescenti sono drasticamente diminuiti, mentre è aumentato
il numero dei giovani che si tolgono la vita. La i-Generation cresce
più lentamente, è molto insicura e ha un’idea indefinita del lavoro, del
sesso, del matrimonio e della procreazione.
Vita e schermo
Anne
Longfield, che ha il ruolo di Commissaria per i bambini per
l’Inghilterra, ha recentemente rivolto un appello ai genitori perché
limitino ai figli l’uso di internet e dello smartphone, «come farebbero –
ha detto – per ridurre il loro consumo di cibo spazzatura». Mesi fa un
gruppo di 40 pedagogisti e scienziati ha inviato una lettera aperta al
«Guardian» di Londra chiedendo un’azione immediata per rimediare al
fatto che la vita degli adolescenti «è sempre più legata ad uno
schermo». Nel pubblicare un estratto del libro di Twenge, la rivista
americana The Atlantic l’ha titolato: «Gli smartphone hanno distrutto
una generazione?».
Secondo molti esperti si tratta di allarmismi
ingiustificati, dettati solo dalla paura di non poter governare i
cambiamenti in atto: i vantaggi dei nuovi sistemi di comunicazione sono
evidenti di per sé e bisognerebbe prestare più attenzione non a quanto
tempo i ragazzi passano online, ma a che cosa guardano su internet.
Rimane
il fatto che molti scienziati di altissimo livello, come l’astrofisico
Stephen Hawking, continuano ad ammonirci di non considerare tutta la
tecnologia amica dell’uomo, perché potremmo accorgerci troppo tardi dei
danni che sta producendo. Forse la società del futuro sarà fatta da
persone che non hanno più bisogno di incontrarsi e comunicheranno senza
mai dovere usare la voce. Jean Twenge spera che non accada: «Mentre
questi giovani crescono verso l’età adulta – ha detto – abbiamo bisogno
di capirli. Gli amici e i genitori devono occuparsene, le scuole e le
università devono sapere come educarli e guidarli. Perché dove andrà la
i-Generation, lì andrà anche il mondo».