La Stampa 8.9.17
Google e Facebook ci trivellano l’anima
Catturano
la nostra attenzione per estrarre fatti, aspirazioni e ansie di cui noi
stessi ignoriamo l’esistenza Oggi il vero lusso è essere disconnessi
di Evgeny Morozov
Negli
Anni 90, prima che fossero emersi i monopoli di piattaforme come Google
e Facebook, la paura del digital divide era un argomento di spicco in
molti programmi sociali. In quei primi anni, Internet era il parco
giochi degli operatori Telecom, con pochi pionieri come America Online
che conducevano esperimenti, poco riusciti, con i business model che si
sarebbero raffinati soltanto una generazione più tardi.
All’epoca,
la moneta dell’economia digitale era il tempo: Internet era misurato
soprattutto in mesi, o almeno così erano calcolate le bollette che
pagavamo ai nostri provider. Gli inserzionisti, per la maggior parte,
mantenevano le loro distanze da Internet, ritenendola troppo rischiosa e
strana. Senza di loro, l’economia digitale era rudimentale: pagavamo la
bolletta mensile per la connettività, ma le aziende tecnologiche che ci
vendevano il servizio non avevano nessun interesse a sapere cosa
facevamo mentre eravamo online, nello stesso modo in cui alle compagnie
di autonoleggio non importa dove andiamo con le macchine che ci
affittano.
Una volta che l’infrastruttura è migliorata e la banda
larga è divenuta la norma, è emerso un paradosso: potevamo navigare
quanto volevamo ma, allo stesso tempo, non c’era nessun posto dove
andare. L’Internet di quel periodo assomigliava al Far West e,
soprattutto per i novizi, trovare qualcosa di utile e interessante era
una sfida.
C’è voluto l’arrivo di Google e Facebook, prima per
organizzare il caos della rete, poi per riempirla di aggiornamenti
altamente personalizzati forniti dai nostri amici e colleghi. Queste due
aziende hanno convinto gli inserzionisti che i servizi online non erano
affatto un fenomeno transitorio, ma che invece costituivano un nuovo
modo per prendere di mira i consumatori.
Con l’arrivo degli
inserzionisti, anche la moneta dell’economia digitale è cambiata: non
era più il tempo o il numero di megabyte ad alimentare la sua crescita,
ma i nostri dati personali. Attraverso la raccolta e l’analisi di questi
dati, il targeting del consumatore poteva essere migliorato, producendo
ricavi superiori per ogni clic su ogni piattaforma.
Sempre più dati
La
natura altamente competitiva del gioco spingeva sia Google sia Facebook
a raccogliere sempre più dati dagli utenti. Più avanti, entrambi
avrebbero scoperto un altro modo molto redditizio per utilizzarli e nel
contempo diversificare il business: la messa a punto di sistemi
d’intelligenza artificiale progettati da loro stessi. Allora, però,
queste aziende erano impegnate a realizzare sistemi studiati per
impedirci di passare troppo tempo fuori dai confini dei loro regni
digitali.
Tutto ciò richiedeva sia la progettazione di servizi che
creassero una forte dipendenza, vale a dire che ci fanno scorrere e
cliccare ossessivamente, sia lo spostamento dei confini dei regni
digitali fino a fargli comprendere ogni aspetto della nostra vita
quotidiana. Google, che all’inizio era un semplice motore di ricerca,
oggi, attraverso la sua azienda madre Alphabet, è presente nelle nostre
case, nelle nostre automobili, e presto sarà anche nelle nostre pance.
Sì, perché le ricerche dell’azienda si estendono al settore benessere e
anti-invecchiamento, con prodotti che potremo inghiottire come pillole
per produrre dati «azionabili» riguardanti potenziali malattie.
In
un certo senso, questo cambio di valuta, non più basata sul tempo ma
sui dati, ha prodotto alcune conseguenze piuttosto interessanti, anche
se talvolta perverse. Ad esempio, la raccolta illimitata di dati
alimentati dal settore pubblicitario ha portato all’accesso gratuito di
molti servizi digitali, creando l’illusione che esista uno stato di
welfare digitale parallelo controllato dalle piattaforme digitali.
Uno
studio condotto recentemente dal Mit, nel quale veniva chiesto alle
persone quanto denaro avrebbero voluto per rinunciare all’uso di queste
piattaforme, ha prodotto alcuni risultati interessanti: per i motori di
ricerca richiedevano 16.600 dollari; per le carte geografiche 2800; per i
video 900. È come se gli inserzionisti dessero a ciascuno di noi un
sussidio annuale di 20.000 dollari. Ma in cambio di che cosa,
esattamente?
La risposta convenzionale è che il sussidio è un
compenso per i nostri dati. Ma se la mettiamo in questo modo, partiamo
dal presupposto che i dati sono una cosa che esiste già, un bene che può
essere dato in cambio di un servizio immediato, come una ricerca o una
geo-localizzazione. Ma davvero i nostri dati esistono in questa forma
già pronta all’uso?
Un’altra risposta comune presuppone che i dati
possano essere trattati alla stregua di una risorsa naturale, e che
quindi queste aziende li stiano semplicemente estraendo, come le aziende
petrolifere estraggono il petrolio. Quest’ultima risposta si avvicina
di più a quello che sta accadendo, anche se i suoi sostenitori sono
spesso poco chiari quando si tratta di spiegare esattamente come avviene
questa estrazione. E il quadro non è affatto bello.
La realtà è
che attraverso gli algoritmi, i filtri e tutti i trucchi del design le
grandi piattaforme trivellano la nostra psiche per estrarre fatti,
connessioni, aspirazioni e ansie di cui forse noi stessi ignoriamo
l’esistenza. Ma per farceli rivelare, la nostra attenzione dev’essere
catturata e diretta verso un’altra attività coinvolgente offerta dalla
piattaforma: clicchiamo «mi piace», scriviamo tweet, scorriamo post.
Così
le sensazioni di affaticamento, distrazione e stanchezza che molti di
noi proviamo dopo aver passato un’ora a scorrere informazioni sullo
smartphone non sono affatto frutto della nostra immaginazione: durante
quell’ora, il nostro corpo - e la nostra mente - sono stati sfruttati
come piattaforme di trivellazione per estrarre i dati più intimi
nascosti nella profondità della nostra coscienza. Possiamo paragonare
l’esperienza a una forma rapace e predatrice di psicoanalisi condotta da
una grande azienda su scala industriale, senza che noi, i pazienti, lo
sappiamo o lo vogliamo.
Utili prede
Questo processo di
estrazione continuerà fino a quando la pubblicità sarà al cuore
dell’economia digitale. Ma anche se la sua presa sull’economia digitale
si allentasse, noi saremmo sempre utili prede delle piattaforme
digitali: finché possiamo addestrare i loro sistemi di intelligenza
artificiale con la nostra tacita conoscenza, loro saranno felici di
continuare a trivellare.
Fortunatamente, la prevalenza dei dati
sul tempo come moneta preferita dell’economia digitale non è assoluta.
Si può ancora trovare un modo di accedere alla rete senza passare
attraverso i tunnel gestiti da Google o Facebook. Ma per quanto tempo
ancora li si potranno scavalcare? In ogni modo, questo è sempre meno
possibile per gli utenti dei paesi in via di sviluppo, dove Facebook e i
suoi simili offrono l’accesso apparentemente gratis a Internet, a patto
che questi limitino la maggior parte della loro attività online all’uso
di Facebook, dove devono consumare tutte le notizie e informazioni di
terzi, rimanendo sempre sul sito del social, senza uscirne.
Il nuovo «digital divide»
Questo
mette in evidenza una spaccatura di classe molto importante
nell’economia digitale: i poveri hanno poca scelta, e devono continuare a
lasciar sfruttare i loro corpi e le loro menti quali siti di
trivellazione per l’estrazione dei dati, mentre i ricchi possono fare a
meno dell’intero sistema. Possono rifiutare Facebook, possono
sperimentare gli smartphone fatti su misura con accorgimenti che
assicurano la tutela della privacy, possono assumere un curatore
personale di informazioni che fa le ricerche al loro posto, twitta al
loro posto, elimina le fake news disseminate da altri sui social, e così
via. Per non parlare delle centinaia di applicazioni per il
potenziamento della consapevolezza - per molte delle quali si deve
pagare una sottoscrizione settimanale - che i ricchi possono installare
per riconquistare il proprio atteggiamento zen nei confronti della vita,
soprattutto se il loro lavoro non richiede che si tuffino nell’oceano
di distrazione di Facebook o Twitter.
Uno dei principali paradossi
dell’economia digitale, quindi, è che l’attuale digital divide appare
molto diverso da quello dei primi Anni 90: allora erano i ricchi che
perseguivano la connettività e i poveri che ne erano esclusi. Oggi il
problema è il contrario: i poveri sono iperconnessi, al punto di subire
l’erosione della concentrazione e l’accrescimento della dipendenza da
scrolling, mentre i ricchi possono permettersi di girare alla larga dal
caotico ambiente digitale, lasciando ai loro assistenti il compito di
girovagare nei suoi terreni disseminati di distrazioni e pericoli
d’assuefazione.
La non-connettività è diventata un lusso, mentre
la connettività - almeno nei termini dettati dall’economia digitale che
si alimenta di pubblicità e intelligenza artificiale - è un fardello che
nessun individuo autonomo e sano di mente, di sua spontanea volontà,
vorrebbe portare.