La Stampa 8.9.17
Gli internati militari italiani dimenticati dell’8 settembre
In seicentocinquantamila decisero di non collaborare con i tedeschi e finirono ai lavori forzati nei lager
di Andrea Parodi
Raccontare
poco non era giusto, a raccontare il vero non si era creduti, allora ho
evitato di raccontare. Sono stato prigioniero e bon, dicevo». Così un
Internato Militare Italiano a chiusura delle sue memorie, quasi
scusandosi. Poche, rassegnate parole che riassumono un disagio diffuso
tra gli oltre 650 mila militari italiani che quell’8 settembre 1943
scelsero volontariamente di non continuare a combattere a fianco dei
nazisti.
L’annuncio di Badoglio («Ogni atto di ostilità contro le
forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni
luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra
provenienza») lascia nel caos un esercito che contava due milioni di
uomini. Delusi, impreparati e peggio equipaggiati. Esausti di combattere
dopo le gravi sconfitte in Africa e in Russia, con la certezza di una
vittoria che non sarebbe mai arrivata. Nelle ore immediatamente
successive all’Armistizio il Regio Esercito si sfalda. Inizia la
Resistenza. Per i soldati italiani catturati dai tedeschi inizia
un’esperienza terribile: quella del lager. I nazisti non offrono terze
scelte: «o con noi, o contro di noi». L’alternativa a prendere un fucile
e cominciare a sparare ad angloamericani e italiani badogliani era solo
quella di essere internati nei lager di Germania e Polonia. Nemmeno
come prigioniero di guerra, status riconosciuto internazionalmente, ma
come Internato Militare Italiano, o Imi. Definizione coniata da Adolf
Hitler in persona.
È stata questa degli Imi la forma di Resistenza
più numerosa. Può sembrare paradossale, proprio perché non se ne parla
mai. Il rifiuto a collaborare con il nuovo nemico nazista, preferendo
l’Italia di Badoglio e di Brindisi a quella di Mussolini e di Salò, è un
fenomeno vastissimo.
Molti italiani possono vantare un nonno, uno
zio o comunque un parente che è stato Internato Militare Italiano.
Semplicemente lo ignora. Il paradosso si riassume nella citazione delle
memorie dell’Imi: tornati dalla guerra non hanno voluto raccontare.
Hanno preferito integrarsi in silenzio nella società. Parlando della
loro esperienza bellica, anche con dovizie di particolari, per tutto ciò
che riguarda gli eventi prima dell’8 settembre e liquidando con poche e
sofferte parole i due anni «prigioniero in Germania». Meglio
dimenticare al più presto. Assolutamente difficile che abbiano
utilizzato le parole giuste: «campo di concentramento». Non si usava.
Gli
Imi erano impiegati come schiavi (nelle aziende agricole come
contadini, nelle fabbriche e nelle miniere come operai). La notte
tornavano in luoghi di terrore e di morte, contrassegnati con un numero.
Senza assistenza sanitaria, senza tutele, senza dignità umana. I
nazisti, per costringerli alla resa, li facevano gelare nell’inverno
tedesco e gli diminuivano il cibo. Si soffriva la fame più nera. La
memorialistica parla spesso di bucce di patate marce trovate tra la
spazzatura. Significative le parole del poeta Tonino Guerra: «Nella vita
sono stato felice soprattutto quando mi hanno liberato: per la prima
volta ho ammirato il volo di una farfalla senza il desiderio di
mangiarla». Gli effetti della fame si trovano anche nelle pagine del
Diario di Giovannino Guareschi, animatore della vita culturale nei lager
insieme, tra gli altri, a Gianrico Tedeschi: «Quando mi faccio la barba
da sotto la pelle vedo il mio scheletro. Non pensavo che anche le ossa
potessero dimagrire». Il risultato fu che in circa 50 mila morirono di
stenti, per le malattie, per le sevizie dei nazisti, per i bombardamenti
alleati.
Il silenzio di questi protagonisti de «l’altra
Resistenza» (come l’omonimo libro di Alessandro Natta, pubblicato da
Einaudi solamente nel 1997) si è interrotto intorno alla metà degli Anni
80, con l’età della pensione degli Imi. Una grande occasione perduta
per molti familiari, che ancora oggi non comprendono. Gli storici hanno
avuto grandi responsabilità. In Italia nel dopoguerra ci si è
concentrati sulla memorialistica partigiana, che ha di fatto
monopolizzato l’eredità della lotta di Liberazione. Non è un caso che il
primo storico a occuparsi con grande attenzione al tema degli Imi sia
stato proprio un tedesco nel 1990: Gerhard Schreiber, scomparso poche
settimane fa. Che coniò una definizione in tre parole: «Traditi,
disprezzati, dimenticati».