Corriere 8.9.17
Fortini, in nome del futuro
Incapace di mediazioni, affine e lontanissimo da Pasolini: la sua lezione vale ancora
Tornano passioni e indignazioni di un «seminatore di scandali e di scismi»
di Paolo Di Stefano
«Che
sant’uomo, ma che tormento!». Fu la sua amica Grazia Cherchi a
trasferire su Franco Fortini la frase che don Abbondio rivolse al
Cardinale. Un sant’uomo fin troppo inquieto. Fortini diede ragione
all’amica, al punto che ricordando la sua presenza nel comitato della
rivista «Officina», formato da Pasolini, Roversi, Leonetti, Scalia,
Romanò e altri, ammise con (insolita) autoironia: «Quanto a me, ero un
seminatore di scandali e di scismi, su questo non c’è dubbio; e credo
veramente che la pazienza di quegli amici io la portassi al limite». È
così, naturalmente, Fortini ha portato al limite la pazienza della
cultura italiana, perché non era mai contento di nulla, tantomeno del
presente che viveva. Come ha scritto Giovanni Raboni, fino all’ultimo
giorno della sua vita Fortini si è rifiutato di smettere di sognare,
ovvero di seguire il consiglio pressante che ci viene dal nostro tempo:
finirla, una buona volta, di sognare. Consiglio, peraltro, su cui gran
parte della cultura (non solo politica e non solo italiana) si è
ampiamente allineata molto più di quanto lo stesso Fortini potesse
temere o immaginare.
Per questo il poeta (grandissimo), critico,
saggista è oggi più che mai fortemente «inattuale», parlava del presente
«in nome del futuro» (sempre Raboni): con l’atteggiamento mentale
dell’educatore che ha e vuole trasmettere l’ossessione di distinguere
(il bene dal male). Comunque sempre scomodo, eretico, non ortodosso come
marxista, non istituzionale come letterato, anticonfessionale come
intellettuale sensibile al pensiero religioso. Già in vita Fortini è
stato descritto non solo dai suoi numerosi avversari come una specie di
Savonarola, un predicatore perennemente con il dito puntato. Pasolini lo
accusò di essere «malfidato» nell’accezione romanesca, non nel senso di
malfido ma di malfidente. «È piuttosto vero», disse Fortini, che era
orgoglioso della «fredda ira» (Berardinelli dixit) che traspariva
persino dalla sua poesia: fermo restando che tra poesia e ideologia o
critica della società e del mondo per lui non c’era alcuna soluzione di
continuità. «La mia grinta mortuaria, di ghiaccio-represso», per usare
parole sue, si indirizzava ovunque sentisse profumo di conformismo, di
opportunismo da chierici, di specialismo asettico da «logotecnocrati»
(per usare il sarcasmo del suo amico Cesare Cases).
Polemizzò con
tutti, Fortini, anche e soprattutto con gli amici. E anche questo
massimalismo infaticabilmente dialettico lo rende prezioso in un tempo
in cui la polemica non c’è o si riduce a insulto sterile: basta leggere
la sua Verifica dei poteri , un libro del 1965 riproposto adesso dal
Saggiatore con prefazione di Alberto Rollo. Dove si parla di padri e di
figli (tensione tra passato e futuro, appunto): anche di padri
ingombranti, come osserva Rollo, a cominciare da Lukács, per continuare
con Auerbach, Spitzer, Goldmann… Leggendo Pasternak, Proust, Kafka,
Mann, Brecht, Fortini «verifica» la distanza dalla grandezza e cioè
dalla verità, che è il (sottinteso) obiettivo utopico verso cui non si
stanca di tendere chi vorrebbe, come lui, trasformare radicalmente il
mondo. In definitiva verificare è il suo atteggiamento costante,
qualcosa che somiglia a un «mandato» sociale sia quando è poeta sia
quando è filologo sia quando è moralista, ed è per questo che non c’è
separazione neppure tra il critico letterario e il saggista
etico-politico che comunque instaurano un rapporto necessariamente
conflittuale con la propria materia e con la propria contemporaneità.
Come
fa presente Pier Vincenzo Mengaldo (il massimo lettore di Fortini),
«certamente sua non è quell’arte della mediazione che era somma in
Lukács», essendo, al pari di Pasolini, «uomo dell’impazienza e non della
tessitura, del fulmine e non del fuoco lento». Amici e nemici, Fortini e
Pasolini, simili e opposti. Romano Luperini definisce benissimo i due
caratteri: «L’uno è poeta di un’inibizione, l’altro di un’esibizione.
Fortini tende al distanziamento razionale e quasi classico (…); Pasolini
alla visceralità. Il primo ha in orrore ogni eccesso vitalistico, odia
l’intemperanza e la mancanza d’equilibrio sia nel comportamento sia
nelle scelte linguistiche, e ha sempre rifiutato lo sperimentalismo; il
secondo trovò in una disperata vitalità l’unica ragione della sua
esistenza…».
Da queste prospettive divergenti nascerà nel novembre
1956 il celebre (e rude) confronto in versi, ospitato da «Officina»,
sul rapporto intellettuale-realtà tra il militante socialista ma
intimamente comunista (Fortini) e il «compagno di strada in crisi e
scomodo» (Pasolini), lontano da ogni schieramento diretto. L’incontro
tra Fortini e la «nuova sinistra» dei «Quaderni piacentini» allargherà
la distanza, tant’è vero che in Verifica dei poteri , la «disarmata
sincerità» di Pasolini, definita «inutile coazione a ripetere», viene
collocata tra i tanti bei gridi «così sterili, rauchi — e confusi»
contro la meschina infamia dell’Italia. La rottura diventa quasi
insanabile con le barricate del Sessantotto, quando i due ex sodali si
ritroveranno su sponde avverse. Ma quella lunga burrasca intellettuale
verrà poi rivissuta, a bocce ferme, nel 1993 in un libro, Attraverso
Pasolini , in cui Fortini fa i conti con se stesso: «Aveva torto e io
non avevo ragione». L’assassinio di Pasolini, secondo l’amico, conferì
valore profetico agli stessi scritti corsari la cui visceralità ingenua
(o finto ingenua) non gli era mai piaciuta.
Avrebbe potuto
avvicinare Fortini a Pasolini la nuova temperie del Gruppo 63, che li
vedeva ugualmente ostili, ma non avvenne, benché Pier Paolo, proprio in
quella fase, provò a coinvolgere Franco nella rivista che dirigeva con
Moravia e con la Morante, «Nuovi Argomenti». Le ragioni del rifiuto
erano inequivocabilmente politiche: Pasolini a Roma, con i suoi film, da
Accattone al Vangelo secondo Matteo , appariva come il protagonista di
un centro di potere, una figura precipitata nel discredito dei giovani
intellettuali che circondavano Fortini (Panzieri, Solmi, Bellocchio,
Cherchi, Fofi…). Il quale nel frattempo aveva aperto un conto con la
neoavanguardia di Sanguineti che, sempre in Verifica dei poteri , viene
individuato come il fautore dell’avanguardia come «arte da museo e da
atelier di moda», il teorico dell’«altra faccia della chiacchiera di
massa», ovvero della neoavanguardia come saldatura tra letteratura e
ordine borghese-capitalistico. Né in questo caso, diversamente dal
rapporto con Pasolini, Fortini ha avuto ripensamenti, se è vero che in
un ritratto degli anni Novanta appare ancora più duro, parlando di
«fastidioso culturalismo poliglotta» e, peggio ancora, della «posizione
politica di parlamentare, per così dire, “normalizzato”», in cui
Sanguineti «sembra trovare un contenitore per i frantumi psichici del
suo passato»: «Una ironia depressiva fra crepuscolarismo, comunismo e
liberty».
Per la verità, non è che dal suo nemico gli siano mai
mancate durissime repliche pan per focaccia. Analogo trattamento
fortiniano nei confronti delle sperimentazioni di Giorgio Manganelli,
colpevole, con il suo «spreco e fasto lessicale», di immergere il
lettore nei «piaceri della pubblicità televisiva». E così non
meravigliano le riserve, contraddittorie, nei confronti del padre ideale
della neoavanguardia, Gadda, verso il quale Fortini dichiara senza
mezze misure: «Mi è sempre stato antipatico», «certe laceranti delusioni
non mi commuovono affatto». Ma su un altro versante, si ricorderanno la
netta repulsione per La storia di Elsa Morante o le ironie acide a
proposito del successo ottenuto dalle Lezioni americane dell’amico
Calvino: «Un decennio di “pensiero debole” e di relativismo da morale
laica hanno disposto moltissimi ad accogliere queste pagine».
Sono
discussioni e prese di posizione lontanissime, ben più remote di quanto
la cronologia esterna farebbe credere. Talmente anacronistiche da
risultare sempre indispensabili. In fondo oggi verificare sarebbe più
urgente che mai.