il manifesto 8.9.17
Le parole dell’attesa
Intervista. Un
incontro al Festivaletteratura con la poeta curda Choman Hardi, che
presenta la sua raccolta «La crudeltà ci colse di sorpresa. Poesie dal
Kurdistan», per le Edizioni dell'Asino e la traduzione di Paola
Splendore. «All’inizio avevo una rabbia mista a una retorica
sentimentalista. Mi sono esercitata nella distanza»
di Alessandra Pigliaru
MANTOVA
Sono fuochi d’artificio o spari? / Ce lo chiedevamo ogni sera /
scendendo nella cantina che puzzava di fumo / quando esplosioni rosse
graffiavano il cielo». Non ci si abitua mai a quel rumore, basso e
continuo, la stessa intermittenza è nel verso tagliente di Choman Hardi,
poeta che ha scelto di cantare la sorte del suo paese, il Kurdistan, in
particolare una delle pagine più feroci, dal febbraio al settembre 1988
durante il massacro di Alfan. Cosa significhi sapere di arrivare da un
posto mai arreso eppure costretto alla invisibilità, lo si legge negli
occhi di questa giovane donna di 42 anni. Si muove lentamente tra quel
verde autunnale di chi ha ascoltato l’annientamento di un popolo, il
suo, e ha un sorriso che somiglia all’accordo segreto di sentirsi in
pace, in qualche angolo del cuore, libere.
A leggere La crudeltà
ci colse di sorpresa. Poesie dal Kurdistan (pp. 97, euro 10), tradotte e
curate con empatica competenza per le Edizioni dell’Asino da Paola
Splendore a cui va aggiunta la nota di Hevi Dilara, si assiste subito a
una poesia essenziale, scarna, che va all’osso dopo una laboriosa opera
di sottrazione. Il troppo pieno è già il dolore delle operazioni
militari, delle torture, dei gas asfissianti, delle persecuzioni.
LE
VITTIME DEL GENOCIDIO di Anfal sono state 182mila, 2mila i villaggi
rasi al suolo, un esodo di donne e uomini in fuga dalla violenza dello
Stato iracheno e delle bombe chimiche. Tra chi cercava scampo fuori dal
paese, principalmente verso Iran e Turchia, c’era anche Choman Hardi;
era la seconda volta che, insieme alla sua famiglia, aveva dovuto
lasciare Suleymania (la prima è stata nel 1979, a cinque anni). L’attesa
del ritorno a casa è visitata dai sogni sulle guardie di frontiera e
dal disarmo, passo dopo passo, delle rivendicazioni.
Fin da
ragazzina comincia a scrivere versi, facilitata da un padre poeta e da
una formazione appresa in parte in Inghilterra dove ha vissuto per
qualche anno (dal 1993), come rifugiata politica. «Vorrei avere una
ragione più sofisticata per dire come io sia stata iniziata alla poesia –
dice Hardi incontrata a Mantova per il Festivaletteretaura – ma l’unica
vera è la più semplice: è successo quando mi sono innamorata, in un
momento di grande e ingovernabile felicità. È stato solo l’inizio». Ecco
che da un tumulto adolescenziale, la voce a lei dovuta diventa «cronaca
della distruzione», come la definisce Splendore nella prefazione al
volumetto. Inventariando le altrui e proprie ferite, Choman Hardi
sceglie di restituire lo sguardo di chi non rinuncia al senso
dell’umano. Le donne con cui ha parlato, sono loro che affollano i
versi, l’hanno riconosciuta come un’adeguata interlocutrice; è stata
tuttavia la consapevolezza di essere una privilegiata – dinanzi a chi
aveva perso tutto – a consentirle di ascoltare quelle testimonianze con
lucidità. «Sono state prodotte inchieste – osserva Hardi – andando a
intervistare in particolare le donne curde, ogni volta però si tende ad
assumere uno sguardo esasperato, vittimistico e spesso impietoso nei
loro confronti senza curarsi né del contesto, né del fatto che c’è una
guerra che dura da più di cento anni e che ha causato, tra gli altri
danni irreversibili, una complessità all’interno della stessa comunità;
contraddizioni spesso insanabili».
SE NELLA PRIMA PARTE delle due
sillogi che compongono il volume (Life for Us, del 2004, a cui segue
Considering the Woman del 2015) emerge l’interrogazione dell’infanzia, è
la lunga sequenza dedicata al massacro di Anfal ad averle richiesto più
fatica. «Ho impiegato sette anni perché la stesura definitiva ne ha
richiesto molte altre precedenti. All’inizio avevo una rabbia mista però
a una retorica sentimentalista che non avrebbe reso un buon servizio a
quanto avevo intenzione di consegnare e rappresentare. Mi sono quindi
esercitata nella distanza. Non volevo che la tragedia, già evidente nei
fatti che andavo a evocare, venisse a moltiplicarsi a discapito delle
storie. Ho capito che erano queste ultime a dover parlare da sé,
attraverso la voce delle protagoniste. Esaltare emozioni già forti e
presenti nelle vicende sarebbe stato efficace per una performance, non
per la pagina scritta».
Se allora il trauma si può fronteggiare
solo attraverso parole già mondate, distillandone il pericolo di un
altisonante riverbero che contribuirebbe solo a nasconderne la verità,
sono proprio loro – le parole – a possedere «una potenza enorme» e a
costruire un varco di praticabilità nell’esistente. «Quando a 14 anni
sono rientrata nel mio paese ho letto moltissimi libri in persiano, in
curdo non si riusciva più a trovare niente. Ho conosciuto i testi della
poeta Forough Farrokhzad, scomparsa a 32 anni alla fine degli anni
Sessanta, aveva una impostazione politica precisa, descriveva per
esempio la società patriarcale che la circondava; soprattutto mi ha
insegnato un’altra misura, sia della poesia che della scrittura. Sono
rimasta altrettanto colpita da Sohrab Sepehri, anche lui iraniano letto
in originale. La poesia curda che conoscevo, della generazione di mio
padre, si occupava di questioni certo importanti come la patria, il
nazionalismo, la rivoluzione, l’amore e la morte come valori etici.
Poter congedare quella magniloquenza per accedere, come accadeva nella
poesia moderna, alle esperienze minime e quotidiane in cui un’ombra, una
pietra traducevano la realtà, mi è sembrata una scoperta irrinunciabile
che ho continuato a perseguire».
IL SUCCESSIVO PASSAGGIO dal
curdo all’inglese non è stato facile ma, nella vicenda di Choman Hardi,
ha un valore politico che non è un processo di adeguamento. «Vivere
dentro una lingua determina la perdita di alcune cose e l’acquisizione
di altre. Nel mio caso ho deciso di cominciare a scrivere anche in
inglese per cercare un’altra forma della distanza. Come è facile
intuire, il curdo e l’inglese hanno tradizioni diverse e anche i loro
destini sono opposti. Se con la seconda è possibile diffondere la storia
del Kurdistan nel mondo perché rinunciarvi? Ora ho ricominciato a
scrivere nella mia lingua d’origine. All’American University of Iraq,
dove attualmente insegno, incontro molti studenti e non sembra
desiderino ricordare né farsi troppe domande».
Lo sforzo è allora
di tenere vivente la memoria, percorso di orientamento all’interno di
una mappa introvabile che è il Kurdistan; se da un lato vi è l’esito di
costanti angherie geopolitiche che ne hanno preteso, e ancora ne
reclamano, l’annientamento definitivo, d’altra parte la nudità della
poesia è l’ago paziente disposto al rammendo, ripara e ricostruisce ciò
che sembra impossibile da riconoscere.
«Da tre anni sono tornata a
Suleymania. Quando vivevo in Europa e mi chiedevano da dove arrivassi
quasi nessuno sapeva dove e cosa fosse il mio paese. Ne ho sofferto, ho
lottato per la mia identità. Una volta, invitata a un festival
letterario, l’ospite proveniente dalla Turchia andò addirittura dagli
organizzatori per dire loro che il Kurdistan non solo non esisteva ma
domandava la ragione per cui lo avessero addirittura segnato accanto al
mio nome, quel luogo inventato chissà da chi. La mia reazione è sempre
stata di grande e scomposta rabbia fino alle lacrime. Poi ho capito che
avevo la scrittura dalla mia parte. Se questi discorsi tendono a
marginalizzare uomini e donne, a riprodurre oppressione, è nella
letteratura che ho trovato ciò che corrispondeva alla mia liberazione».
(in collaborazione con Paola Splendore)