La Stampa 6.9.17
intervista a Michael Caine
“Noi ribelli Anni 60 contro le classi sociali con l’arma dello stile”
L’attore dà voce a una ricostruzione della Swinging London e di chi la popolava
intervista di F:C.
Tratti
nobili e origini proletarie. Piglio scanzonato e impareggiabile ironia.
È il giovane Michael Caine che attraversa, nel documentario di David
Batty My Generation (ieri fuori concorso alla Mostra e poi nei cinema
con I Wonder), le strade della Londra Anni Sessanta dove tutto poteva
accadere. Per esempio incrociare David Bowie, commesso in un negozio di
King’s Road, oppure assistere all’incontro, a Charing Cross, tra i
Beatles e i Rolling Stones.
Ma è anche sir Michael Caine di oggi,
84 anni, oltre cento film all’attivo, tra cui Youth di Paolo Sorrentino,
un’agenda densa di impegni e un passato da ricordare senza nostalgia:
«Non ho mai guardato indietro con rabbia, altrimenti non sarei mai
arrivato dove sono. Rimpiangere le cose non fatte non serve, meglio
rimpiangere quelle fatte. E poi sono sempre stato convinto che la
giovinezza non sia un momento della vita, ma una condizione mentale».
Che cosa l’ha spinta a realizzare «My Generation»?
«Ho
sempre voluto raccontare quel periodo, è capitato che un produttore me
l’abbia chiesto e così l’ho fatto. Sono stati anni speciali perchè, per
la prima volta nella storia, i giovani, come ero io allora, ebbero la
possibilità di plasmare la realtà in cui vivevano».
In che cosa consisteva principalmente il cambiamento?
«Eravamo
gente venuta dal nulla e ci fu possibile realizzare i nostri sogni. Io,
per esempio, dopo aver fatto il servizio militare, lavoravo in una
fabbrica di burro, ma volevo fare l’attore. Mi fu consigliato di
acquistare una rivista, “The Stage”: sull’ultima pagina c’erano gli
annunci degli spettacoli. Ho cominciato così, prima facendo l’assistente
di scena, poi pronunciando una battuta, due, tre. Una volta ho fatto la
pubblicità di una birra e mi hanno dato 20 sterline».
Qual è la cosa che rende più diversa la nostra epoca da quella di allora?
«Sicuramente
la possibilità di essere continuamente informati e connessi con gli
altri. Noi siamo cresciuti senza sapere che cosa ci succedeva intorno,
avevamo una tv con un telegiornale alle 4 del pomeriggio, adesso,
invece, ci sono i computer, i social, i telefoni, tutte cose utilissime
di cui anche io mi servo».
Dal punto di vista politico quale fu, secondo lei, il mutamento più importante?
«La
nostra ribellione non aveva niente a che vedere con la politica,
provavamo a distruggere il sistema delle classi, che in Gran Bretagna
era molto rigido e strutturato, in un modo diverso, realizzando uno
stile di vita alternativo, a iniziare dalle occasioni di svago. Era un
momento particolare, c’erano autori come Osborne e Pinter che nelle loro
opere parlavamo per la prima volta della classe operaia».
Oggi, invece, siamo nell’era Brexit. Che cosa ne pensa?
«Sono
a favore, preferisco essere povero, ma padrone del mio destino,
piuttosto che esserlo sottostando alle decisioni di Bruxelles». [f.c.]