Repubblica 6.9.17
Il regista ricorda il fratello Giuseppe Alla Mostra un documentario dedicato all’artista
Bernardo Bertolucci “Eravamo troppo figli per diventare padri”
intervista di Arianna Finos
VENEZIA BERNARDO Bertolucci non è alla Mostra: «Sarei voluto assolutamente essere lì, per mio fratello e per la proiezione di
Novecento
restaurato. Ma un infame stafilococco mi ha impedito di venire», il
tono del regista è dolcemente affranto, con un tocco della consueta
autoironia, al telefono dalla casa di campagna.
A ricordare
Giuseppe Bertolucci, scomparso nel 2012, nel bel documentario di Stefano
Consiglio Evviva Giuseppe (il titolo da un’esclamazione di Cesare
Zavattini, amico della famiglia Bertolucci), sono Bernardo e tanti
amici: Nanni Moretti elenca le tante cose che ha conosciuto grazie a
Giuseppe, Roberto Benigni gli dedica una poesia, Fabrizio Gifuni ne
interpreta i testi. E ancora, accanto allo stesso Giuseppe in interviste
di repertorio, anche Marco Tullio Giordana, Lidia Ravera, Laura
Morante, Stefania Sandrelli e molti altri.
Bernardo, quando è nato Giuseppe lei aveva sei anni.
«Sì.
Vidi la mamma, bellissima, con un altro bambino: Giuseppe. Mi pareva
che lei non mi guardasse più. Usciti dall’ospedale a Parma, iniziò a
cadere la neve, mio padre guardava in alto: iniziò a saltare, e io con
lui, gridando “è nato Giuseppe!”. Quello è stato il nostro incontro».
Nel
documentario ci sono anche le riflessioni che Giuseppe ha fatto sui
versi di vostro padre Attilio, da cui si sentiva “definito”.
«Ci sentivamo proprio come i due rami di un albero, del suo albero ».
Sentirvi figli vi ha condizionato nel non diventare padri?
«Sì,
eravamo talmente figli, lo eravamo stati tanto a lungo, che è stato
impossibile, per tutti e due, riuscire ad accettare di diventare padri.
Mio padre ci ha fatto sentire fin troppo sotto la cupola paterna».
Quando vi siete liberati di quella cupola?
«In
effetti mai. Fino alla sua morte. È chiaro che ne siamo usciti nella
quotidianità, ma quella sensazione di infinito Eden è rimasta sempre».
L’amore di Giuseppe per il cinema nacque quando le fece
da aiuto regista per “La strategia del ragno”.
«Aveva
avuto una grande delusione d’amore. Era depresso e allora l’ho portato
con me e questo trasformò la sua delusione d’amore in innamoramento per
il cinema. E ha cominciato a fare i suoi film, e non ha mai cercato la
totale comunicazione con il pubblico, come è successo a me con qualche
volta. Giuseppe voleva essere in un universo a parte».
Benigni
racconta che una volta, insieme a casa sua, lei disse “che meraviglia è
mio fratello”. Ha sempre sentito la straordinarietà di suo fratello.
«Lui
per un certo periodo, fino ai quindici anni, dipingeva molto bene. Anzi
una volta Roberto Longhi, il grande professore, storico dell’arte amico
di mio padre, ha visto una cosa di Giuseppe e ha detto “Eh però, come
macchia bene Giuseppe”. Dopo i quindici anni non ha più macchiato e ha
iniziato a scrivere poesie, e le ha scritte bene. E poi dopo ha iniziato
a fare cinema, e ha fatto le cose perbene. Aveva tante sfaccettature.
Era talentuoso in tutte le cose che faceva. E questa è una qualità molto
rara».
Quale talento gli invidiava?
«La capacità di navigare sulla superficie della storia che stava vivendo malgrado il suo peso fisico. La sua grande leggerezza».
Che effetto le ha fatto vedere il documentario?
«Rivedendo il film ho sentito un grande senso di colpa per non avergli dato abbastanza spazio».
Quanto il suo ricordo di “Novecento” è legato a lui?
«È
un ricordo fresco, ancora oggi. Lui era lì perché avevamo scritto il
film insieme. E a un certo punto gli è venuta voglia di fare anche il
suo piccolo Novecento e allora ha fatto questo, non so come chiamarlo,
making of, ABCinema.
Ma l’ha fatto senza pensare a cosa stava facendo, come una sua cosa».
A vedervi insieme quando immaginavate “Novecento” lei e Giuseppe sembravate molto amici, oltre che fratelli.
«Infatti,
eravamo amici, diventò un triangolo perfetto con il grande Kim Arcalli.
Un’amicizia a tre, un rapporto che si basava su un lavoro comune. È per
questo che ci abbiamo messo poco a scrivere il film. Perché eravamo in
uno stato, tutti e tre, di grande ispirazione».
Giuseppe era anche la sua guida nel rapporto con il partito.
«Sì,
spesso lo chiamavo il mio commissario politico, in certi momenti in cui
trovavamo i punti di polemica con il nostro partito di riferimento, ci
incontravamo e lui era molto bravo a spiegarmi la politica, come io non
ero capace di capirla. E chiamavano sempre lui ad aiutarmi a capire
certi snodi delle questioni politiche che non riuscivo a interpretare.
Pensa te».
Giuseppe aveva anche una grande passione della tecnica del cinema.
«Sì.
È riuscito per anni e anni a essere presidente della Cineteca,
lavorando alla conservazione dei film, regalando spessore e garanzia di
grande qualità: la prova è che la famiglia Chaplin ha affidato alla
Cineteca la conservazione di materiali preziosissimi».
“Novecento”
viene proiettato alla Mostra, è arrivato anche Depardieu a sorpresa. Lo
vedranno ragazzi nati in un altro secolo. Cosa vuol dire loro?
«
Novecento è un melodramma, l’affresco di un secolo trascorso, la
rivoluzione contadina nelle terre in cui sono cresciuto, la grande
utopia. Ma testimonia anche il periodo in cui è stato girato: gli anni
Settanta, Berlinguer, il compromesso storico e quella gigantesca
bandiera rossa che ho sognato di portare in America. Ecco, vorrei che i
ragazzi guardassero al film anche da questo punto di vista».