domenica 3 settembre 2017

La Stampa 3.9.17
Lo psichiatra: “In alcuni casi chi soffre di questa malattia ritiene che non sia curabile”
di Alessandro Mondo

«Il suicidio è sempre molto difficile da inquadrare. In questo caso, un suicidio assistito chiesto da un depresso, la difficoltà è doppia». Il professor Vincenzo Villari, direttore della Psichiatria ospedaliera dell’ospedale Molinette di Torino, soppesa le parole.
Perché è più difficile?
«In Belgio, Olanda, Svizzera e Lussemburgo si pratica il suicidio assistito. Ma solo Belgio e Olanda, in qualche caso la Svizzera, includono le malattie mentali tra i fattori che possono giustificare la richiesta. La prima domanda è: checché se ne pensi del suicidio assistito, queste malattie devono rientrare o no?».
Secondo lei?
«Ogni forma di depressione - una volta diagnosticata, e non è scontato - può essere aggredita con un percorso psicoterapeutico associato nelle forme più gravi a un trattamento farmacologico».
Funziona?
«Nella prevalenza dei casi, sì. Ma la prima difficoltà è a monte: spesso il depresso interpreta la propria sofferenza come uno stato oggettivo, mentre invece è il sintomo della malattia».
Quindi?
«Prescindendo da questo caso, che non conosco, può rifiutare le cure ritenendole inutili. Molti depressi non si rendono nemmeno conto di esserlo. In tutti casi - episodi depressivi innescati da un evento specifico o depressioni croniche, spesso associate a disturbi della personalità - il comune denominatore è il pensiero ricorrente della morte come approdo di una sofferenza giudicata irrimediabile. La differenza con i malati terminali, che talora ricorrono al suicidio assistito, è questa».
Si spieghi meglio.
«Il malato terminale pensa alla morte sulla base di una prospettiva concreta e irreversibile; chi soffre di depressione può arrivare alla stessa conclusione, e programmarla, sulla base di uno stato emotivo. Un dramma nel dramma».