domenica 3 settembre 2017

La Stampa 3.9.17
Depressione e suicidio
Quelle vite intrecciate da fili neri
di Massimiliano Panarari

Fili neri e tragici intrecciano, purtroppo da sempre, la depressione e il suicidio. Ma nella vicenda dell’ingegnere depresso di Albavilla, andato in Svizzera in una clinica dove si pratica il suicidio assistito, ci ritroviamo a osservare una sorta di cambio di paradigma, e un passaggio di scala, sul quale è doveroso interrogarci, in maniera sommessa (come sarebbe bene fare sempre di fronte a un evento tragico), ma, al tempo stesso, nitida. Si tratta, infatti, di una storia differente da quella di «Dj Fabo» -Fabiano Antoniani (divenuto tetraplegico e non vedente all’indomani di un incidente stradale), che ha recentemente diviso e commosso l’opinione pubblica - e che, per molti versi, rimanda invece all’opzione per l’eutanasia passiva di Lucio Magri, depresso dopo la scomparsa della moglie. Avvenimenti in cui l’innesco della scelta definitiva, farsi aiutare nello spegnere la propria esistenza, è consistito nella depressione, una malattia certamente, e in taluni casi invalidante, ma non irreversibile, né irrimediabile. Un tunnel oscuro, dal quale, però, si può uscire «a riveder le stelle» e la luce, come accaduto a tante persone che, per una molteplicità di ragioni e vicissitudini, si sono trovate a percorrerlo. Ed ecco perché quest’ultimo caso pone quesiti ulteriori anche alla bioetica laica che sull’eutanasia individualistica ha una posizione diversa da quella della morale cristiana (e, più in generale, religiosa), per la quale il principio della salvaguardia della vita, sempre e in ogni circostanza, risulta prevalente e inderogabile.
Dal Rinascimento di Tommaso Moro e Francesco Bacone (inventore del termine eutanasia) all’Illuminismo, dall’utilitarismo a Émile Durkheim, fino ai filosofi analitici contemporanei, il pensiero laico ha privilegiato la dimensione della libera volontà del singolo, e così, all’insegna di sfumature differenti - e al netto di inammissibili e intollerabili «pruriti» eugenetici di derivazione tardopositivistica - ha visto nel suicidio un atto legittimo, ancorché drammatico e sconvolgente. Perché la cultura liberale, animata da dubbi e incertezze, ci insegna che le scelte individuali vanno sempre rispettate, ancor più quando tanto drammatiche e circonfuse di dolore. Tuttavia, se passiamo dal piano della riflessione filosofica alla fattispecie concreta (e ai dilemmi decisionali di un legislatore laico), il suicidio assistito quale extrema ratio appare ragionevolmente rivestito di liceità quando la buona morte solleva da una vita diventata cattiva senza via di ritorno, ovvero senza possibilità di guarigione. E, invece, dal “male oscuro”, giustappunto, si può guarire, dato che la depressione non rappresenta una patologia terminale, e può venire curata mediante una pluralità di terapie.
Una persona depressa che si spinge sino a invocare “l’exit strategy ultimativa” non possiede la completezza di quelle facoltà cognitive che consentono il pieno esercizio di una libera volontà individuale, e, al medesimo tempo, non è in una condizione di dolore fisico insostenibile. Ha solo bisogno di essere assistita, ma non certo nell’esecuzione del suicidio. Altrimenti quella cultura del limite senza la quale non esiste umanesimo autentico rischia di incamminarsi lungo una strada senza uscita.