La Stampa 3.9.17
La vera riforma che non può aspettare
di Andrea Gavosto*
Dal
Dopoguerra a oggi, i ministri dell’Istruzione in Italia sono durati, in
media, un anno e mezzo: troppo poco per impostare una visione di lungo
periodo per la scuola.
Questo è uno dei limiti più seri del nostro
sistema d’istruzione: per mettere alla prova e consolidare riforme,
spesso frettolosamente definite «epocali», servono tempo e continuità
d’intenti, che la politica raramente ha saputo dare.
Nell’intervista
di ieri, la ministra Fedeli, anche lei ormai vicina alla scadenza del
mandato, non annuncia giustamente un’ennesima riforma, ma suggerisce
un’operazione interessante per dare alle politiche scolastiche un
respiro meno breve e affannoso. In questa fine di legislatura, non
tocchiamo l’attuale struttura dei cicli scolastici - 3 anni di scuola
dell’infanzia, 5 di primaria, 3 di secondaria di primo grado (vecchia
media), 5 di secondaria di secondo grado –, ma cerchiamo di far
funzionare quello che c’è. Intanto, avviamo una sperimentazione in 100
classi per vedere se si riesce a ridurre di un anno la durata delle
superiori, rinnovando la vecchia didattica senza intaccare i livelli di
apprendimento: alla luce degli esiti di questo esperimento, ragioneremo
se cambiare l’organizzazione dei cicli, facendone coincidere la durata
con il termine dell’obbligo scolastico a 18 anni. Così, Fedeli evita di
gettare ulteriormente nello scompiglio il mondo della scuola, uscito
provato dalle incongruenze della Buona scuola. Non propone una
riorganizzazione generale - ora velleitaria - che coinvolga anni di
scuola, insegnamenti, esami e numero di cattedre nei vari ordini. In
compenso, lascia in eredità un solido fondamento di analisi e
sperimentazioni, su cui costruire una prospettiva di lungo periodo della
scuola, che incontri il necessario consenso di insegnanti e famiglie.
È
ragionevole riflettere seriamente sulla scansione degli attuali cicli
scolastici, così come sull’innalzamento dell’obbligo a 18 anni, di cui
abbiamo già parlato in queste pagine: sappiamo infatti che, dopo le
primarie, la qualità degli apprendimenti perde terreno rispetto agli
altri paesi avanzati, creando un danno agli studenti e una zavorra alla
crescita economica. L’anello debole del sistema è la scuola media, che,
senza più il mandato di completare il vecchio obbligo scolastico a 14
anni, sembra oggi mancare di una chiara missione. Per questa ragione, il
ministro Berlinguer ne propose l’abolizione tout court, allungando di
due anni le elementari e anticipando di uno le superiori: come noto,
alla fine non se ne fece nulla. La ministra Fedeli non riprende la
proposta di modificare la durata delle medie, ma, correttamente, ricorda
che il passaggio fra fine della primaria e inizio delle medie nel
nostro paese è segnato – caso pressoché unico in Europa – da una forte
cesura fra una scuola accogliente e interdisciplinare e una modellata
come un piccolo liceo, con una dozzina di docenti che si coordinano poco
e male fra di loro. Di conseguenza, occorre smussare il passaggio,
creando continuità didattica fra elementari e medie attraverso un
maggior coordinamento fra i rispettivi docenti.
Anche se non è un
problema di oggi, come si potrebbe articolare una riforma dei cicli? Una
risposta univoca non c’è. Le ipotesi sul tappeto sono moltissime: da un
anticipo della scuola primaria a cinque anni, a cicli immutati (che
però costringerebbe a scegliere gli indirizzi delle superiori a 13 anni)
alla riduzione di un anno delle superiori, che diventerebbero così di 4
anni, all’allungamento di un anno della scuola media a scapito delle
elementari. Nessuna soluzione è, sulla carta, preferibile alle altre e
non sembra esistere all’estero un modello che di per sé s’imponga come
preferibile: questo giustifica la prudenza della ministra e la sua
scelta di dar corso alle sperimentazioni, come base per decidere. Di una
cosa possiamo però essere certi: cambiare la durata dei cicli senza
modificare la didattica scolastica, ancor oggi legata alla lezione dalla
cattedra, alle interrogazioni al banco e ai compiti a casa, non serve a
nulla. La vera riforma da fare sarebbe quella delle competenze
didattiche dei docenti, dei tempi e degli spazi scolastici, in modo da
rinnovare il modo con cui gli studenti apprendono.
*Direttore Fondazione Agnelli