venerdì 29 settembre 2017

La Stampa 29.9.17
“Dentro Caravaggio” trionfo e furori del genio gaglioffo
Milano, una mostra a Palazzo Reale entra nel vivo della sua pittura e rivela nuovi dettagli della biografia
di Marco Vallora

Sì, sì, c’è anche lui, in mostra, con sconcerto di tutti... che sia entrato di straforo un clochard? «È un giovenaccio grande di vinti o vinticinque anni, con poca poca di barba negra, grassotto, con ciglia grosse et occhio negro, che va vestito di negro non troppo bene in ordine, che portava un paro di calzette negre un poco stracciate, che porta li capelli grandi, longhi dinanzi». Insomma, allontanatelo! che fa macchia maleodorante, in questa superba accolita di capolavori adunati, lucidati, fosforici. Comunque e sempre ancora sconvolgenti e fascinosamente ricchi di mille bagliori.
In effetti, di fronte alla sontuosità di tele scandalose ma imperiali, si fa fatica a credere (per quanto la sua vita sia quasi diventata incrostato romanzo) che a dipingere quegli ori crepuscolari, quei trionfi spettacolari, sia stato un gaglioffo zingaresco, grassoccio e stracciato, rissoso e dissipatore di talenti, non solo pecuniari, come Caravaggio, «huomo... astratto, inquieto, poco accorto sulla sua vita e [che] molte volte andava a letto vestito e col pugnale al fianco che mai lasciava», come ricorda ancora, nel ’700, il Susinno. Poi scese la mannaia polverosa dell’oblio, finché non lo riscoprì il genio, non meno inquieto, di Longhi, che lo fece coralmente scoprire qui, nella stessa sede di Palazzo Reale (espondendo pure il «suo» Ragazzo morso dal ramarro).
E fa specie che a farci capire di più, del suo eterno mistero dissociato, siano non solo i biografi che lo tengono in grande, rispettoso sospetto, ma soprattutto bari, mezzani, garzoni di barbiere, che depongono poliziescamente a suo favore, o detrimento, per rivalità, nei continui processi che lo vedono satanico e ribelle protagonista. E quando parla, puro e intrattenibile turpiloquio: una gragnuola di parolacce, riportate in presa diretta, tipicamente pasolinesca. È sempre lui il primo a tirare il sasso, come a tirare il sasso cromatico e sanguinante della modernità, della rivoluzione pittorica. «Quando io intesi tirare li sassi et li sassi furno tirati avanti che io credevo fussero tirati alli miei compagni. Sempre quando me trova me fa di queste sue insolentie e nega decisamente di avergli detto ne che l’avevo in c...».
Insomma, ritira il braccio dell’indicibile, intraducibile offesa, ma non smette di provocare, anche di fronte al questurino, che è tardo e torpido, nel redigere la denuncia. E il barbiere insiste: «Questo pittore si dimanda Micchalangelo, che al parlare tengo sia milanese... mettete lombardo, perché lui parla alla lombarda et lo cognosco da questa quaresima prossima passata...». Ma non è solo l’immediatezza e la vividezza narrativa di queste tranches de vie ad attrarci, con Caravaggio che s’accende di rabbia, «et prese quel piatto con dentro i carciofori et lo tirò al detto Pietro alla volta del viso», proprio mirando alla parte più molle, che poi sa così ben carezzare in pittura. O eccolo lì, di nuovo in diretta, mentre finisce il rivale di partita: «ultimamente affrontatosi con Ranuccio Tomassoni giovane di molto garbo, per certa differenza di giuoco di pallacorda, sfidaronsi e venuti all’armi, caduto a terra Ranuccio, Michelangelo li tirò d’una punta e nel pesce della coscia, feritolo gli diede a morte». Che par proprio di vedere gli aguzzini della Flagellazione di Napoli, che legano golosamente e torturano il Cristo deriso.
Ma siccome si tratta di documenti processuali, dalle date incontrovertibili, ben più delle opinabili proposte degli storici dell’arte, son davvero fondamentali queste nuove scoperte di documenti, che cambiano sensibilmente la cronologia della sua vita e delle tele, che è il vero portato scientifico di questa mostra «Dentro Caravaggio», da oggi al 28 gennaio nel Palazzo Reale di Milano, curata da Rossella Vodret e dallo staff scientifico di Keith Christiansen, voluta da MondoMostre e Skira. Una rassegna che, con il sobrio allestimento di Pierluigi Cerri, inevitabilmente labirintico (è facile ma affascinante ogni tanto perdersi tra san Franceschi, efebi, Maddalene pentite, figure bibliche drappeggiate in panni eleganti), consente di «girare» letteralmente dietro i quadri, ove una sapiente sintesi delle indagini radiografiche - diagnostica «medica» della Bracco - ci porta fisicamente «dentro» le trippe della pittura di Caravaggio.Tra pentimenti, ripensamenti, frequentissimi riequilibrii grafici.
Ma l’elemento più importante della mostra, grazie a documenti appena scoperti, è la diversa datazione dell’arrivo di Caravaggio a Roma, dalla Lombardia, poverissimo, senza appoggi, a dipingere ogni giorno «tre teste», per cifre irrisorie. Non più nel 1592, come si riteneva un tempo, ma molto oltre, nel 1596. Con un’enigma ancor più sconcertante. Che cosa avrà mai dipinto Caravaggio, in quel «buco» espressivo, che non si riesce ancora a colmare? E se, come rivela il barbiere, Caravaggio avesse già ucciso un uomo a Milano, e fosse rimasto qualche anno, inattivo, in prigione?