La Stampa 28.9.17
Renzi teme il boomerang
Braccio di ferro con Orlando per modificare la norma
Il ministro: prima di intervenire monitoriamo gli effetti
di Carlo Bertini e Francesco Grignetti
Renzi
versus Orlando. Attorno al capitolo più emblematico della riforma di
maggiore portata simbolica della giustizia, si è giocata una partita nei
giorni scorsi all’interno del Pd: tra un’ala capeggiata dal segretario
Matteo Renzi, più sensibile agli allarmi del mondo imprenditoriale e una
decisa ad andare a fondo guidata dal ministro Orlando. Renzi avrebbe
preferito infatti cambiare questa norma, anche da premier aveva molto
rallentato la legge, perché non ne condivideva vari passaggi.
E
ieri, dopo un braccio di ferro, è stata partorita una mediazione: un
ordine del giorno, firmato dal capogruppo Pd in commissione giustizia
Walter Verini che, nella sostanza, serve a prendere tempo. Il testo
approvato invita il governo a monitorare l’andamento della riforma e
sottolinea la novità dirompente di questa norma, che prevede il
sequestro, anche preventivo, del patrimonio di un corrotto al pari di un
mafioso. In sostanza,
di fronte a una sproporzione tra reddito
dichiarato e patrimonio, se c’è il sospetto che quel patrimonio sia
frutto di varie corruzioni precedenti, il pm può chiedere il sequestro.
La portata è chiara a tutti gli addetti ai lavori. Ma al ministero della
Giustizia sono convinti che essendo la riforma molto complessa, ci
siano già gli anticorpi per prevenire ogni eventuale eccesso in senso
giustizialista. La riforma prevede non un sequestro preventivo tout
court, ma disposto da un giudice con un dibattimento specifico, cui le
parti prendono parte anche con l’avvocato difensore dell’imputato. In
gergo tecnico è chiamata «giurisdizionalizzazione del procedimento».
Lo stop del Guardasigilli
Orlando
è convinto dunque che non ci sarà necessità di cambiarlo e quindi di
decreti o provvedimenti di urgenza non vede la necessità. Tutto è
rinviato a tempi medio lunghi quando - dopo un monitoraggio attento da
parte del ministero - si ravvisasse che la legge necessita di
correzioni. Ma qui si innesta un problema tutto politico che impatta
sulla campagna elettorale e sull’immagine del Pd, che il segretario non
vuole assuma un profilo troppo giustizialista.
Non è un mistero
che fin dall’inizio tale formula del sequestro dei beni non piaceva ai
vertici del partito. E veniva considerata un autogol: «Matteo la voleva
cambiare, Orlando e il governo non hanno voluto, perché se la
riportavano al Senato la riforma sarebbe morta», racconta un dirigente
renziano. Messa in ghiacciaia l’irritazione, il Pd ha studiato questa
soluzione dell’ordine del giorno: che ricalca altri ordini del giorno
dell’ultimo anno, tanto che già diverse riforme sono sottoposte a un
monitoraggio accurato da parte del ministero.
Il rischio di affossarla
A
confermare il sigillo dell’intesa raggiunta nel Pd è stato l’intervento
in aula di ieri del renziano più esperto di giustizia David Ermini: che
ha preso la parola per dire che tutti gli emendamenti che fossero stati
approvati avrebbero comportato un ritorno al Senato e che la volontà
era portare a casa la riforma. E il motivo è presto detto. Fuori
verbale, più di un big del partito ammette che si è comunque deciso di
procedere perché «se si usciva da questa vicenda con un affossamento del
codice antimafia ci avrebbero massacrato». Sarebbe stato un colpo di
immagine durissimo alla vigilia della campagna elettorale e per giunta
dopo il flop dello Ius soli. Ma i renziani, nel timore di perdere voti
nell’area imprenditoriale, non disperano che il governo decida di
procedere con un decreto o un emendamento alla manovra che ammorbidisca
questa norma.