Repubblica 28.9.17
Ius Soli
Figli nostri e figli dello Stato
di Massimo Recalcati
LA
RESISTENZA antropologica e psicologica, oltre che politica ed
elettoralistica, allo Ius soli rende manifesta una tendenza sempre
presente nella realtà umana: difendere il proprio status narcisistico,
sociale e identitario dal rischio perturbante della contaminazione. È
quella inclinazione autistica della vita umana che aveva condotto Freud a
paragonare la sua condizione primordiale di esistenza a un guscio
chiuso su se stesso e ostile per principio al mondo esterno, colpevole
di essere “straniero e apportatore di stimoli”. Questa concezione
corazzata dell’identità nei tempi di crisi tende inevitabilmente a
rafforzarsi e a sclerotizzarsi. La paura dello straniero incentiva
l’edificazione di una versione dell’identità fobica, refrattaria allo
scambio, iper-difensiva. I confini diventano muraglie, cessano di essere
porosi, acquistano la consistenza del cemento armato. In un tempo
dominato dal panico sociale generato dalla durezza della crisi
economica, dal carattere anarchico e inarrestabile dei flussi migratori e
dalla follia terrorista, la solidificazione dell’identità tende a
configurarsi come una reazione giustificata alla minaccia incombente. I
rigurgiti nazionalisti, etnici, populisti, sovranisti che caratterizzano
la scena politica non solo nazionale ma internazionale cavalcano
irresistibilmente questa onda. Ma la vita della città senza
contaminazione è destinata all’imbarbarimento esaltato della setta, alla
psicologia totalitaria delle masse. In questo senso dovrebbe essere
chiaro a tutti che la partita dell’integrazione è il più grande antidoto
ad ogni forma di violenza compresa quella del terrorismo.
Come
non considerare che in questo mondo nuovo attraversato dall’esperienza
inevitabile della contaminazione, del cosmopolitismo, dello scambio,
della flessibilità dei confini, la nozione di cittadinanza deve essere
radicalmente riformulata? Le situazioni di crisi non necessariamente
sono destinate ad accentuare una difesa strenua contro quello che pare
ingovernabile. È un insegnamento che proviene dalla vita psichica: il
tempo di maggiore crisi — se elaborato nella direzione giusta — spesso
coincide con il tempo delle trasformazioni più generative.
L’attraversamento di una malattia non riporta mai la vita a com’era
prima, ma la può rendere più ricca, più sensibile alla vita, più capace
di vita. In questo senso la crisi può essere sempre un’occasione di
apertura più che di chiusura.
La battaglia politica e culturale
dello Ius soli potrebbe diventare un esempio luminoso. Alla tentazione
della chiusura e del barricamento identitario vincolato al sangue e al
particolarismo dell’etnia — che sono, in realtà, la faccia speculare
della globalizzazione universalistica — si può rispondere ponendo con
forza il tema della rifondazione positiva del senso di appartenenza alla
vita della città. La psicoanalisi lo verifica quotidianamente nella sua
pratica clinica: l’integrazione cura la dissociazione; l’esperienza del
riconoscimento cura l’odio; la condivisione cura il senso di
segregazione.
Il legame familiare, forse più di ogni altro, ci
offre un esempio significativo di giusta cittadinanza. Non si diventa
padri o madri perché si genera biologicamente una vita. La vita del
figlio è tale solo se viene simbolicamente adottata al di là del sangue e
della stirpe. C’è genitorialità solo se ci assumiamo la responsabilità
illimitata che il prendersi cura della vita di un figlio comporta.
Questa nozione di responsabilità non è mai un fatto di sangue, ma
implica un consenso, un atto, una decisione simbolica. Allo stesso modo
lo Stato ha il dovere etico di adottare — di riconoscere come suoi figli
— coloro che non solo e non tanto nascono nel suo territorio, ma si
riconoscono come parte integrante di quello Stato contribuendo alla sua
vita. Diversamente l’idea che la cittadinanza sia un diritto vincolato
al sangue è un’idea fondamentale del Mein Kampf di Hitler. L’origine del
razzismo e di ogni genere di fanatismo hanno sempre come loro
fondamento l’ideale della purezza etnica che esclude il pluralismo.
La
battaglia per lo Ius soli è una battaglia di Civiltà dal respiro ampio.
Non riflette un colore politico. Per questa ragione i numeri non
dovrebbero essere tutto. I partiti che la ritengono giusta dovrebbero
mantenere il loro sguardo alto. In gioco non è un semplice guadagno
elettorale ma il senso stesso del mondo.