La Stampa 21
L’intervento dello psicanalista argentino
L’esercito degli “adulti biologici”
Bambini ossessivi e superficiali
Conservare la magia dell’infanzia non significa evitare di crescere
di Miguel Benasayag
Cosa
rimane dell’infanzia nell’età adulta? Ci sono, anzitutto, due aspetti
opposti dell’essere bambini: il lato positivo, che va mantenuto e non
soppresso - e sul quale insisteva anche la pediatra e psicoanalista
Françoise Dolto, che per me è stata una vera amica - riguarda la
possibilità di meravigliarsi, la curiosità, ed è quello che garantisce
anche agli adulti un senso di libertà, la pulsione verso la ricerca. Si
tratta di un’innocenza non intesa quindi in senso angelico quanto come
capacità di restare aperti alla vita, al divenire, il non acquietarsi
sulle proprie certezze, il non diventare sclerotizzati.
I desideri nascosti
Quando
la persona cresce tende, per la maggior parte del tempo, a schiacciare
questo bambino interiore per adottare posizioni più rigide, di falsa
responsabilità, che non sono altro che ruoli teatrali, una specie di
esoscheletro che la nostra società identifica come l’adulto
responsabile, controllato, che domina i propri desideri, non cede
all’avventura e agli impulsi. Mentre invece dalla positività
dell’infante che siamo stati nascono desideri, sogni, progettualità. Per
questo è fondamentale restare fedeli a questa nostra natura più
giovane: ci consente di guardare il mondo con apertura, al di là della
necessità. Il bambino che è in noi dice «non esiste un cammino fisso da
percorrere, il cammino si fa camminando». Ed è proprio questa apertura
alla vita, all’imprevisto, alle affinità elettive, l’aspetto positivo
dell’infanzia che va preservato.
Il lato negativo, invece, è
quello dell’irresponsabilità, l’unico che viene mantenuto da quegli
adulti che sopprimono il bambino che sono stati: in questo caso, coloro
che vivono negli esoscheletri della responsabilità sono ancor più e a
maggior ragione bambini, e nel senso peggiore, in quanto non coscienti
dei legami sociali, di contesto e di relazione. Io li chiamo «adulti
biologici», ovvero persone che si possono definire adulte solo in base
alla loro innegabile età anagrafica ma che in realtà non sono mai
cresciuti: sono quelli che - e ne vedo così tanti da pensare che siano
la maggioranza - si aggrappano ossessivamente agli oggetti, alla
materialità, o si abbandonano a passioni smodate, violente (come ad
esempio i tifosi o i fanatici di automobili). Ecco, in questi casi,
emerge proprio quel lato infantile non canalizzato correttamente: è
l’infantilismo più pericoloso, che denota un livello inesistente di
sviluppo e di saggezza. Mi sconcerta constatare quanto sia diffuso.
Oggi,
per di più, questo infantilismo si è ibridato con il mondo digitale e
il lato immaturo degli adulti si è sviluppato enormemente perché tutto è
diventato ludico, privo di qualsiasi senso o finalità a parte il
piacere immediato. Per questo i genitori dovrebbero fare bene il proprio
lavoro, mentre oggi tendono a essere fallimentari: educare un bambino
vuol dire insegnargli la pazienza, la dilazione, la capacità di fermarsi
a riflettere prima di agire. Le nostre società producono invece sempre
più adulti biologici schiavi dell’immediatezza, gettati nel flusso di
un’accelerazione del tempo che rende incapaci di sopportare la
frustrazione, la noia, i vuoti, le difficoltà tipiche della vita adulta.
La grande industria, la tecnologia, veicolano e incoraggiano questa
dipendenza e inferiorità.
Il telefonino
Prendiamo come
esempio il telefonino: è un «oggetto transizionale», va nel senso
contrario rispetto all’autonomia e alla responsabilizzazione che
all’apparenza conferisce, in quanto dà l’impressione di essere sempre
legati ad altro e ad altri, rimuovendo di fatto la sensazione di dover
essere presenti a noi stessi, responsabili del presente, del qui ed ora.
E cancella anche la responsabilità verso noi stessi, rendendoci spesso
incapaci di stare soli, piuttosto che sempre all’interno di un gruppo o
di una «community».
La problematica del rapporto del bambino
nell’adulto riguarda soprattutto l’infantilizzazione cattiva dell’adulto
che paradossalmente va ad eclissare il lato buono del bambino in noi.
Sempre più si tende a trasferire la responsabilità verso le macchine, si
delegano alla tecnologia quelle funzioni che sarebbero proprie del
nostro essere umani. Oggi siamo convinti che la nostra società sia ormai
de-sacralizzata ma è vero l’opposto: è diventata seguace di una nuova
religione, della promessa tecno-scientifica per cui tutto è possibile, e
per ciò stesso lecito.
Non di rado quando mi soffermo su questo
punto mi accusano di essere un «bio-conservatore» in senso politico, di
oppormi al progresso, ma la verità è che non tutto è possibile né per
forza dovrebbe esserlo, esiste una singolarità del vivente che pone dei
limiti a tali orizzonti e che dobbiamo conoscere, altrimenti
l’assimilazione del vivente al digitale rischia di schiacciare la nostra
identità su quella delle macchine. Ma non solo: la promessa
tecno-scientifica è ingannevole perché impedisce agli adulti di essere
davvero tali, perché ciò significherebbe essere in pace con i propri
limiti: un limite non è una limitazione negativa, è qualcosa che può
proteggere la vita e definirla in senso positivo. Essere genitori vuol
dire anche questo: trasmettere tale struttura dei limiti, insegnare ad
accettarli, a fare i conti con la nostra finitudine.
La tecnologia
L’adulto
che è intrappolato nella tecnologia, che ha trasformato la propria vita
in una serie di atti ludici, ha ucciso il bambino che era in lui nel
momento in cui ha scelto, benché inconsciamente, di vivere in un mondo
privo di avventura, di aleatorietà, in cui tutto è simulacro di altro e
si basa sull’imitazione di qualcosa che non si vive. Dobbiamo ritrovare
quel lato positivo del bambino che siamo stati per ricominciare ad
esplorare e smettere di seguire il senso unico tracciato dalla
tecnologia. La sicurezza che sembra darci è illusoria: tutta la vita è
rischio, le scoperte implicano l’ignoto, occorre tornare ad abitare un
tempo che non sia più solo lineare e sempre accelerato. Non è un caso
che per i bambini non abbia significato l’espressione «guadagnare
tempo»: loro vivono quasi al di fuori di esso. È necessario colonizzare
la tecnica per evitare che essa colonizzi l’umano. Come?
Riappropriandoci del nostro tempo e resistendo alla tentazione di cadere
nella linearità transitiva, quella per cui facciamo sempre tutto in
vista di qualcos’altro, di un obiettivo: per i bambini il mezzo e il
fine coincidono, non sono separati, il cammino è tutto, mentre per certi
adulti conta solo l’arrivo. Ecco, dobbiamo recuperare questo lato
anti-utilitaristico dell’infanzia.
Le competenze
In
conclusione, poiché intrecciata a doppio filo a tutto questo, vorrei
condividere una brevissima riflessione su quella che oggi si chiama la
«pedagogia delle competenze»: a mio avviso, insegnare gli strumenti
utili ad andare sempre per la via retta è sbagliato e controproducente.
Dobbiamo proteggere i bambini da questa specie di terrorismo
dell’urgenza, di una male interpretata efficienza, ricettività:
l’urgenza non è la risposta ai problemi, è il problema. Non riusciamo
più ad abitare le nostre vite, siamo sempre proiettati verso altro: un
altro tempo (il futuro), altri luoghi, altre persone che ci dicono chi
dovremmo diventare. Bisognerebbe riprogettare l’educazione
istituzionale, come pure quella in famiglia, in modo da tutelare i
giovani nei confronti dell’esigenza di rapidità, linearità, transitività
e dire «no, prendetevi il vostro tempo per sperimentare, per
strutturarvi, fare esperienze, e così capire chi siete».