giovedì 21 settembre 2017

La Stampa 21
L’intervento dello psicanalista argentino
L’esercito degli “adulti biologici”
Bambini ossessivi e superficiali
Conservare la magia dell’infanzia non significa evitare di crescere
di Miguel Benasayag

Cosa rimane dell’infanzia nell’età adulta? Ci sono, anzitutto, due aspetti opposti dell’essere bambini: il lato positivo, che va mantenuto e non soppresso - e sul quale insisteva anche la pediatra e psicoanalista Françoise Dolto, che per me è stata una vera amica - riguarda la possibilità di meravigliarsi, la curiosità, ed è quello che garantisce anche agli adulti un senso di libertà, la pulsione verso la ricerca. Si tratta di un’innocenza non intesa quindi in senso angelico quanto come capacità di restare aperti alla vita, al divenire, il non acquietarsi sulle proprie certezze, il non diventare sclerotizzati.
I desideri nascosti
Quando la persona cresce tende, per la maggior parte del tempo, a schiacciare questo bambino interiore per adottare posizioni più rigide, di falsa responsabilità, che non sono altro che ruoli teatrali, una specie di esoscheletro che la nostra società identifica come l’adulto responsabile, controllato, che domina i propri desideri, non cede all’avventura e agli impulsi. Mentre invece dalla positività dell’infante che siamo stati nascono desideri, sogni, progettualità. Per questo è fondamentale restare fedeli a questa nostra natura più giovane: ci consente di guardare il mondo con apertura, al di là della necessità. Il bambino che è in noi dice «non esiste un cammino fisso da percorrere, il cammino si fa camminando». Ed è proprio questa apertura alla vita, all’imprevisto, alle affinità elettive, l’aspetto positivo dell’infanzia che va preservato.
Il lato negativo, invece, è quello dell’irresponsabilità, l’unico che viene mantenuto da quegli adulti che sopprimono il bambino che sono stati: in questo caso, coloro che vivono negli esoscheletri della responsabilità sono ancor più e a maggior ragione bambini, e nel senso peggiore, in quanto non coscienti dei legami sociali, di contesto e di relazione. Io li chiamo «adulti biologici», ovvero persone che si possono definire adulte solo in base alla loro innegabile età anagrafica ma che in realtà non sono mai cresciuti: sono quelli che - e ne vedo così tanti da pensare che siano la maggioranza - si aggrappano ossessivamente agli oggetti, alla materialità, o si abbandonano a passioni smodate, violente (come ad esempio i tifosi o i fanatici di automobili). Ecco, in questi casi, emerge proprio quel lato infantile non canalizzato correttamente: è l’infantilismo più pericoloso, che denota un livello inesistente di sviluppo e di saggezza. Mi sconcerta constatare quanto sia diffuso.
Oggi, per di più, questo infantilismo si è ibridato con il mondo digitale e il lato immaturo degli adulti si è sviluppato enormemente perché tutto è diventato ludico, privo di qualsiasi senso o finalità a parte il piacere immediato. Per questo i genitori dovrebbero fare bene il proprio lavoro, mentre oggi tendono a essere fallimentari: educare un bambino vuol dire insegnargli la pazienza, la dilazione, la capacità di fermarsi a riflettere prima di agire. Le nostre società producono invece sempre più adulti biologici schiavi dell’immediatezza, gettati nel flusso di un’accelerazione del tempo che rende incapaci di sopportare la frustrazione, la noia, i vuoti, le difficoltà tipiche della vita adulta. La grande industria, la tecnologia, veicolano e incoraggiano questa dipendenza e inferiorità.
Il telefonino
Prendiamo come esempio il telefonino: è un «oggetto transizionale», va nel senso contrario rispetto all’autonomia e alla responsabilizzazione che all’apparenza conferisce, in quanto dà l’impressione di essere sempre legati ad altro e ad altri, rimuovendo di fatto la sensazione di dover essere presenti a noi stessi, responsabili del presente, del qui ed ora. E cancella anche la responsabilità verso noi stessi, rendendoci spesso incapaci di stare soli, piuttosto che sempre all’interno di un gruppo o di una «community».
La problematica del rapporto del bambino nell’adulto riguarda soprattutto l’infantilizzazione cattiva dell’adulto che paradossalmente va ad eclissare il lato buono del bambino in noi. Sempre più si tende a trasferire la responsabilità verso le macchine, si delegano alla tecnologia quelle funzioni che sarebbero proprie del nostro essere umani. Oggi siamo convinti che la nostra società sia ormai de-sacralizzata ma è vero l’opposto: è diventata seguace di una nuova religione, della promessa tecno-scientifica per cui tutto è possibile, e per ciò stesso lecito.
Non di rado quando mi soffermo su questo punto mi accusano di essere un «bio-conservatore» in senso politico, di oppormi al progresso, ma la verità è che non tutto è possibile né per forza dovrebbe esserlo, esiste una singolarità del vivente che pone dei limiti a tali orizzonti e che dobbiamo conoscere, altrimenti l’assimilazione del vivente al digitale rischia di schiacciare la nostra identità su quella delle macchine. Ma non solo: la promessa tecno-scientifica è ingannevole perché impedisce agli adulti di essere davvero tali, perché ciò significherebbe essere in pace con i propri limiti: un limite non è una limitazione negativa, è qualcosa che può proteggere la vita e definirla in senso positivo. Essere genitori vuol dire anche questo: trasmettere tale struttura dei limiti, insegnare ad accettarli, a fare i conti con la nostra finitudine.
La tecnologia
L’adulto che è intrappolato nella tecnologia, che ha trasformato la propria vita in una serie di atti ludici, ha ucciso il bambino che era in lui nel momento in cui ha scelto, benché inconsciamente, di vivere in un mondo privo di avventura, di aleatorietà, in cui tutto è simulacro di altro e si basa sull’imitazione di qualcosa che non si vive. Dobbiamo ritrovare quel lato positivo del bambino che siamo stati per ricominciare ad esplorare e smettere di seguire il senso unico tracciato dalla tecnologia. La sicurezza che sembra darci è illusoria: tutta la vita è rischio, le scoperte implicano l’ignoto, occorre tornare ad abitare un tempo che non sia più solo lineare e sempre accelerato. Non è un caso che per i bambini non abbia significato l’espressione «guadagnare tempo»: loro vivono quasi al di fuori di esso. È necessario colonizzare la tecnica per evitare che essa colonizzi l’umano. Come? Riappropriandoci del nostro tempo e resistendo alla tentazione di cadere nella linearità transitiva, quella per cui facciamo sempre tutto in vista di qualcos’altro, di un obiettivo: per i bambini il mezzo e il fine coincidono, non sono separati, il cammino è tutto, mentre per certi adulti conta solo l’arrivo. Ecco, dobbiamo recuperare questo lato anti-utilitaristico dell’infanzia.
Le competenze
In conclusione, poiché intrecciata a doppio filo a tutto questo, vorrei condividere una brevissima riflessione su quella che oggi si chiama la «pedagogia delle competenze»: a mio avviso, insegnare gli strumenti utili ad andare sempre per la via retta è sbagliato e controproducente. Dobbiamo proteggere i bambini da questa specie di terrorismo dell’urgenza, di una male interpretata efficienza, ricettività: l’urgenza non è la risposta ai problemi, è il problema. Non riusciamo più ad abitare le nostre vite, siamo sempre proiettati verso altro: un altro tempo (il futuro), altri luoghi, altre persone che ci dicono chi dovremmo diventare. Bisognerebbe riprogettare l’educazione istituzionale, come pure quella in famiglia, in modo da tutelare i giovani nei confronti dell’esigenza di rapidità, linearità, transitività e dire «no, prendetevi il vostro tempo per sperimentare, per strutturarvi, fare esperienze, e così capire chi siete».