giovedì 14 settembre 2017

La Stampa 14.9.17
L’Europa non deve limitare la libertà di movimento
di Vladimiro Zagrebelsky

Il Regno Unito ha deciso con referendum di lasciare l’Unione europea, di cui è Stato membro fin dal 1973. La questione resta contrastata, non solo per il ridotto scarto di voti. Critiche al modo di gestire l’uscita sono rivolte al governo May dall’interno stesso del suo partito conservatore. La linea dei Laburisti è difficilmente identificabile. Le trattative con l’Unione non sembrano procedere utilmente. In questa situazione di stallo interviene ora l’ex-premier Blair, il quale rileva che motivo determinante del successo dei brexiters è stato il rifiuto dell’arrivo degli stranieri, siano essi provenienti da Paesi dell’Unione, siano invece di origine extra-comunitaria. Se questo è il motivo determinante per gli elettori favorevoli all’uscita, Blair e la sua fondazione propongono di rimuoverlo. Si tratterebbe di ottenere dall’Unione forti limitazioni alla libertà di circolazione, autorizzando il Regno Unito tra l’altro a condizionare l’arrivo di cittadini europei al possesso preventivo di un contratto di lavoro, a limitare il godimento di diritti sociali, a scegliere certe categorie di lavoratori necessari al Regno Unito, a indurre le Università britanniche ad applicare più elevati costi agli studenti europei e a introdurre una clausola per ammettere in situazioni eccezionali il blocco degli arrivi.
Rimossa la preoccupazione degli elettori favorevoli all’uscita dall’Unione, il Regno Unito potrebbe, secondo Blair, rimanere nell’area europea di libero scambio economico (secondo il prevalente desiderio degli operatori economici e finanziari britannici). Il peso politico di Blair e le sue relazioni consigliano di non sottovalutare l’iniziativa.
L’Unione europea non è solo un grande spazio di libera circolazione di merci, servizi e capitali. Non è soltanto un mercato comune. Lo sviluppo delle istituzioni europee ha ripreso il cuore del progetto politico dei fondatori, designando l’Unione nei trattati istitutivi come «uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone» e stabilendo che i cittadini degli Stati membri siano titolari anche della cittadinanza dell’Unione. La cittadinanza europea ha ancora contenuti concreti limitati, ma non avrebbe senso se non fosse accompagnata dal diritto di muoversi, trasferirsi, attraversare i vecchi confini, sentirsi a casa ovunque nel territorio dell’Unione. E infatti la libera circolazione delle persone nell’ambito dell’Unione è un elemento essenziale tra i principi fondativi, che si accompagnano storicamente alla progressiva armonizzazione dei diritti civili e sociali nell’area europea. Se all’origine delle istituzioni comuni europee si pensava soprattutto ad assicurare la libertà di movimento dei lavoratori, ora si tratta di una libertà che riguarda le persone in quanto tali. Lo scambio di studenti ne è importante aspetto. Recenti controlli dei movimenti interni all’Unione, motivati da esigenze di lotta al terrorismo e di controllo di migranti di provenienza extra-comunitaria, hanno natura eccezionale e temporanea e non mettono in discussione il principio della libertà di circolazione di cui sono titolari i cittadini europei. Il presidente Macron, pochi giorni orsono ha pronunciato, nel luogo stesso della democrazia ateniese, un forte discorso di rilancio e riforma dell’Unione. Egli ha richiamato la necessità di rivendicare la sovranità, da sviluppare «nell’Europa e dall’Europa», rifiutando di lasciare questa parola ai cosiddetti sovranisti statalisti. Il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza comporta la libertà di movimento, che rispecchia un evidente carattere della sovranità dell’Unione.
È naturalmente difficile prevedere se lo schema disegnato da Blair, se accettato dall’Unione, potrebbe superare l’esito del referendum britannico. Esso però implicherebbe la rinuncia a un caposaldo del sistema di norme e valori dell’Unione. Inoltre fornirebbe certo un argomento per altri Paesi membri dell’Unione, per ottenere per sé qualche cosa di simile, su questo o altri aspetti del diritto dell’Unione. I segnali di crisi e disunione sono già troppo forti, per fornire argomenti ai Paesi che lavorano contro l’Unione. Non si dà abbastanza peso alla costituzione di un sottogruppo organizzato di Paesi, quelli detti di Visegrad, che si contrappone all’Unione di cui fa parte. Non c’è, almeno in Italia, abbastanza allarme per le derive antidemocratiche evidenti in Paesi membri come la Polonia o l’Ungheria. Se si accettasse, per il Regno Unito, di rinunciare alla libertà di movimento delle persone, la frana del senso stesso del processo unitario europeo diverrebbe inarrestabile.
Il governo italiano, a differenza soprattutto dei governi tedesco e francese, è silente su troppi, difficili, ma ineludibili temi. Il governo ha una posizione o crede meglio rimanere assente? Nelle trattative con il Regno Unito occorre certo lasciar lavorare la Commissione europea e il suo negoziatore Michel Barnier, ma in generale su troppe questioni fondamentali per la vita dell’Unione il governo non si pronuncia. Prudente opportunismo, mancanza di idee? Blair, prima di render pubblica la sua proposta, ha consultato personalità europee. Dalla stampa britannica risulta abbia incontrato anche Sandro Gozi, sottosegretario con delega agli Affari europei. Sarebbe il caso di aprire un dibattito per capire quale sia la posizione del governo, su questo e su altri aspetti riguardanti la natura e l’avvenire dell’Unione.