giovedì 14 settembre 2017

il manifesto 14.9.17
Contro la propaganda fascista non serve un’altra legge
Antifa. La legge Fiano è aggiuntiva di norme già salde e efficaci. L’autore è lo stesso della legge sul negazionismo criticata dalla maggioranza degli storici italiani. Una battaglia politica e culturale, una costruzione laboriosa di egemonia sui valori dell’antifascismo, senza scorciatoie giudiziarie che possono rivelarsi un boomerang
di Gianpasquale Santomassimo

Negli scampoli di una legislatura particolarmente infelice un parlamento che rinuncia ad approvare una norma di elementare civiltà come lo ius soli trova il tempo per approvare – non sappiamo se in forma definitiva – la proposta di legge dell’onorevole Fiano.
Che amplia ed estende la norma già esistente del codice penale concernente «il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista». Il nuovo dispositivo promette reclusione da sei mesi a due anni per «chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità».
IMMAGINO che molti lettori di questo giornale accoglieranno istintivamente con favore un provvedimento di questo tipo. Ma qui vorrei sommessamente evidenziare le molte perplessità che la legge suscita. Ci si chiede se era davvero necessario questo provvedimento, in presenza di due solide leggi (Legge Scelba del 1952 e Legge Mancino del 1993) già esistenti sulla materia, ed è lecito e doveroso interrogarsi anche sulle implicazioni che sono insite nella disposizione complessiva, politica e culturale, di chi legifera su questo terreno.
LA LEGGE FIANO non è sostitutiva ma aggiuntiva, pretende di controllare ogni forma di espressione individuale, di pensiero o di gestualità, riconducibili al fascismo. L’autore è lo stesso personaggio che ci ha dato una legge discutibilissima e pericolosa sul «negazionismo», contro la quale si pronunciò la stragrande maggioranza degli storici italiani. Nella vaghezza di quel rinvio a «contenuti propri» (sui quali migliaia di interpreti in tutto il mondo dibattono ancora) sta tutta la sapienza dei legislatori che avevano già prodotto l’Italicum ed altre leggi incostituzionali.
LE CRONACHE giornalistiche parlano di saluti romani, bottiglie di vino, accendini e gadget vari: prendendo alla lettera la legge, dovremmo avere imponenti retate a Predappio, che sicuramente non vedremo. Si noti che l’art.1 della Legge Scelba proibiva già «manifestazioni esteriori di carattere fascista», ma la cosa era sfuggita.
E INFATTI di fronte alla vicenda inquietante di Chioggia il prefetto era intervenuto ordinando lo smantellamento di tutta la propagande fascista dal grottesco «Bagno Dux», a riprova del fatto che le leggi esistono e si possono applicare, senza inventarsene di nuove per esigenze propagandistiche, nei confronti di un elettorato negli ultimi tempi negletto e umiliato con stravolgimenti della Costituzione, per fortuna respinti al mittente dal voto popolare del 4 dicembre.
La pena prevista è aumentata di un terzo «se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici»: non solo quindi ingolfamento dei tribunali quindi, ma anche un massiccio apparato di controllo della rete, abbastanza irrealistico da realizzare e pericoloso nelle sue implicazioni.
MA PROPRIO dalla Costituzione bisognerebbe ripartire, senza dimenticare mai il valore universale e solenne dell’art.21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Così come l’art.18 garantisce la libertà di associazione, vietando però «le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare». Una eccezione, parziale e circoscritta, contenuta anche nella XIIma «disposizione transitoria» della Costituzione, che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Non si fa riferimento al fascismo in generale, ma a una specifica forma di partito, unico, armato e con vocazione totalitaria. A questo quadro di principi si richiamarono le leggi del ’52 e del ’93, e sulla loro base furono sciolti movimenti eversivi di estrema destra con carattere insurrezionale. Questo dovrebbe essere l’equilibrio da mantenere ad ogni costo.
SU QUESTO TERRENO nel corso della Prima Repubblica ci si mosse con estrema prudenza e senso di responsabilità, evitando di perseguire opinioni e comportamenti certamente esecrabili ma che rientravano nella sfera delle garanzie costituzionali.
E AFFIDANDO alla battaglia politica e culturale, alla costruzione laboriosa di egemonia e senso comune, l’impegno per affermare i valori dell’antifascismo, senza imboccare scorciatoie giudiziarie. I politici del tempo erano anche consapevoli che occorreva evitare precedenti molto pericolosi, che potevano aprirsi ad estensioni avventurose. Tanto per capirci, nella Germania Ovest di quel tempo era fuorilegge il partito comunista. Come nell’Europa dell’Est di oggi sono altre le simbologie proibite e perseguite.
Era una saggia preoccupazione che oggi non sembra più condivisa da una sinistra liberal che in Occidente tende a perseguire penalmente tutte le opinioni che contrastano con la sua visione del mondo, nella politica, nella biopolitica, nel costume. Senza rendersi conto che il vento può cambiare e si può rimanere a propria volta vittime di provvedimenti persecutori.