La Stampa 14.9.17
La mannaia dei bersaniani e dalemiani sulla manovra
di Marcello Sorgi
Si
annuncia più complicata del previsto la trattativa fra Gentiloni e la
sua maggioranza sulla legge di stabilità, delicata e forse ultima
scadenza della legislatura in via di chiusura. E non solo perché si
svolgerà in clima di campagna elettorale, né perché i tempi sono stretti
(entro fine mese il Senato deve approvare la correzione al Def, poi
restano un paio di settimane per definire i testi che il Parlamento deve
varare entro fine anno), e neppure perché i margini sono assai
limitati, come lo stesso premier e il ministro dell’Economia Padoan non
si stancano di dire.
La ragione vera per cui stavolta il passaggio
è più critico è che Mdp, la formazione bersanian-dalemiana fuoruscita
dal Pd, potrebbe decidere di non votare la manovra, al termine di una
trattativa usata per dimostrare che Gentiloni non vuole accettare le
richieste della sinistra e punta invece ad accontentare le istanze
rigoriste di Bruxelles. Non a caso ieri è partito il primo attacco di
Roberto Speranza contro il presidente della Commissione europea Juncker,
proprio nel giorno in cui aveva espresso, in termini molto elogiativi,
la sua gratitudine all’Italia per il contributo dato a cercare una
soluzione per il problema dell’immigrazione.
Se davvero, come
vuole D’Alema, ma non ancora tutto il gruppo degli scissionisti, Mdp
dovesse scegliere per il «no» alla manovra, dopo un tira e molla fatto
solo per dimostrare a Pisapia, al contrario più possibilista su una
soluzione negoziata, che un accordo è impossibile, a Gentiloni si
troverebbe a un bivio. Dovendo scegliere tra una crisi, che sarebbe
disastrosa, porterebbe il governo verso l’esercizio provvisorio di
bilancio, e pertanto, nelle condizioni attuali dell’Italia, sarebbe da
escludere a priori, o rivolgersi a Forza Italia per ottenere un aiuto
che difficilmente, in vista delle urne, il partito dell’ex-Cavaliere
potrebbe dare, o almeno un aiutino sottobanco, di quelli che tante volte
negli ultimi tempi si sono visti al Senato e hanno consentito di far
passare provvedimenti altrimenti destinati al fallimento.
Al di là
della maggior propensione di Gentiloni a trattare e dell’orientamento
finale che Bersani e D’Alema prenderanno non certo domani, colpisce
comunque la trasformazione del gruppo dell’ex-segretario del Pd e
dell’ex-presidente del consiglio (primo post-comunista ad arrivare a
Palazzo Chigi diciannove anni fa) in una sorta di Rifondazione-bis, sul
modello del partito di Bertinotti che, dopo qualche indugio, fece cadere
Prodi nel ’98, e mancò lo stesso obiettivo nel 2008 solo perché a
centrarlo arrivò prima Mastella.