giovedì 14 settembre 2017

La Stampa 14.9.17
Uomini che non accettano la nostra emancipazione
di Dacia Maraini

Stupri, violenze, femminicidi? Tutte reazioni all’emancipazione femminile: più le donne diventano libere e autonome, più provocano reazioni violente negli uomini che identificano la loro virilità nel possesso, nel dominio, nel potere.
C’è stato un rivolgimento dei ruoli della famiglia, la famiglia è cambiata, le donne hanno acquistato la capacità di scegliere per se stesse, di decidere della propria vita. Questo per molti uomini è insopportabile, diventano matti. Sono uomini apparentemente normali, bravi ragazzi, padri di famiglia, ma non reggono alla perdita del privilegio, del potere. Non reggono allo smacco, alla sconfitta. Non si uccide per amore, si uccide quando si perde qualcosa e non si sopporta di averla perduta.
In fondo, in altro ambito, pensiamo alle lotte terribili tra operai e proprietari, pensiamo alla canzone «Se potessi avere mille lire al mese», a quel tempo in cui lavorare otto ore al giorno era un miraggio. Quelle otto ore sono state una conquista che è costata tante vite. Perché anche lì, in un ambito diverso, era una questione di potere, di privilegio di una parte su un’altra parte.
Per accettare la volontà di autodeterminazione della donna, bisogna essere maturi, razionali, bisogna avere la capacità di adeguarsi, Non sempre gli uomini lo sanno fare. E hanno paura. La violenza nasce sempre dalla paura. La violenza non appartiene alle persone sicure, forti, armoniose, la paura appartiene agli insicuri, ai deboli, ai malati di nervi.
Prima dell’autonomia magari la donna odiava il marito, ma lo sopportava perché fuori dal matrimonio la donna semplicemente non esisteva. Non è che i sentimenti fossero diversi, ma nessuna osava ribellarsi. Magari aveva un amante, magari più di uno. Ma non rompeva il matrimonio. Pensiamo ad Anna Karenina, una donna che si separa dal marito ma poi si butta sotto un treno perché non può restare in vita, perché la società la ostracizza. Pensiamo a Effi Briest, il romanzo di Theodor Fontane, che sostanzialmente racconta la stessa storia.
Lo stupro poi è l’atto di violenza estremo. Simbolicamente è l’aggressione verso la sacralità del ventre della donna, dove nasce la vita, dove nasce il futuro. In guerra era lecito, faceva parte dei diritti del vincitore perché in questo modo si agiva sul futuro della generazione vinta. Tutti coloro che lo compiono, anche inconsapevolmente, fanno questo. Umiliare la donna nel suo potete di procreare.
La cosa che fa ridere - se non fosse tragica - è che tutti gli stupratori si difendono dicendo la stessa cosa, che la donna era consenziente. Se si vanno a studiare i verbali, il copione non cambia. È la loro unica difesa, soprattutto quando, come nel caso che ha visto coinvolti i due carabinieri, ci sono tracce biologiche di un rapporto fisico. Non possono dire che non è vero. Dicono che la donna ci stava. Perché nessuno dice di una persona rapinata che quella era consenziente? Basta pensarci, è la stessa cosa.
Testo raccolto da Laura Anello