La Stampa 13.9.17
E spunta il piano B: nuovo ricorso alla Consulta
Anche al Senato giù le soglie e no alle coalizioni
Il pool di giuristi rilancia: a gennaio sentenza della Corte per uniformare le regole
di Giuseppe Salvaggiulo
Non
è il decreto legge, osteggiato dai costituzionalisti e destinato a
infrangersi contro i dubbi del Quirinale, il piano B per superare lo
stallo parlamentare e rendere omogenee le leggi elettorali di Camera e
Senato. Ma un piano B esiste. Si basa su un forte presupposto
politico-istituzionale (i ripetuti e finora inascoltati appelli del
presidente della Repubblica) e su un solido impianto tecnico-giuridico,
un’ottantina di pagine riccamente argomentate. Chi l’ha studiato negli
ultimi due mesi e sta per renderlo pubblico lo definisce «via
costituzionale alla riforma», perché prevede un nuovo ricorso alla
Consulta. La Corte sarebbe investita esplicitamente della questione e
potrebbe agire chirurgicamente. L’eliminazione di alcune parole in otto
articoli della legge del Senato sarebbe sufficiente a uniformarla a
quella della Camera.
Il piano B ha anche una tempistica. Entro
questa settimana deposito della questione di incostituzionalità. Entro
il 15 ottobre ordinanza del tribunale che la solleva davanti alla
Consulta. Entro il 20 gennaio udienza alla Corte, con possibile
sentenza. L’effetto politico sarebbe duplice: paralizzare le velleità di
conclusione repentina della legislatura dopo la legge di bilancio;
puntare una pistola (carica) alla tempia del Parlamento, che in caso di
ulteriore inerzia sarebbe esautorato, per la terza volta in quattro
anni, dalla Consulta.
La procedura
Attualmente le due leggi
elettorali sono il frutto delle sentenze con cui la Corte ha sancito
l’incostituzionalità del Porcellum (2014) e dell’Italicum (2017). Dalla
prima sentenza residua la legge per il Senato, dalla seconda quella
della Camera. Le due leggi, così malnate, sono spurie sotto diversi
profili. In sintesi: alla Camera coalizioni vietate, al Senato permesse;
alla Camera premio di maggioranza alla lista che supera il 40%, Senato
senza premio; alla Camera soglia di sbarramento al 3%, al Senato al 3%
per le liste dentro una coalizione che supera il 20% e all’8% per le
liste solitarie; alla Camera capilista bloccati, al Senato preferenze
per tutti; alla Camera garanzia di rappresentanza di genere uomo-donna,
al Senato questione non regolata (la Consulta ha dato un’indicazione di
massima, mai applicata).
Le sentenze della Consulta erano nate dai
ricorsi di un pool di avvocati, coordinati dall’ex parlamentare
dell’Ulivo Felice Besostri. Sono un’ottantina in tutta Italia e tra il
2015 e il 2016 hanno avviato 23 cause civili in altrettanti tribunali,
invocando «la pienezza e la libertà del diritto di voto». Cinque giudici
hanno sollevato le questioni su cui la Consulta si è pronunciata a
gennaio.
Dopo la notifica ai tribunali, la procedura prevede che i
processi a monte ricomincino (il termine tecnico è riassunzione) in
vista della sentenza. Ciò è accaduto in questi mesi. A Messina, primo
tribunale a dubitare dell’Italicum, dopo un’udienza estiva la sentenza è
fissata per il 29 settembre. Ma l’avvocato ricorrente, Enzo Palumbo (ex
senatore del Partito Liberale ed ex membro del Csm) sta per giocare una
nuova carta. Depositerà nei prossimi giorni un’altra istanza, per
sollevare davanti alla Consulta cinque nuove questioni di
incostituzionalità delle due leggi spurie.
Il piano B, appunto.
Le
nuove questioni riguardano: soglia di accesso alla Camera, candidature
multiple alla Camera, soglie al Senato, vizio nel procedimento di
approvazione dell’Italicum. Ma è la quinta la più importante e
dirompente: la disomogeneità tra le leggi elettorali.
La stessa
Corte nella sentenza sull’Italicum scriveva che «la Costituzione, se non
impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento,
sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non
compromettere il corretto funzionamento della forma di governo
parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non ostacolino,
all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari
omogenee».
Esattamente il rischio dato dalle leggi spurie, cui il Parlamento non ha posto rimedio.
Non
solo. Nella stessa sentenza, la Corte tracciava le modalità tecniche
con cui eventualmente riproporre la questione della disomogeneità. La
strada che il pool di giuristi ha ora deciso di percorrere.
Le conseguenze
Se
il tribunale di Messina dovesse accogliere l’istanza e sollevare la
nuova questione costituzionale, la palla tornerebbe alla Consulta. Che
avrebbe in mano la pistola per sparare il colpo decisivo e rendere i
sistemi elettorali omogenei. La chiave è una norma del sistema del
Senato finora dimenticata: «Per tutto ciò che non è disciplinato dal
presente decreto si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni
del testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati».
Tanto basterebbe a eliminare anche per il Senato coalizioni e soglie di
accesso differenziate, introducendo capilista bloccati, preferenze di
genere e premio al 40%. E l’omogenità sarebbe cosa fatta.
Resta il
problema del premio di maggioranza: se lo prendono due liste diverse
alla Camera e al Senato? Questione delicata. Il pool di avvocati invoca
«uno slancio creativo»: se i vincitori sono diversi nei due rami del
Parlamento, i premi non si attribuiscono.