martedì 12 settembre 2017

La Stampa 12.9.17
“Mediterraneo tomba dei profughi”
Record di vittime nel Mediterraneo. Dall’inizio dell’anno, a livello globale 3741 persone sono morte nel tentativo di emigrare. Di queste, 2542 sono affogate davanti al Maghreb. L’allarme arriva dall’ultimo rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Il capo di Frontex: «Servono più accordi con i Paesi di provenienza». Giovedì a Bruxelles i ministri dell’Interno. A Tripoli cento guardacoste saranno addestrati dai Finanzieri.
Rapporto dell’Oim sui flussi: sbarchi dimezzati dal 2016, ma il numero di morti è rimasto lo stesso
di Marco Bresolin

Gli sbarchi diminuiscono, le tragedie continuano. Gli ultimi dati sui flussi migratori, visti nel loro complesso, sono drammatici. Perché se è vero che il numero di arrivi sulle coste europee del Mediterraneo si è dimezzato nei mesi di luglio e agosto rispetto al 2016 (da 52.220 si è scesi a 23.301), il numero di morti è rimasto praticamente identico (288 nel 2016 contro i 283 di quest’anno). Con un balzo ad agosto (151 morti nel 2017: nel 2016 furono 62), che contribuisce ad assegnare al Mare Nostrum il triste primato di rotta più pericolosa al mondo. 
Dall’inizio dell’anno, a livello globale, 3.741 persone sono morte nel tentativo di emigrare. Di queste, 2.542 sono state inghiottite dal Mediterraneo. Due su tre. Alle quali andrebbero aggiunti gli altri caduti sulla stessa rotta: 281 nei Paesi nordafricani, 147 nell’Africa Subsahariana e 156 nel Corno d’Africa. Queste le cifre accertate dall’Oim, L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ma in realtà potrebbero essere molti di più. 
Calano gli arrivi, ma non per questo va abbassata la guardia. Tra i governi proseguono le trattative per modificare il piano operativo della missione Triton: «Sarà pronto entro due mesi» annuncia il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, anche se è difficile aspettarsi grandi rivoluzioni nella parte che prevede gli sbarchi esclusivamente in Italia. E dopo il vertice a quattro di Parigi, giovedì toccherà ai ministri dell’Interno dei 28 sedersi attorno a un tavolo e trasformare in pratica le buone intenzioni. Entro venerdì i governi europei dovranno comunicare alla Commissione il loro contributo al piano di reinsediamenti, che (teoricamente) porterà in Europa quasi 40 mila rifugiati nel 2018 attraverso i corridoi umanitari. I soldi ci sono, gli Stati devono mettere a disposizione i posti (su base volontaria).
Al Consiglio Affari Interni, secondo la bozza preparata dalla presidenza estone, verrà dato un nuovo impulso al piano di addestramento della Guardia Costiera libica e sarà ribadita l’esigenza di migliorare le condizioni delle comunità locali che si trovano sulle rotte dei migranti. C’è poi la necessità di rafforzare i controlli al confine meridionale libico e di spingere il piano di rimpatri volontari assistiti da Libia e Niger. Serve anche un maggiore impegno nel Trust Fund per l’Africa, che ieri è finito nel mirino dell’Ong «Global Health Advocates». In un rapporto sull’uso dei fondi, ne viene criticata la cattiva gestione. Troppo improntata all’emergenza anziché ai programmi di lungo termine. «Una strategia - dicono - destinata a fallire». 
L’Europa cerca anche un piano comune sui rimpatri forzati degli «irregolari». Ieri Leggeri ha spiegato che il numero di quelli effettuati da Frontex è raddoppiato nei primi mesi del 2017: «Abbiamo organizzato 220 voli, per un totale di quasi 10 mila persone. In tutto il 2016 i voli furono 232 per 10.700 migranti». I rimpatri, però, sono possibili solo se esistono accordi di riammissione con i Paesi di origine. Giovedì i ministri discuteranno anche della necessità di utilizzare la leva dei visti - in senso restrittivo - con gli Stati che non collaborano.

La Stampa 12.9.17
Cento guardacoste di Tripoli
saranno addestrati dai Finanzieri
Mogherini: garantiranno anche il rispetto dei diritti umani
di Francesco Grignetti

Le critiche dell’Onu non scalfiscono i piani europei (di cui l’Italia è principale ispiratrice) e quindi sulla Guardia costiera libica si va avanti secondo programma. Nelle prossime settimane un centinaio di cadetti sarà ospite in una caserma italiana per il primo ciclo di istruzione a cura della missione europea Eunavformed-Sophia; a seguire, tra novembre e dicembre, quaranta di loro saranno a Gaeta, alla scuola di navigazione della Guardia di Finanza, per impratichirsi delle motovedette che l’Italia sta consegnando al governo di Tripoli.
Il ciclo di istruzione per i nuovi 100 cadetti della Guardia costiera libica ricalca un analogo corso per 93 cadetti, che sono stati addestrati nella primavera scorsa su navi militari italiane e inglesi. E a seguire, durante l’estate altri 40 hanno partecipato a corsi di formazione, parte in una base a Malta, parte in Grecia. Sono corsi di base per imparare i rudimenti della navigazione, le tecniche di avvicinamento e abbordaggio di uno scafo, le regole del diritto internazionale sul trattamento di migranti.
Il programma di far rinascere una Guardia costiera libica procede nonostante le critiche. L’idea di far fermare dai libici stessi i gommoni degli scafisti già sotto costa, piace molto ai governi europei (ieri Frontex ha certificato che gli sbarchi in Italia «a luglio sono diminuiti di oltre il 50% e ad agosto sono stati ulteriormente dimezzati rispetto al mese precedente») e anche alle autorità di Bruxelles. Di qui una risposta brusca della portavoce di Federica Mogherini all’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, che era stato assai critico nei giorni scorsi: «In Libia - ha puntualizzato la portavoce - lavoriamo sul terreno con l’Alto commissariato per i rifugiati e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni per fare in modo che i migranti abbiano cure mediche» e «dialoghiamo con le autorità libiche affinché abbiano accesso ai centri di detenzione».
Il commissario Al Hussein era stato drastico sulla Guardia costiera libica: «Come le milizie sulla costa, anche le guardie costiere a volte picchiano, rapinano e persino sparano contro i migranti che intercettano. Ma alcune autorità europee minimizzano». Critiche respinte. La portavoce di Mogherini conferma anzi che si andrà avanti. «Siamo impegnati nella formazione di un centinaio di guardacoste libiche per fare in modo che gestiscano e accompagnino i migranti nel rispetto dei diritti umani». A breve saranno presentati anche i dettagli del meccanismo di monitoraggio sull’attività del personale addestrato con soldi europei.

Il Fatto 12.9.17
Così Francesco ha ordinato di sostenere Minniti
Mediazioni - Dopo le critiche interne (tra cui “Avvenire”), l’intervento di Parolin e Becciu
Così Francesco ha ordinato di sostenere Minniti
di Fabrizio d’Esposito

Non solo più accoglienza e basta. Ma “prudenza” e integrazione.
La linea del realismo di Marco Minniti “benedetta” ieri da papa Bergoglio, il pontefice più amato e citato dalla sinistra da mezzo secolo a questa parte, è sintetizzata così dalle ultime righe dell’editoriale di Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, l’organo della Santa Sede: “Un nodo arduo (la questione migratoria, ndr), affrontato con coraggio e umanità in paesi come la Grecia e l’Italia, esplicitamente ringraziati dal Pontefice. Alla ricerca di un punto di equilibrio tra accoglienza, integrazione e superamento delle cause alla radice di un fenomeno mondiale ed epocale”. Ed è in nome di questo “punto di equilibrio” che Francesco segna un nuovo confine nella Chiesa e tra i cattolici sui migranti. E lo fa – per decrittare la portata politica della sua risposta durante il volo di ritorno dalla Colombia – da posizioni opposte a quelle che avevano accomunato quotidiani come Avvenire e Manifesto contro il cosiddetto codice Minniti.
Proprio il giornale della Cei, la conferenza dei vescovi italiani, aveva titolato polemicamente agli inizi di agosto sul “reato umanitario” delle Ong, contro la svolta del ministro dell’Interno. Fu questo, esattamente un mese fa, il preludio alla svolta bergogliana, preparata dal segretario di Stato vaticano Pietro Parolin e dal nuovo presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, entrambi cardinali. Non solo. Il 7 agosto Minniti arrivò a minacciare la rottura e quindi le dimissioni dal governo per lo scontro con il ministro cattolico Graziano Delrio. Il titolare del Viminale disertò pure il consiglio dei ministri e alcuni appiccicarono, anche in maniera polemica, l’etichetta di “bergogliano” a Delrio. Contro Minniti si esposero criticamente la Caritas e la Comunità di Sant’Egidio, associazioni “pesantissime” nell’impegno umanitario della Chiesa.
Incline per cultura politica alla diplomazia “riservata”, il ministro dell’Interno aveva però chiesto e ottenuto alcuni incontri in Vaticano per chiarire il senso della sua linea. Ricostruzioni ufficiose hanno riferito di colloqui con lo stesso Parolin e con monsignor Angelo Becciu, che nel governo vaticano si occupa di “affari generali” ed è una sorta di omologo di Minniti. E così già il 9 agosto Parolin anticipava quello che poi è stato il senso dell’uscita francescana di ieri: “Occorre compiere ogni sforzo per coniugare il dovere primario dell’accoglienza con quello di un’incisiva e coordinata azione volta a regolare il fenomeno, in modo che la generosa accoglienza possa trasformarsi in integrazione senza generare gravi squilibri”.
Un mese prima, a metà luglio, sempre Parolin aveva “corretto” monsignor Nunzio Galantino, numero due della Cei. Il secondo aveva attaccato il segretario del Pd, Matteo Renzi, sull’ormai nota frase dell’“aiutiamoli a casa loro” e Parolin aveva invece trovato “valido” le parole renziane. Per vari osservatori, poi, lo scontro Galantino-Parolin sui migranti sarebbe stato un presunto segno della frattura tra la segreteria di Stato e il papa, considerato l’ispiratore di Galantino. Addirittura qualcuno (Antonio Socci su Libero) aveva ravvisato in questa divisione il disegno curiale di candidare Parolin al prossimo Conclave. E ora, dopo il Bergoglio realista di ieri?
Francesco ha peraltro confermato un’altra indiscrezione che ha tenuto banco in questi mesi: un colloquio “segreto” in Vaticano con il premier Paolo Gentiloni. Ha però precisato, il pontefice argentino, che l’incontro risale a prima dei “fatti” sui migranti e si è parlato “d’altro”. In ogni caso durante l’estate. Per l’occasione i retroscenisti esperti di cose vaticane scrissero di un patto sullo ius soli.

Repubblica 12.9.17
Nel nostro Paese si registrano 11 denunce ogni giorno, quattromila l’anno mentre in Germania ci sono 27mila casi
Emergenza stupri
In Italia meno che in Europa Gli esperti: il sommerso fa paura
Il sociologo Colombo: “Non emergono le violenze che una donna subisce dentro casa” “Nei paesi nordici sono più propense a denunciare perché hanno più supporto”
di Vladimiro Polchi

ROMA. Quasi trecento violenze sessuali al giorno, più di centomila ogni anno. La piaga degli stupri colpisce tutta Europa: se in Italia dopo gli ultimi fatti di cronaca è scattato l’allarme, il resto del continente non se la passa affatto meglio. Qualche numero aiuta a capire: due anni fa in Germania sono stati denunciati oltre 27mila casi di violenza sessuale, quasi 20mila in Francia. E in Italia? Quattromila. «Ma attenzione — avvertono gli esperti — questo non vuole dire affatto che le violenze reali nel nostro Paese siano meno che altrove: è infatti il sommerso a far paura».
In Italia si registrano mediamente undici denunce di stupro ogni giorno, 4mila l’anno. Con un lieve calo nel corso del tempo. Anche gli ultimissimi dati forniti dal Viminale fotografano una diminuzione: le violenze sessuali tra gennaio e luglio 2017 sono state 2.333, contro le 2.345 denunciate nello stesso periodo dell’anno scorso. Una tendenza confermata dal resto d’Europa. L’Eurostat infatti registra un calo delle denunce: dalle 120mila del 2008 alle 107mila del 2015. A stupire sono i dati dei singoli Paesi. Si scopre così che, pur considerando la sua popolazione di 82 milioni di abitanti, la Germania registra la cifra shock di 27.243 stupri denunciati in un anno. Una classifica della violenza, in cui spicca anche la posizione della Francia con 19.985 casi nel 2015 e della Svezia con ben 11.774. In Inghilterra e Galles nel 2014 erano state addirittura 35mila le violenze sessuali denunciate alla polizia.
Ma i dati tradiscono la realtà. «Il numero degli stupri denunciati in Italia è decisamente più basso rispetto alla situazione reale — avverte Asher Colombo, sociologo all’università di Bologna — basta leggere l’ultima indagine a campione effettuata dall’Istat. Da lì risulta che sul totale delle violenze dichiarate dalle donne, le denunce effettive sono state molto meno della metà ». Insomma, gli esperti mettono in guardia dal ragionare solo sulla base delle denunce alla polizia. «Le violenze in famiglia — aggiunge Colombo — emergono molto raramente, per la maggiore difficoltà delle donne nel denunciare il partner, ma anche perché spesso la vittima neppure riesce a identificare come violenza quello che subisce tra le mura di casa». Quanto ai confronti internazionali, il dato è ancora più incerto. «Paragonare un Paese con un altro è quasi impossibile — spiega il sociologo — perché le stesse fattispecie penali che inquadrano il reato sono diverse e dunque diversi sono i risultati finali». Non solo.
Il fatto che in uno Stato ci siano più denunce non vuol dire per forza che ci siano più violenze sessuali che altrove: «Può accadere che in alcuni Paesi, come quelli nordici — sostiene Colombo — le donne siano più pronte a denunciare per cultura o anche solo per maggiore supporto, come la presenza capillare di centri antiviolenza o una migliore efficacia degli strumenti legislativi».

Il Fatto 12.9.17
Caso Shalabayeva, ecco le divergenze tra i superpoliziotti
Accusati di sequestro - Oggi udienza preliminare. Cortese a verbale: “Non mi occupai dell’espulsione”. Improta: “Trattenerla era dovuto”
Caso Shalabayeva, ecco le divergenze tra i superpoliziotti
di Antonio Massari

Nessun ruolo nell’espulsione di Alma Shalabayeva. L’attuale questore di Palermo, Renato Cortese, che all’epoca dei fatti guidava la Squadra Mobile di Roma, rispedisce al mittente il contenuto di un appunto secondo il quale, il 29 maggio 2013, il suo ufficio si sarebbe occupato del trattenimento e dell’espulsione della moglie di Muhtar Ablyazov, il dissidente kazako oggi rifugiato in Francia. Riepiloghiamo. Durante la perquisizione del 29 maggio 2013, nella sua villa a Casal Palocco a Roma, la donna esibisce un passaporto centrafricano considerato falso. Viene trasferita in un Centro d’identificazione ed espulsione e, di lì a poco, dopo un’udienza dinanzi al giudice di pace, accompagnata su un aereo messo a disposizione dei kazaki per essere espulsa. Espulsione poi revocata. Alla vigilia dell’udienza preliminare sul caso Shalabayeva, che stamattina a Perugia vede Cortese e il questore di Rimini Maurizio Improta, allora capo dell’Ufficio immigrazione di Roma, accusati di sequestro di persona, il Fatto rivela ulteriori dettagli delle indagini.
“Prendo atto – dice Cortese il 9 gennaio al procuratore aggiunto Donatella Duchini e al pm Massimo Casucci – che risulta un appunto dell’Ufficio Immigrazione al Cie, nel quale si dà atto della necessità del trattenimento della signora Shalabayeva, d’intesa con la Squadra Mobile e la Digos”. E precisa: “Non ho mai interloquito con il dottor Improta sul trattenimento della signora Shalabayeva, né ho mai palesato la necessità del trattenimento”. Come dire: l’appunto non rispecchia la realtà. Almeno in apparenza, considerato che Improta, nei suoi tre interrogatori, ha sempre sostenuto di aver tenuto Cortese al corrente di tutto, le due versioni sembrano contraddirsi. A meno che Cortese – che in altri punti dell’interrogatorio spiega di aver parlato con Improta di alcuni passaggi dell’espulsione – non si riferisca solo a comunicazioni formali. In un altro passaggio infatti dichiara: “Il 31 maggio 2013 … ricevetti una chiamata dal Procuratore Giuseppe Pignatone, che mi chiese se la Questura stava procedendo a una espulsione. Io ho inteso immediatamente che si stava riferendo all’espulsione della Shalabayeva, avendo parlato della vicenda ripetutamente con Improta…”.
Se si tratti di una divergenza sostanziale oppure ininfluente lo stabilirà il giudice che dovrà decidere sul rinvio a giudizio dei due funzionari, di cinque poliziotti e una giudice di pace. Di certo, la frase di Cortese – “non ho mai interloquito con Improta sul trattenimento” – nega qualsiasi sua responsabilità nell’espulsione e, di conseguenza, sul presunto sequestro.
Improta al Fatto dichiara: “La mia versione è nei verbali d’interrogatorio”. Confermando quindi d’aver tenuto Cortese al corrente. E ribadisce di non aver firmato un solo atto amministrativo nell’iter dell’espusione. Riguardo all’appunto sulla collaborazione con la Mobile commenta: “Non l’ho mai letto neanche io: era un trattenimento che seguiva una procedura automatica. Ovvero alla denuncia della stessa Squadra mobile. In assenza di visto e documenti validi, in presenza di un documento falso e false generalità, il trattenimento è obbligatorio”.
Riguardo all’assenza di comunicazioni formali con Cortese sul trattenimento e l’espulsione, osserva: “È logico, perché l’ufficio di polizia giudiziaria non ha titolo per interloquire con l’ufficio immigrazione su una procedura di espulsione”. Cortese conferma però ai pm di essersi comunque occupato di un atto strettamente legato all’espulsione: l’affidamento della figlia minorenne – “avvenuto su disposizione del Tribunale dei minori”, precisa Improta – di Shalabayeva. “Quando Improta mi chiese di far accompagnare la bambina all’Ufficio Immigrazione e poi a Ciampino – spiega ai pm Cortese – non feci questioni perché ancora avevo del personale nella villa di Casal Palocco. Era un aiuto materiale: le circolari lo prevedono”. “Nessuno – continua Cortese – mi riferì delle modalità d’espulsione con un aereo noleggiato dall’ambasciata kazaka”. “Neanche io lo sapevo”, precisa Improta.

Il Fatto 12.9.17
Riforma Boschi e Italicum, non si rassegnano
di Gianfranco Pasquino

Gli sconfitti del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 non si sono ancora rassegnati. Non riescono ancora a farsene una ragione poiché continuano a ripetere argomentazioni infondate e sbagliate. Grave per i politici, la ripetitività di errori è gravissima per i professori, giuristi o politologi che siano. Sul Corriere della Sera Sabino Cassese esprime il suo rimpianto per il non-superamento del bicameralismo (che, comunque, nella riforma Renzi-Boschi era soltanto parziale) poiché obbliga a una “defatigante navetta”.
Non cita nessun dato su quante leggi siano effettivamente sottoposte alla navetta, sembra non più del 10%, e non si chiede se la fatica sia davvero un prodotto istituzionale del bicameralismo paritario italiano o dell’incapacità dei parlamentari e dei governi di fare leggi tecnicamente impeccabili, quindi meno faticose da approvare, oppure, ancora, se governi e parlamentari abbiano legittime differenze di opinioni su materie complicate, ma qualche volta non intendano altresì perseguire obiettivi politici contrastanti. Comunque, i dati comparati continuano a dare conforto a chi dice che, nonostante tutto, la produttività del Parlamento italiano non sfigura affatto a confronto con quella dei parlamenti dei maggiori Stati europei: Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna. Nessuno, poi, credo neanche Cassese, sarebbe in grado di sostenere con certezza che le procedure previste nella riforma avrebbero accorciato i tempi di approvazione, ridotti i conflitti fra le due Camere e, meno che mai, prodotto leggi tecnicamente migliori. Più volte, non da solo, Mauro Calise ha sostenuto che solo un governo forte, identificato con quello guidato da Matteo Renzi, risolverebbe tutti questi problemi, e altri ancora. Non ci ha mai detto con quali meccanismi istituzionali creare un governo forte, ma ha sempre affidato questo compito erculeo alla legge elettorale. Lunedì ne Il Mattino di Napoli ha ribadito la sua fiducia nelle virtù taumaturgiche del mai “provato” Italicum. Lo cito: “Avevamo miracolosamente partorito una legge maggioritaria …. senza la quale in Europa nessuno è in grado di formare un governo”. Come ho avuto più volte modo di segnalare, l’Italicum come il Porcellum non era una legge maggioritaria, ma proporzionale con premio di maggioranza. Con il Porcellum nel 2008 più dell’80% dei seggi furono attribuiti con metodo proporzionale; nel 2013 si scese a poco più di 70%. L’Italicum, non “miracolosamente partorito”, ma imposto con voto di fiducia, non avrebbe cambiato queste percentuali. Quanto alla formazione dei governi, tutti i capi dei partiti europei hanno saputo formare governi nei e con i loro Parlamenti eletti con leggi proporzionali. Tutte le democrazie parlamentari europee hanno sistemi elettorali proporzionali in vigore da un centinaio d’anni (la Germania dal 1949). Nessuno di quei sistemi ha premi di maggioranza. Tutte le democrazie parlamentari hanno governi di coalizione.
Elementari esercizi di fact-checking che anche un politologo alle prime armi dovrebbe saper fare, anzi avrebbe il dovere di fare, smentiscono le due affermazioni portanti di Calise. C’è di peggio, perché Calise chiama in ballo Macron sostenendo che la sua ampia maggioranza parlamentare discende dal sistema maggioritario. Però, il doppio turno francese in collegi uninominali non ha nulla in comune né con il Porcellum né con l’Italicum le cui liste bloccate portano a parlamentari nominati. Inoltre, il modello francese dà vita a una democrazia semipresidenziale che non ha nulla a che vedere con i premierati forti vagheggiati, ma non messi su carta, dai renziani né, tantomeno, con il cosiddetto “sindaco d’Italia”. Il paragone di Calise è tanto sbagliato quanto manipolatorio. Non serve né a riabilitare riforme malfatte né a delineare nessuna accettabile riforma futura.

Il Fatto 12.9.17
Larghe Intese
Sicilia, la legge pro-abusi approvata all’unanimità
La Regione non avrà più poteri sulle demolizioni: tutti a favore, dal Pd al M5S
Sicilia, la legge pro-abusi approvata all’unanimità
di Giuseppe Lo Bianco

Come per i “saldi di fine stagione”, il governo Crocetta chiude la legislatura con un regalo non solo ai proprietari di immobili abusivi, ma anche a chi è chiamato a demolire, segnatamente le burocrazie regionali e comunali, ora sollevate da qualunque responsabilità da una norma di poche parole che ha l’effetto di un salvacondotto totale per i funzionari pubblici siciliani: “Limitatamente agli interventi sostitutivi disposti dall’assessorato Territorio e ambiente… nei confronti delle amministrazioni comunali inadempienti, devono intendersi riferiti esclusivamente agli organi di governo dell’ente locale”.
Un apparente controsenso perché sindaco, Giunta e consiglio comunale non hanno alcuna competenza formale nel dare il via libera alle demolizioni, compito che tocca appunto alla burocrazia, adesso del tutto de-responsabilizzata da quelle poche righe su un tema che infiamma la campagna elettorale nell’isola con lo scontro tra Pd e 5 Stelle sul cosiddetto “abusivismo di necessità”: protetto dai grillini e consacrato nel regolamento del sindaco di Bagheria, Patrizio Cinque, indicato come modello dal candidato governatore Giancarlo Cancelleri.
Nell’isola degli abusivi, in cui l’80 per cento dei Comuni è inadempiente, con migliaia di ordinanze di demolizione ineseguite, a “salvare” i funzionari regionali e comunali dall’onere dei controlli (e delle responsabilità) ci ha pensato l’assessore regionale al Territorio e ambiente Maurizio Croce, che il 27 giugno scorso ha presentato (e illustrato) l’emendamento 73 R ai sette deputati della IV commissione Territorio e Ambiente dell’Ars che lo hanno votato all’unanimità: sono la presidente Mariella Maggio (Ex Pd, ora Mdp) Giuseppe Laccoto e Valeria Sudano (Pd) Pietro Alongi (Alternativa Popolare di Alfano), Totò Lentini (Gruppo Misto) e i due 5 Stelle, Gianina Ciancio e Stefano Zito.
Stranamente, o forse no, la norma non è poi finita nel fascicolo degli emendamenti ma è stata presentata “sotto traccia” direttamente nell’aula dell’Assemblea regionale siciliana e votata in un paio di minuti durante una maratona da 48 ore di votazioni continue col resto del “Collegato” alla Finanziaria regionale lo scorso 9 agosto, peraltro con una bizzarra tecnica di voto (detta per “alzata”, ci torneremo).
E così il segnale agostano arrivato dall’Ars, nascosto tra le righe di un emendamento sconosciuto persino ai deputati più attenti, è stato quello di una “via di fuga” dalle responsabilità di vigilanza sulle demolizioni scaricate così sulle spalle delle Procure.
Dal 25 agosto, data della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana dell’articolo 49 del provvedimento, se entro 90 giorni il proprietario di un immobile abusivo non obbedisce, demolendo, all’ordine della Procura, la palla passa al Comune e poi torna all’ufficio del Pm: zero competenze per la burocrazia regionale, prima obbligata a mandare i “commissari ad acta”. “È una disposizione che indebolisce i poteri di vigilanza – dice Giuseppe La Greca, magistrato del Tar ed esperto di normativa edilizia – Non mi sembra che la Sicilia ne avesse bisogno”.
Una mossa disperata, per la deputata regionale Claudia Mannino, grillina ora nel Gruppo Misto, dopo essere inciampata nell’inchiesta sulle “firme false”: “È una chiara risposta alla legge nazionale sulle demolizioni, che sta per essere approvata definitivamente dalla Camera dopo il passaggio in Senato del luglio scorso. La norma fa in modo che la Regione si lavi le mani, l’Ars non si può permettere di fare lo scarica barile sulle Procure, producendosi in un nuovo ‘aiutino’ per gli abusivi’’. Infine la stoccata agli ex compagni del Movimento: “Oltre all’attività pro-abusivi della maggioranza a sorprendere è anche la totale assenza di vigilanza da parte dell’opposizione, che col suo silenzio rinuncia a fare il suo mestiere”.
Questa leggina, peraltro, è come spesso capita senza padre: le uniche firme sono quelle del relatore Vincenzo Vinciullo (Ap), di Crocetta e dell’assessore al Bilancio Baccei in calce al testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Si sa, lo dicono i resoconti, che l’emendamento arriva “dalla commissione Ambiente”, ma non si sa chi l’abbia votato. Il presidente Ardizzone l’ha messo in votazione in aula con questo metodo: “Chi è favorevole resti seduto; chi è contrario si alzi”. Risultato: “È approvato”.

Repubblica 12.9.17
Valeria Fedeli: subito una commissione per stabilire come usarli
Per Natale chiuderemo il contratto dei prof
La svolta della ministra “Smartphone in aula dico sì, sono un aiuto”
di Corrado Zunino

ROMA. Ministra Fedeli, nel primo giorno di scuola li ha visti tutti quei ragazzi che entrano in classe con il loro smartphone?
«Li vedo e li frequento, i ragazzi. E so che non si può continuare a separare il loro mondo, quello fuori, dal mondo della scuola».
Quindi?
«Da venerdì prossimo una commissione ministeriale s’insedierà per costruire le linee guida dell’utilizzo dello smartphone in aula. Entro breve tempo avrò le risposte e le passerò con una circolare agli istituti».
Cosa ne pensa dello smartphone in mano a un tredicenne?
«È uno strumento che facilita l’apprendimento, una straordinaria opportunità che deve essere governata. Se lasci un ragazzo solo con un tablet in mano è probabile che non impari nulla, che s’imbatta in fake news e scopra il cyberbullismo. Questo vale anche a casa. Se guidato da un insegnante preparato, e da genitori consapevoli, quel ragazzo può imparare cose importanti attraverso un media che gli è familiare: internet. Quello che autorizzeremo non sarà un telefono con cui gli studenti si faranno i fatti loro, sarà un nuovo strumento didattico ».
Dice che frequenta gli adolescenti, ministra, ma li conosce? Per l’Ocse il 70 per cento dei nostri ragazzi affronterà l’anno scolastico con ansia.
«Ne ho preso atto e sull’adolescenza ho creato uno dei tre gruppi di lavoro interni. Stanno incontrando associazioni e psicologi, ad ottobre organizzeranno una due giorni internazionale dedicata. Gli insegnanti, in classe, devono coinvolgerli e appassionarli. Un ragazzo può sbagliare, ma deve sapere che non è a scuola per essere giudicato, piuttosto aiutato a superare il suo limite. E deve riscoprire, in questo mondo, la qualità delle relazioni umane».
Di nuovo la ministra buonista.
Gli studenti di Terza media possono accedere all’esame «anche se mancano i livelli di approfondimento», dice una delle sue deleghe.
«Lo sa che in Consiglio dei ministri volevano che mettessi per iscritto “vietato bocciare”, vietato per legge. Ho tenuto, sono rigorosa, voglio studenti preparati. Ma c’è chi apprende in tre minuti e chi in una settimana: la scuola deve farsene carico e cercare di portare avanti tutta la classe. L’esame di Terza media sarà più leggero, non più facile».
Si studia poco il Novecento.
Storia, Letteratura. Male e velocemente la cultura del Dopoguerra.
«Nel programma ministeriale c’è tutto il Novecento e ogni docente potrebbe farlo in modo completo. Autori come Grazia Deledda e Giorgio Caproni vanno fatti riemergere. Due giorni dopo che è andato in pensione ho chiamato Luca Serianni, il grande italianista della Sapienza. Gli ho chiesto di aiutarci a vivificare lo studio dell’italiano».
Come è iniziato l’anno scolastico 2017-2018, ministra?
«Non ho ricevuto una segnalazione negativa. Se i prossimi tre giorni saranno così potrete cancellare la parola “caos” dai vostri titoli sulla scuola. Guardi le carte, mi hanno risposto diciannove direttori degli uffici scolastici regionali su venti: tutte le cattedre sono state assegnate, 720mila insegnanti di ruolo e 85mila supplenti. Sono ancora troppi, ma l’anno scorso erano oltre centomila e in questa stagione saranno certi da settembre a giugno. Ne sono orgogliosa e ringrazio i sindacati che hanno aiutato questo processo».
Il contratto della scuola e gli scatti d’anzianità per i docenti universitari?
«Entro metà dicembre chiudiamo uno e l’altro, con la Legge di bilancio. Gli insegnanti scolastici dopo sette anni avranno un aumento medio di 85 euro lordi, che potrà salire per chi ha anzianità e ruoli. Nella contrattazione proporremo premi per i docenti che lavorano sul sostegno, oggi ne mancano 9.949, nelle scuole di frontiera, nell’educazione per gli adulti e per la continuità didattica in generale. Il centro della scuola restano gli studenti».

Il Fatto 12.9.17
Scuola, così si cambia: come sopravvivere al ritorno tra i banchi
di Virginia Della Sala

Pochi interventi ma chiari: l’anno scolastico inizia con cambiamenti decisivi e snodi nevralgici per tutti, dagli alunni ai docenti, passando per i genitori e i dirigenti. Per essere sicuri di non perdersi nulla, ecco di seguito tutte le novità. I numeri, i problemi,le modifiche e le innovazioni, per capire che direzione sta prendendo la scuola che verrà.
Quanti e quando.Sono 8,6 milioni gli studenti che da ieri hanno ripreso le lezioni. La data della prima campanella varia di regione in regione e c’è chi rientrerà in classe anche venerdì. Apripista, la provincia di Bolzano: gli alunni hanno iniziato il 5 settembre. Le scuole possono decidere di recuperare i giorni di vacanza durante l’anno.
Il calo (continuo). Nel dettaglio, gli iscritti alle sole scuole statali quest’anno sono 7.757.849, lo scorso anno erano 7.816.408 (58mila circa in più). Il decremento più consistente è al Sud: 13.915 in meno in Campania, 12.141 in Sicilia, 10.106 in Puglia. Un calo che si registra da quattro anni a causa della regressione demografica e della dispersione scolastica (circa 50mila studenti di medie e superiori ogni anno).
I vaccini. Da quest’anno sono obbligatorie dieci vaccinazioni, altrimenti non si può accedere alle scuole materne e ai nidi. Per la scuola dell’obbligo è prevista una sanzione amministrativa che va dai 100 ai 500 euro. Entro il 31 ottobre va presentato il certificato o un’attestazione vaccinale (rilasciati dall’Asl) o l’autocertificazione o la prova della prenotazione del vaccino. Ci sarà tempo fino al 10 marzo 2018 per presentare i documenti ufficiali. L’autocertificazione è considerata documento ufficiale e quindi, in caso di false dichiarazioni è soggetto alle sanzioni previste dal codice penale.
I nuovi esami. Cambiano già quest’anno per chi frequenta la terza media, l’anno prossimo per la maturità. Alle medie, le prove scritte scenderanno da cinque a tre (italiano, matematica e lingua straniera) e ci sarà il colloquio orale. La valutazione del percorso scolastico avrà maggiore peso. Resta il test Invalsi (la prova nazionale standardizzata), ma si svolgerà nel corso dell’anno e includerà anche inglese.
Liceo breve. Chi frequenta l’ultimo anno delle scuole medie può invece iniziare a pensare alla possibilità di iscriversi a uno degli istituti che dall’anno prossimo sperimenteranno il percorso di quattro anni, con un numero maggiore di ore giornaliere e – secondo le indicazioni del ministero – con metodi di insegnamento che dovrebbero colmare il gap orario. Dal 2018 partirà una sperimentazione nazionale in 100 classi, tra licei e istituti tecnici. Le scuole interessate possono fare richiesta dall’1 al 30 settembre di quest’anno.
Smartphone.Dal 2007, le regole scolastiche prevedono che sia vietato in qualsiasi caso, tranne che per motivi d’emergenza. Il ministero ha però istituito un gruppo di lavoro per modificarlo: gli esperti si riuniranno il 15 settembre e, entro 45 giorni, dovranno comunicare nuove linee guida. La sfida dovrebbe essere riuscire a includerli nella formazione senza che diventino fonte di distrazione.
Cyberbullismo.È il primo anno della legge per prevenire il fenomeno. In ogni istituto sarà individuato, tra i professori, un referente per le iniziative. A lui si potranno denunciare episodi di bullismo e cyberbullismo e al preside (ammesso che sia presente) sarà demandato il compito di denunciare alle autorità i casi che costituiscono reato e di coordinarsi con la Polizia e le associazioni del territorio per promuovere percorsi di educazione alla legalità.
Alternanza. Chi ha figli che frequentano gli ultimi tre anni delle superiori, quest’anno li vedrà di certo partecipare all’alternanza scuola lavoro, che entra a pieno regime. Ci saranno ore di formazione e di pratica in aziende: si potrebbe finire tanto da Mc Donald’s o da Zara quanto a Intesa San Paolo, Ibm o a Poste Italiane. Bisognerà vigilare sul rischio sfruttamento. La carenza di aziende disposte ad accogliere gli studenti potrebbe poi rendere complicato il regolare svolgimento delle attività. “Ci sarà una carta dei diritti e dei doveri”, ha detto ieri la ministra dell’istruzione, Valeria Fedeli. Sul sito del Miur ci sarà una piattaforma per segnalare ciò che non funziona.
Supplenti.Sempre la ministra ha rassicurato: tutte le cattedre sono coperte. Sì, ma da chi? In migliaia di casi, da docenti che resteranno per un solo anno. Ci saranno almeno 100 mila supplenti, secondo le stime dei sindacati, e le cattedre saranno vuote soprattutto al Nord per i professori di matematica, di sostegno e di lingue.
Dirigenti.Se invece dovesse capitare di dover parlare con il preside, trovarlo in sede potrebbe essere un problema. Anche se sembra essere imminente la pubblicazione del bando di concorso per 2.000 post da dirigente scolastico, fino al prossimo anno non si riusciranno a coprire i posti scoperti. Ancora ricognizione sindacale: circa 1.700 istituti saranno assegnati a un dirigente non di ruolo. Questo significa che uno stesso preside dovrà gestire più scuole e, per ogni scuola, più plessi. Magari anche molto distanti.
D’estate. Questo è l’anno delle scuole aperte d’estate, iniziativa slittata l’anno scorso per un ritardo nella pubblicazione del bando. Lo stanziamento c’è (187 milioni di euro) e sono 4.633 gli istituti ammessi al progetto. Ancora non si sa se saranno i docenti a coprire le ore, ma sono state ipotizzate attività con associazioni e soggetti del terzo settore.
E i docenti?Per i disagi degli aspiranti, si può leggere il pezzo di Filippomaria Pontani che inizia a pagina 15. Gli altri dovranno aspettare il rinnovo del contratto nazionale e la legge di Bilancio: fino ad allora, restano loro gli stipendi più bassi d’Europa (circa 1200 euro netti almese) e una perdita salariale media di 12mila euro per il blocco degli stipendi che dura dal 2009.

Il Fatto 12.9.17
Caro-libri, che stangata Il “bonus”? Pochi soldi: li ha tagliati il governo
di Lorenzo Giarelli

Con l’inizio delle scuole torna anche un vecchio incubo delle famiglie, che ogni anno devono mettere in conto centinaia di euro di spesa in previsione dell’anno scolastico. Alle decine di testi da acquistare si aggiungono zaini, astucci, quaderni e grembiuli, oltre al materiale necessario per le singole materie. A fare i conti in tasca alle famiglie ci ha pensato l’Osservatorio Nazionale Federconsumatori, che rispetto al 2016 ha evidenziato un aumento dello 0,7% della spesa totale delle famiglie, salita a una media di 522 euro per ciascuno studente. Altre ricerche, come quella di Findomestic e Doxa, sono ancora più preoccupanti. Il costo medio dei libri e del corredo scolastico, secondo le indagini, sarebbe di 654 euro per ciascun ragazzo. Il picco di spesa arriva in prima media e in prima superiore, quando i nuovi materiali fanno lievitare il conto anche sopra i 1.200 euro (dice Federconsumatori).
Un quadro del genere mette in crisi il diritto allo studio, se si pensa che molte famiglie devono sostenere le spese per più figli e quindi c’è il rischio concreto che qualcuno, nell’iscriverli, rinunci a certi indirizzi per l’impossibilità di sostenere i costi. Anche per far fronte a queste difficoltà, nel 2013 lo Stato ha istituito un fondo annuale da 103 milioni di euro, destinati a coprire le spese scolastiche delle famiglie con Isee – l’indicatore della situazione economica – inferiore a 10.633 euro. Dal 2013, però, il fondo è stato tagliato di netto. Lo scorso febbraio la Conferenza Stato-Regioni ha recepito i tagli imposti dall’esecutivo Renzi negli anni scorsi (in parte anche per finanziare gli 80 euro): sono stati sforbiciati di circa un miliardo i contributi alle Regioni per scuola, sanità e altre politiche di assistenza. Di quei 103 milioni del 2013, oggi ne rimangono circa 32, più altri 10 divisi tra 20 Regioni.
C’è poi un altro problema: come già riportato dal Fatto, Confedercontribuenti ha denunciato che solo poche regioni hanno pubblicato per tempo le singole delibere con le indicazioni per richiedere il contributo. Così, di fatto, le famiglie hanno dovuto arrangiarsi da sole, con la speranza di ottenere poi un rimborso in futuro. La tecnologia, poi, non aiuta ancora le famiglie: come riporta Skuola.net, soltanto il 9% degli studenti ha tutti i libri di testo in formato digitale, mentre un altro 16% integra versioni digitali e cartacee. Ancora troppo poco, per una Buona Scuola.

Il Fatto 12.9.17
Concorsi, la schizofrenia di governo che umilia i prof
Senza sosta - Dai quizzoni ai Tfa-Tfi, fino all’ultima beffa dei crediti universitari: legiferare a strati rende solo i docenti meno preparati
di Filippomaria Pontani

La mortificazione degli insegnanti italiani inizia da subito, anzi da prima che essi diventino tali. Pubblicato – nelle migliori tradizioni – il 10 di agosto, il Decreto ministeriale sui 24 crediti formativi per accedere al concorso per l’insegnamento (se ne è parlato sul Fatto di domenica, ed è ora oggetto di un’interrogazione parlamentare dell’on. Giulio Marcon) è un’interessante spia di cosa possa accadere a un settore importante come la scuola quando viene usato in modo dissennato e tenuto in ostaggio da un’opzione ideologica prepotente, anche in spregio al dovuto rispetto nei confronti dei giovani meritevoli.
Un minimo di pregresso. Dopo l’ultimo “concorsone” nazionale per l’insegnamento, tenutosi nella prima metà del 2000, diversi governi hanno partorito convulsi tentativi di migliorare le procedure di selezione dei docenti delle secondarie, identificando nel reclutamento il cuore del problema della scuola italiana. Che tali provvedimenti abbiano prodotto dei benefici, non credo possa sostenerlo nessuno: il vecchio concorsone, una prova secca tutta focalizzata sui contenuti delle materie da insegnare, prevedeva ad es. per la classe A052 (Materie letterarie, latino e greco nei licei) addirittura una versione dal greco al latino, e ricordo che gli idonei furono alla fine il 7% dei candidati (non pochi assai giovani, e quasi tutti, per quel che mi consta, non meno preparati dei loro colleghi universitari). Nei nuovi modelli di reclutamento, dalle cosiddette SSIS fino al più recente Tirocinio Formativo Attivo, si è proceduto in altre direzioni. La prima: comprimere e addomesticare la verifica delle competenze disciplinari in meccanismi più o meno automatici, dai demenziali quizzoni di cultura generale per le prime scremature fino alle umilianti e diseducative domande “con la clessidra” dell’ultimo concorso a cattedra del 2016.
La seconda: creare percorsi di formazione pluriennali e onerosi, che richiedono profumate iscrizioni da parte di chi li segue, o (come è il caso del FIT previsto dalla Buona Scuola renziana) comportano anni di tirocinio sottopagato. La terza: puntare molto sull’inserimento della pedagogia, saggiando la capacità dei futuri docenti di insegnare la propria materia in forma di “moduli” o “unità didattiche”, di differenziare l’insegnamento a seconda delle classi, di comprendere i ruoli di “leadership” e di “co-working”, e consimili pomposi truismi che ogni docente di buon senso apprende dopo poche settimane di attività. La quarta: in grazia del farraginoso avvicendarsi di sistemi diversi (non appena le SSIS stavano andando a regime, si è iniziato a elaborare il TFA, a sua volta ora rimpiazzato dal FIT; in ogni passaggio si sono creati “buchi” di anni), creare nei giovani l’assoluta incertezza dei modi e dei tempi in cui poter giocare le loro chances di accedere alla carriera dell’insegnamento.
Il decreto del 10 agosto (giorno di san Lorenzo) impatta dunque su una platea di aspiranti che non è composta solo di neolaureati, ma anche di laureati che aspettano da un pezzo che venga data loro la prima o la seconda occasione (l’ultimo bando TFA è del 2014). Tutti costoro, i quali pure hanno compiuto un ciclo di studi che dava loro il diritto di tentare la strada dell’insegnamento, vengono ora obbligati a maturare altri 24 CFU nelle discipline antropo-psico-pedagogiche, pena l’esclusione dal concorso per il primo percorso FIT, previsto nel 2018. Questa scelta ha almeno tre aspetti aberranti. Anzitutto, per la sua efficacia retroattiva, priva i laureati di un diritto acquisito e li obbliga non solo a sborsare soldi (fino a un massimo di 500 euro) all’università più vicina, ma a tornare sui banchi e sui libri mentre lavorano o fanno supplenze, senza alcuna certezza che quei crediti, da maturare prima del concorso anziché (come sarebbe stato naturale) nel corso del tirocinio stesso, serviranno mai a qualcosa. In secondo luogo, nel merito, i 24 CFU sono una burletta: in grazia delle cabale dei settori scientifico-disciplinari dell’università, per una metà essi saranno coperti dalle “didattiche disciplinari” (cioè, per fare un esempio, esami di “Letteratura italiana” verranno spacciati a posteriori per “Didattica della letteratura italiana”); per l’altra metà, come rileva Maria Giovanna Sandri di SI, potranno essere legittimamente coperti con esami come “Storia delle tradizioni enogastronomiche” o “Fondamenti di infermieristica” (tutti afferenti ai settori indicati nel decreto) – ed è palese che né gli Atenei, colti in contropiede nell’estate, avranno le capacità di fornire a tambur battente dei percorsi didattici coerenti, né gli studenti avranno interesse alcuno a scegliere gli esami più sostanziosi e dunque più difficili.
L’effetto peggiore è però il terzo. D’ora in poi chiunque s’iscriva all’università e contempli anche remotamente nel proprio orizzonte la possibilità di andare a insegnare a scuola (dunque anche chi non senta tale vocazione, ma saggiamente ritenga utile lasciarsi la porta aperta) inserirà i 24 CFU nel proprio piano di studio, a premio sugli insegnamenti disciplinari. In altre parole, quei crediti che gli studenti potevano finora sfruttare per acquisire una preparazione specifica più approfondita (specie in tempi in cui i corsi di laurea triennale assomigliano sempre più a “super-licei”) saranno devoluti a esami di pedagogia, di psicologia e forse di Storia delle tradizioni enogastronomiche. Ne usciranno laureati magari più aggiornati su “unità e varietà del genere umano” o sui “fondamenti biologici e neurofisiologici dei processi di sviluppo psicologico tipico e atipico” (le declaratorie del Decreto di san Lorenzo sono istruttive), ma sicuramente meno preparati nel merito di ciò che dovranno insegnare.

Corriere 12.9.17
I giudici della Consulta preoccupati dall’ipotesi urne con le «loro» regole
di Francesco Verderami

La necessità di interventi del Parlamento già auspicata nel dispositivo sull’Italicum
ROMA Nemmeno le agenzie di scommesse accetterebbero oggi puntate sul varo di una nuova legge elettorale. Per quanto ci sia ancora chi attende le Regionali siciliane come un evento catartico che possa sbloccare lo stallo, in Parlamento c’è la crescente consapevolezza che l’assenza di un’intesa tra forze politiche e i tempi sempre più stretti a ridosso dello scioglimento delle Camere, impediranno — a meno di clamorosi colpi di scena — di approvare una riforma. In tal caso alle urne si andrebbe con i sistemi di voto per Camera e Senato riscritti dalle sentenze della Corte costituzionale.
E proprio tra i giudici della Consulta si avverte «forte preoccupazione» dinnanzi a questa prospettiva. Nonostante il capo dello Stato abbia più volte esercitato la propria moral suasion sui legislatori, invitando almeno ad «armonizzare» i due testi, dopo il mancato accordo sul«tedesco» a giugno tutto lascia presagire che non saranno esperiti altri tentativi. Ecco il motivo che ha spinto autorevoli membri della Corte a perorare «ancora una volta» la causa di una riforma elettorale con le maggiori cariche istituzionali, confidando venga scongiurata una deriva dai contorni quasi fatalisti.
Le argomentazioni sono rimaste confinate nell’ambito di colloqui informali e riservati, e hanno riguardato solo ed esclusivamente alcuni temi affrontati in punto di diritto, per non correre il rischio di valicare i limiti che separano l’azione dei giudici dal ruolo del Parlamento. Sarebbe un evento senza precedenti. Ma è chiara la posizione della Corte, espressa peraltro pubblicamente ai tempi del verdetto sull’Italicum.
In quell’occasione i giudici erano stati attenti a non sconfinare, e con un abile esercizio di scrittura a metà strada tra interpretazione giurisprudenziale e indicazione politica avevano espresso la loro posizione. Per un verso avevano esortato le Camere a legiferare, spiegando come la Costituzione «esiga» che per «non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare», i due differenti sistemi di voto non debbano «ostacolare all’esito delle elezioni la formazione di maggioranze omogenee». Per l’altro, proprio per non finire in offside e per evitare buchi normativi, avevano sottolineato che la loro sentenza «era suscettibile di immediata applicazione».
Ecco attorno a cosa si arroccano quanti ritengono si possa andare alle urne con il doppio Consultellum. Così, ogni qualvolta gli viene posto il problema «tecnico» di varare una riforma, rispondono pronti: «Tecnicamente quali punti andrebbero ritoccati?». Come a dire: se bisogna farlo, significa che la sentenza non è auto-applicativa e che la Corte ha lasciato un vuoto legislativo; in caso contrario si entrerebbe nell’ambito delle prerogative del Parlamento. E ogni volta, davanti alle colonne d’Ercole costituzionali, i colloqui si interrompono.
Così, in bilico tra giurisprudenza e politica, prosegue una contrapposizione che alimenta sotto traccia il braccio di ferro. Ovviamente la pressione politica è tutta sul Pd e sul suo segretario, che insiste a ripetere: «Per varare la riforma dev’esserci l’accordo di tutti». Perché Renzi ricorda quanti remarono contro l’intesa di giugno tra i quattro maggiori partiti, ripetendo ancora oggi ciò che disse a Cazzullo sul Corriere dopo il fallimento del «tedesco»: «Extra costituzionale non era il patto sulla legge elettorale, fuori dalla Costituzione ci sono certi fatti accaduti sul caso Consip». Era stato Napolitano a parlare di «patto extra costituzionale» per la connessione tra legge elettorale e voto anticipato.
Ora che la legislatura sta arrivando a scadenza naturale e che della riforma non c’è traccia, emergono i timori tra i giudici costituzionali. E si avverte al fondo un’altra loro preoccupazione: e cioè che, per effetto delle sentenze, alla Corte sia di fatto intestata la paternità dei due sistemi di voto e le venga scaricata la responsabilità politica della (quasi certa) «ingovernabilità». Mentre i Consultellum, ai loro occhi, sono «figli» del Parlamento.

Corriere 12.9.17
Renzi davanti al bivio: decidere dove candidarsi per misurare il consenso
di Maria Teresa Meli

La battuta: hanno voluto tenere il Senato? E io corro ad Arezzo
ROMA Matteo Renzi alle prossime Politiche potrebbe candidarsi ad Arezzo. Cioè in una delle roccaforti della polemica anti-Pd sulle banche. Il segretario la butta là, durante la presentazione del suo libro proprio in quella città, prima di affrontare il tema di Banca Etruria: «Io rivendico di aver fatto un intervento per salvare i correntisti. L’errore che abbiamo fatto, però, è stato quello di dare troppo spazio a Bankitalia».
Sembra quasi una sfida, quella di Renzi. È vero che il leader del Pd è entrato in modalità zen e quindi evita il più possibile gli scontri e le polemiche, ma su alcuni temi ama tenere il punto. Non a caso, il giorno dopo quel dibattito aretino, riferendosi alla nomina del futuro governatore della Banca d’Italia, avverte: «Credo che sul tema l’esecutivo e le forze politiche che lo sostengono debbano fare di tutto perché ci sia una scelta all’altezza del compito».
Ma è l’annuncio della sua possibile candidatura ad Arezzo che ha destato un certo stupore. In realtà, Renzi non ha ancora deciso se presentarsi alla Camera o al Senato. Da una parte è tentato dall’avventura di Palazzo Madama perché lì non ci sono le liste bloccate ma le preferenze. E quindi se la giocherebbe senza rete. In più questa sarebbe per lui una doppia sfida: andare in quel Senato che intendeva ridimensionare. «Lo hanno voluto tenere? E io mi ci candido. Ad Arezzo», è stata la battuta del leader del Pd. In questo caso, però, i collegi sono molto estesi e corrispondono alle Regioni. Non sarebbe quindi Arezzo l’agone per la contesa elettorale del segretario, bensì la Toscana.
L’altra opzione, quella della Camera, consentirebbe a Renzi di candidarsi come capolista bloccato in dieci collegi (perciò anche in quello di Arezzo). Questo sarebbe un modo per trainare il partito, naturalmente. La scelta non è stata ancora presa, ma comunque alla fine il segretario farà ciò che è più utile per il Pd. E prenderà la sua decisione con gli altri dirigenti del Nazareno, perché, come ha voluto sottolineare anche ieri, «noi siamo una squadra».
Già, ha tenuto a ricordare Renzi, «noi abbiamo i nostri limiti, ma non ci vedrete litigare». Questo riferimento, chiaramente, è soprattutto a Gentiloni, che gli oppositori interni del segretario vorrebbero contrapporgli nella speranza di aprire delle divisioni in seno alla maggioranza pd. Ma Renzi non vuole cadere in quelle che i suoi definiscono delle «trappole». La linea è quella decisa da qualche mese e verrà portata avanti anche in campagna elettorale, ponendo l’accento sui risultati ottenuti dai governi Renzi e Gentiloni.
Il segretario non si discosta da questa impostazione: «Stiamo andando forte. Più 4,4 per cento rispetto allo scorso anno per la produzione industriale, più di Giappone, Francia e Germania. Molto è merito delle misure di bilancio di questi anni. La squadra del Pd è quella che ha portato l’Italia fuori dalla crisi. Grillo e Salvini portano l’Italia fuori dall’euro».
E a proposito di euro — e di Europa — Renzi annuncia che «al prossimo giro ci faremo sentire a Bruxelles» perché per ridurre le tasse servono soldi «che non sono quelli del Monopoli» ma quelli della flessibilità.

Repubblica 12.9.17
Pd, il fronte degli anti-Renzi con Pisapia e Calenda
di Giovanna Casadio

ROMA. L’effetto-sorpresa è nella presenza di Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico, in passato corteggiato anche dal centrodestra, e che comunque si impegna ora «per un nuovo centrosinistra». Calenda sarà insieme ad Andrea Orlando, guardasigilli e leader della sinistra dem, e Giuliano Pisapia, a capo di Campo progressista: sabato a Roma in un’assemblea scalderanno i motori in vista delle elezioni. Partendo dai programmi fanno sapere gli orlandiani - ma anche «alzando la voce sulla legge elettorale ». Andrea Martella, che ha seguito come coordinatore la campagna di Orlando per le primarie del Pd, dice che sulla legge elettorale l’immobilismo non è accettabile. E in questi giorni sulla chat della corrente orlandiana (battezzata “Dems”) la parola d’ordine sulla legge elettorale è: «Non cediamo, va fatta».
Il parterre di sabato farà la differenza. Ci sarà Nicola Zingaretti, governatore del Lazio. La locandina dell’iniziativa è ancora provvisoria perché si aspetta la risposta di Dario Franceschini all’invito e un segnale da Mdp. «Non sappiamo se Dario ci sarà, ci farà sapere» dicono i promotori. Ma l’asse Orlando-Franceschini ha già dato prova di voler battersi per un modello elettorale con premio di governabilità alla coalizione, per non consegnare il paese dopo il voto politico al caos e all’instabilità. «Il comune denominatore – ha ripetuto più volte il guardasigilli – è il premio di governabilità: si tratta solo di capire quale sia la soluzione che può mettere insieme più consensi in Parlamento»..
Con Mdp il confronto è complesso. Molto dipende da quanto accadrà oggi. «È il giorno del chiarimento» ammette Roberto Speranza. E infatti stamani nelle sede romana dei demoprogressisti si incontrerano Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Speranza, Enrico Rossi e Arturo Scotto con Pisapia e la sua squadra composta tra gli altri da Massimiliano Smeriglio, Ciccio Ferrara, Bruno Tabacci. In ballo c’è il nuovo partito della sinistra. Mdp propone un’assemblea costituente. Ma Campo progressista mette i paletti: «Noi vogliamo un soggetto politico elettorale di centrosinistra con la leadership di Pisapia. Non ci arrendiamo né al listone con il Pd né al listino della sinistra radicale». Frenata quindi sul partito, che – spiegano, dopo una riunione tenutasi ieri – non può essere un’operazione a freddo. Campo progressista fa sapere anche che l’obiettivo è costruire coalizioni di centrosinistra nelle Regioni che andranno al voto nel 2018 e spostare a sinistra l’asse del governo Gentiloni, senza bordate che lo mettano a rischio come quelle dei demoprogressisti sulla manovra. Competizione con il Pd, che però non è il nemico: quindi no a un cartello anti- Renzi. E poi ci sono candidati da selezionare, un comitato di garanti da creare. «Gli aspetti organizzativi vengono dopo», commenta Smeriglio. Dopo avere sbrogliato i nodi politici che sono tanti e di cui l’affaire Sicilia – con la spaccatura tra Pisapia e Mdp sul candidato governatore - è cartina di tornasole. «Ora bisogna correre, non tentennare», ha ribadito ancora ieri Speranza.

Corriere 12.9.17
Oggi il summit Mdp-Pisapia Al tavolo sono quasi 20
di Monica Guerzoni

La convocazione è per le dieci del mattino in via Zanardelli, dove D’Alema, Bersani e Speranza hanno messo i primi mattoni della nuova «ditta» dopo la scissione dal Pd. Se poi davanti al portone della nuova sede di Articolo Uno-Mdp dovesse esserci la ressa di giornalisti, cameramen e fotografi, il vertice con Giuliano Pisapia sarà spostato «in un luogo più tranquillo». Lontano da occhi e orecchie indiscreti. Per la sinistra è il giorno della verità. Dopo l’estate dei veleni, dei veti incrociati e degli incontri cancellati, il vertice di oggi tra i dirigenti dei due blocchi servirà a verificare se esistono ancora i presupposti per costruire un partito unico di centrosinistra alternativo al Pd a guida renziana. Al tavolo delle trattative Pisapia con Ciccio Ferrara, Bruno Tabacci, Alessandro Capelli, Massimiliano Smeriglio, Marco Furfaro, Franco Monaco e Luigi Manconi. Per Mdp, Roberto Speranza ha convocato il coordinamento al completo e cioè Enrico Rossi, Francesco Laforgia, Cecilia Guerra, Arturo Scotto e Massimo Paolucci, più Nico Stumpo e Alfredo D’Attorre. Massimo D’Alema arriverà all’incontro determinato a smontare i presunti piani di Campo progressista: «Contendere a Renzi la premiership con le primarie non è nello schema delle cose praticabili...». L’ex capo del governo e presidente di Italianieuropei ha idee assai più bellicose ed è questo, in sostanza, il concetto che rimarcherà nel «chiarimento politico» con Pisapia: «Se vogliamo costruire il nuovo centrosinistra dobbiamo sconfiggere Renzi». Altrimenti, ognuno andrà per la sua strada. Speranza conta i giorni da qui alle elezioni politiche e ne deduce che «il tempo è finito». Basta discutere di formule e di leadership, «basta stop and go». Se davvero si vuole costruire una forza alternativa al renzismo bisogna accelerare e convocare «un grande momento di partecipazione democratica dal basso». Primarie? Magari non si chiameranno così, ma il senso è quello. Se Pisapia nicchierà ancora, se la sua «leadership riluttante» non cambierà di segno, bersaniani e dalemiani tireranno dritti anche senza di lui. «Noi andremo avanti lo stesso come treni — è il ritornello che rimbalza in via Zanardelli —. Se Pisapia c’è bene, se non c’è faremo diversamente». Bersani e D’Alema hanno tutta l’intenzione di correre per un posto in Parlamento, convinti che la scelta spetti agli elettori e non certo ai vertici di Campo progressista.

La Stampa 12.9.17Tregua Pisapia-Mdp ma per l’ex sindaco leadership a rischio
Oggi vertice dopo le tensioni, torna l’ipotesi del listone
di Andrea Carugati

Dopo che Giuliano Pisapia ha affermato che non sosterrà il candidato del Pd in Sicilia (Fabrizio Micari) e che non intende confluire in un listone coi dem alle politiche, i rapporti con Mdp, il partito di Bersani e D’Alema, si sono parzialmente rasserenati. E il progetto di costruire una lista unica della sinistra ha ripreso quota.
Stamattina i vertici di Mdp e di Campo progressista (la formazione dell’ex sindaco di Milano) si vedranno a Roma per stabilire la road map che porterà entro l’inizio di novembre ad una grande assemblea costituente, composta da circa un migliaio di delegati eletti dai simpatizzanti nei gazebo in tutta Italia.
Gli elettori sceglieranno, oltre ai loro rappresentanti nell’assemblea, anche il nome, il simbolo e le 10 priorità di programma del nuovo soggetto politico. Questa almeno è la volontà di Mdp, che si presenterà al tavolo con Pisapia insieme a tutti i big, da Bersani e D’Alema a Roberto Speranza, Arturo Scotto e Enrico Rossi.
Nei giorni scorsi, dopo le tensioni sulla scelta del candidato in Sicilia e un’estate di incomprensioni, i vertici di Mdp avevano proposto a Pisapia una separazione consensuale. Tradotto: «Noi costruiremo il nuovo partito in ogni caso, aperto anche a Pippo Civati e Sinistra italiana. Se vuoi allearti col Pd ognuno per la sua strada».
L’ex sindaco di Milano, alla fine, sembra aver deciso di proseguire nel cammino comune con Mdp. Ma senza più il ruolo di leader unico che aveva immaginato a inizio luglio a piazza Santi Apostoli. «Sarà una leadership collegiale», il concetto che viene ribadito dalle parti di Mdp. Formalmente, spiegano, «sarà l’assemblea costituente a scegliere i ruoli di vertice». Ma dentro Mdp, dopo un’iniziale entusiasmo per Pisapia, è prevalsa l’idea che l’ex sindaco debba essere partner e non più «guida solitaria» del nuovo soggetto. «Ora bisogna correre sulla costruzione di un’unica lista alternativa al Pd, basta con gli stop and go e i tentennamenti», insistono i bersaniani Roberto Speranza e Miguel Gotor. Il concetto sarà espresso con chiarezza a Pisapia: «Si va avanti, chi ci sta ci sta».
L’ex sindaco resta preoccupato che si possano ripetere gli errori della Sinistra arcobaleno del 2008, una federazione di partitini che non superò il quorum. E insiste: «Dobbiamo fare un centrosinistra di governo. Spero che il mio essere alternativo a Renzi non sia più messo in discussione». Dubbi anche sulla spinta organizzativa dei partner di Mdp. «Non si può fare un congresso di partito in due mesi, con le tessere e tutto il resto», spiega uno dei collaboratori di Pisapia.
Anche in caso di rottura con Mdp, Campo progressista intende comunque andare avanti: «Noi alle elezioni ci saremo in ogni caso, non faccio passi indietro», ha assicurato ai fedelissimi riuniti ieri a Roma.
Sul rapporto col governo le distanze sembrano invece accorciarsi. D’Alema e Bersani si sono convinti che con Gentiloni «si può aprire una trattativa vera» sulla manovra, portando a casa alcuni punti qualificanti su lavoro, investimenti e sanità, con l’abolizione del super ticket. In fondo è quello che Pisapia ripete da mesi: «Non si può pensare di rompere col governo a priori».

Repubblica 12,9,17
Di cosa si parla a Zagabria
Il ritorno dello spettro degli Ustascia
Andrea Tarquini

CHI DICE Croazia dice ferie nelle splendide città d’arte, a cominciare da Dubrovnik o Spalato, e un mare stupendo. Oppure pensa a un giovane paese membro di successo di Ue e Nato. Peccato che in quel bel paradiso adriatico si aggirino cupi spettri. Il governo del premier Plenkovic ha faticato non poco a imporre la rimozione dall’ex campo di sterminio di Jasenovac, dove gli Ustascia del dittatore fantoccio dell’Asse Ante Pavelic (Poglavnik o Duce lo chiamano ancora oggi i nostalgici), di una targa in onore dei soldati morti nella guerra di secessione e indipendenza dalla Jugoslavia. Perché sulla targa c’è il motto ustascia Za dom spremni, pronti per la patria. Come se a Roma o Berlino fosse affissa in pubblico una targa con “Duce a noi” o “Heil Hitler”. Ve lo immaginate? Purtroppo i nostalgici non mancano, la targa è stata spostata in altro luogo, il governo puó solo dire agli alleati Ue e Nato di “sperare” che quel motto sparisca. Nel frattempo il saluto ustascia con quel motto e il braccio teso va di moda nelle forze armate, e tempo fa la bella presidente Kolinda Grabar-Kitarovic ha elogiato un rapper che loda gli ustascia. Paese che vai, spettri che trovi. Tanto l’Unione europea tace, come fa in molti altri casi simili all’est dell’ex cortina di ferro che pure non divideva la Jugoslavia dall’Ovest.

Corriere 12.9.17
Londra, stretta sui cittadini Ue In un anno quasi 5 mila espulsi
Gli europei discriminati anche nei contratti d’affitto e nella ricerca del lavoro
di Luigi Ippolito

Londra La Brexit è di là da venire ma la caccia ai cittadini europei sembra essere già cominciata. Ieri l’ Independent ha rivelato che il numero di residenti Ue espulsi dal Regno Unito ha subito un’impennata nell’ultimo anno: quasi cinquemila cittadini comunitari sono stati deportati nei dodici mesi appena trascorsi, rispetto ai meno di mille del 2010. E nei soli primi tre mesi del 2017 c’è stato un incremento del 26 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Il dato è tanto più significativo se si considera che il numero complessivo di persone allontanate dalla Gran Bretagna è diminuito: questo vuol dire che le autorità di Londra hanno concentrato i loro sforzi specificamente contro gli immigrati europei.
Già quando era ministra dell’Interno, Theresa May aveva promesso che avrebbe creato «un ambiente ostile per gli immigrati illegali». Ma ora sembra che questo approccio sia stato adottato anche nei confronti di chi è legalmente nel Regno Unito. Le direttive europee specificano che si possono espellere cittadini comunitari solo «per gravi ragioni di interesse pubblico o di pubblica sicurezza». Ma le autorità britanniche interpretano adesso questa norma in maniera molto elastica, fino a includere il dormire per strada: un nuovo regolamento introdotto prima dell’estate lo cita fra gli esempi di «abuso» dei propri diritti e causa di espulsione.
Questo atteggiamento sta sollevando molte critiche. Già il mese scorso il ministero dell’Interno si era dovuto scusare dopo aver mandato per errore a 100 residenti europei una lettera in cui si annunciava la loro imminente espulsione. «Tutto questo è una disgrazia ma non è sorprendente — ha commentato Diane Abbott, ministro ombra dell’Interno per i laburisti —. L’ossessione del governo conservatore per l’immigrazione invischia qualsiasi cosa facciano. Mandare lettere di espulsione per errore, mancare di confermare lo status di residenti e infine deportare i cittadini europei non instillerà in loro grande fiducia riguardo la loro posizione nel Regno Unito».
Ma un portavoce del ministero dell’Interno ha confermato la stretta: «Abbiamo indurito la nostra reazione nei confronti degli stranieri che abusano della nostra ospitalità. I cittadini europei che commettono ripetutamente offese minori nel nostro Paese adesso dovranno far fronte a un provvedimento di espulsione dai cinque ai dieci anni».
La questione della libera circolazione resta in ogni modo al centro del dibattito sulla Brexit. Domenica è intervenuto l’ex premier Tony Blair per dire che a Londra dovrebbe essere consentito di mettere un freno all’immigrazione pur di restare nell’Unione europea: un modo tardivo per riconoscere che il controllo delle frontiere è il nocciolo duro su cui si fonda il consenso dei britannici per l’uscita dalla Ue.
Ma non basta. Perché il Guardian rivela che stanno emergendo sempre più casi di discriminazione verso i cittadini europei quando si tratta di affittare o comprare casa, ottenere un lavoro o anche prenotare una vacanza.

il manifesto 12.9.17
Sinistra spaccata, la sindaca Colau tra due fuochi
Verso il primo ottobre. L'alcaldesa vuole facilitare la partecipazione dei cittadini alla «mobilitazione», ma non mettere in pericolo i funzionari e l’istituzione viste le decisioni del Tribunale costituzionale. Per Podemos la consultazione è giusta, ma questa non è valida
di Luca Tancredi Barone

BARCELLONA Il referendum dell’1 ottobre ha già ottenuto diversi risultati politici importanti. Il primo e più rilevante dei quali è che la questione catalana è ben salda al centro dell’agenda politica spagnola.
Da molti punti di vista, e come è sempre stato, una manna per il governo Rajoy. Il quale non deve più preoccuparsi dei numerosi casi di corruzione, che l’hanno perfino portato a dover testimoniare in un processo (cosa mai accaduta finora), né di dover spiegare gli accordi segreti di vendita di armi all’Arabia Saudita (proprio quando gli attentati mettono in luce il pericolo di avere amici del genere), o di rendere conto dei 40 miliardi che il governo ha perso (su 53 spesi) per il riscatto massiccio delle banche durante la crisi. Soldi che i ministri popolari garantivano sarebbero tutti rientrati. Una manna anche per i politici catalani: dei casi di corruzione del partito da cui viene lo stesso presidente catalano Carles Puigdmont, che si chiamava Convergència Democrática (ora ribattezzato Partit Demòcrata Català) non si parla più.
Il secondo risultato di questa tempesta politica è quello di aver spaccato la sinistra, soprattutto quella catalana. Se a Madrid il referendum ha dinamitato i fragili ponti che Podemos e Psoe stavano costruendo a livello parlamentare, è a Barcellona che la sinistra è esplosa in mille pezzi. E questo proprio quando per la prima volta nella storia recente spagnola un grande partito nazionale non nazionalista come Podemos ha preso una netta posizione a favore della celebrazione di un referendum di autodeterminazione. Solo la piccola Izquierda Unida aveva avuto il coraggio di farlo in passato: nessun altro aveva osato mettere in discussione questo grande tabù postfranchista. Certo, i viola e i loro alleati chiedono che sia un referendum «con regole», condiviso e non necessariamente vincolante, non quello di Puigdemont, ma la sostanza resta. Peraltro, una posizione che fino a cinque anni fa, ere geologiche fa, avrebbe potuto sottoscrivere perfettamente anche gran parte del Partito socialista catalano.
Oggi invece il Psc è allineato saldamente con Madrid, anche se l’abile segretario Miquel Iceta è sempre riuscito a mantenere una posizione autonoma rispetto all’apparato socialista (per esempio, è fra i pochi segretari regionali a non appoggiare Susana Díaz, la governatrice dell’Andalusia che puntava alla direzione contro Pedro Sánchez).
Fra i militanti dello schieramento indipendentista, la Cup ha scelto di mettere da parte la sua anima sociale antisistema per dare priorità alla costituzione di una repubblica catalana, e già dal gennaio 2016, quando nacque l’attuale esecutivo catalano, ha fornito appoggio esterno al fragile governo Puigdemont con l’obiettivo proprio della celebrazione di questo referendum. Lo stesso dicasi degli storici di Esquerra Republicana, da sempre indipendentisti, che hanno deciso di sposare un po’ controvoglia gli storici nemici di Convergència in un’inedita grosse koalition in salsa catalana (il vice di Puigdemont è il leader di Esquerra Oriol Junqueras) con lo stesso obiettivo.
Ma i cocci li devono raccogliere soprattutto quelli della confusa sinistra alternativa, nota con il nome di «I comuni». E cioè tutta quell’area che va dai militanti di Podem (i viola catalani), agli storici dei verdi di Iniciativa e Esquerra Unida (IU in Catalogna), fino agli attuali egemoni del movimento guidato dalla sindaca di Barcellona Ada Colau e dal deputato a Madrid Xavier Domènech, Catalunya en comú. Podem è spaccato: l’attuale leader Dante Fachín, in guerra con Pablo Iglesias, non è voluto entrare nel movimento di Colau – ma alcuni militanti invece ci sono – e invita al voto il 1 ottobre (contro la posizione di Podemos, che non lo considera un referendum valido). Ma la sua leadership è messa in discussione dentro lo stesso partito e si dovrà votare nei prossimi giorni.
Il raggruppamento parlamentare nel Parlament di Barcellona, che si chiama Catalunya Sí que es Pot, pur contando solo 11 deputati, è spaccato fra non indipendentisti e indipendentisti; fra questi ultimi, poi, c’è chi segue Fachín e chi no. È un miracolo che si siano messi d’accordo di votare tutti insieme la stessa cosa: astensione, essendo l’unico gruppo d’opposizione rimasto in aula.
E infine Colau: nella stessa giunta barcellonese alcuni assessori chiedono di votare, e altri no. I socialisti, alleati in giunta, minacciano di uscirne se il comune mette a disposizione i locali per il voto. Mentre la sindaca e i suoi, che appoggiano da sempre un referendum, ma non in questi termini, fanno i salti mortali: vogliono facilitare la partecipazione dei cittadini alla «mobilitazione» del primo ottobre ma non mettere in pericolo i funzionari e l’istituzione viste le decisioni del Tribunale costituzionale. E in questi giorni Catalunya en Comú sta consultando i militanti per sapere se il movimento deve partecipare o meno alla «mobilitazione» (viene dato per scontato che il referendum non ci sarà come tale). Si attendono sorprese.

Corriere 12.9.17
Il condottiero vichingo in Svezia? Era una donna
di Luigi Offeddu

La rivelazione grazie al Dna dallo scheletro trovato a Birka
Lo scheletro ritrovato oltre cent’anni fa aveva sepolte al suo fianco una spada, una lancia, un’ascia ben affilata, frecce in grado di perforare uno scudo: il completo equipaggiamento di un guerriero. E poi, gli scheletri di due cavalli. E una borsa che conteneva asticelle e una tabella, una specie di «gioco di guerra» medievale, forse utilizzato per pianificare strategie di battaglia. Insomma, hanno dichiarato per più di un secolo gli archeologi svedesi, in quella tomba scoperta a Birka, nella Svezia centro-orientale, aveva riposato un grande condottiero vichingo. Uno di quelli immortalati con il loro barbone dalla tradizione, o dalla leggenda.
Ma no, altro che barbone: con ogni probabilità quella di Birka era invece una condottiera, una donna sui trent’anni alta un metro e 70, si è scoperto solo ora grazie ai più moderni esami effettuati sul Dna ricavato dalle ossa.
Una rivelazione straordinaria, come l’ha definita l’ American Journal of Physical Anthropology , che l’altro ieri ha pubblicato il rapporto degli scienziati: perché «l’identificazione di una guerriera vichinga offre una visione unica di quel popolo», delle sue «costruzioni sociali» e soprattutto «delle eccezioni alla norma nella sua epoca». Come poteva essere, appunto, un ruolo di comando militare posseduto da una donna. Anche se, mettono in guardia gli stessi scienziati, «i risultati dello studio invitano alla prudenza contro le generalizzazioni riguardanti gli ordini sociali nelle società del passato».
Negli ultimi due secoli, in almeno 3 tombe di epoca vichinga sono stati ritrovati scheletri femminili.
Però non con tali segni materiali di prestigio e di potere («il completo equipaggiamento di un guerriero professionista», insiste appunto la ricerca attuale), al massimo con qualche umile oggetto di vita familiare. E da sempre, certo, si narra di qualche erinni nordica che avrebbe affiancato in battaglia i propri padri, fratelli e mariti. Voci archiviate come miti: mai una prova concreta, come quella che sembra arrivata ora.
La tomba della condottiera — marcata dagli studiosi con il numero Bj 581 — conteneva frammenti di quasi tutte le parti del suo scheletro. Stava su un pendio, in posizione dominante rispetto alle 3 mila della stessa epoca (700-1.000 dopo Cristo) ritrovate a Birka, dove esiste il più grande «cimitero» vichingo della Svezia. Ed era direttamente collegata con il forte-caserma che si ergeva poco lontano: anche questo il segnale di una vita vissuta al comando.
Solo 1.100 di queste tombe sono state fino ad oggi esplorate. Forse — ci si chiede ora — in altre tombe riposano altre donne condottiere?
Non è da escludere, perché — dicono ancora gli studiosi autori della ricerca — ciò che la storia alto-medievale ci ha tramandato su Birka è l’immagine di un borgo vichingo «non convenzionale», cioè con una vita quotidiana aperta a relazioni commerciali e culturali con regioni anche lontane, e popolato stabilmente da 600-1.000 commercianti, artigiani e guerrieri.
In un luogo così, certo non appariva come un fantasma la donna cantata da Atli, eroe groenlandese dei poemi dell’ Edda : «Lei prese una nuda spada e combatté per i suoi cari, lei era brava nel combattere dovunque indirizzasse i suoi fendenti...».

Corriere 12.9.17
Ribellarsi è un’arte
Non più tecnica, ma interiorità così dal ‘900 la trasgressione è divenuta il vero atto creativo
di Nathalie Heinich

Generazione dopo generazione, l’arte moderna, a partire dagli impressionisti, ha messo in crisi, trasgredendoli, i principi canonici che definivano tradizionalmente le arti plastiche secondo il paradigma classico: trasgressione dei canoni accademici della rappresentazione da parte dell’impressionismo; trasgressione dei codici della figurazione dei colori da parte del fauvismo e poi dei codici della figurazione dei volumi da parte del cubismo; trasgressione delle norme di obiettività della figurazione da parte dell’espressionismo; trasgressione dei valori umanistici da parte del futurismo, delle norme del serio da parte del dadaismo, o del verosimile da parte del surrealismo; trasgressione dell’imperativo stesso della figurazione da parte delle diverse forme di astrazione, a partire dai primi acquerelli astratti di Kandinsky, passando per il suprematismo o il costruttivismo, fino all’espressionismo astratto posteriore alla Seconda guerra mondiale.
Questa serie di trasgressioni sul piano plastico finirono per normalizzare l’idea stessa di avanguardia insieme all’imperativo della singolarità, segnando il trionfo dell’originalità nel doppio significato di ciò che è nuovo e di ciò che appartiene propriamente a una persona. L’originalità va di pari passo con la trasgressione dei canoni, con l’accettazione e addirittura la valorizzazione dell’anormalità, in modo tale che il fuori norma tende a diventar la norma. Uno spostamento dall’oggetto alla persona, dalla normalità all’anormalità, dalla conformità alla rarità, dalla regola all’originalità, dal successo all’incomprensione, e dalla riuscita nel presente alla gloria postuma: ecco come si presenta il «regime di singolarità» che renderà celebre la figura leggendaria di Vincent Van Gogh.
Tuttavia si perderebbe di vista una dimensione fondamentale della modernità artistica se ci si limitasse alla produzione o alla percezione delle opere. In profondità essa coinvolge infatti anche la concezione di ciò che deve essere un artista. La dimensione estetica è qui indissociabile dalla dimensione psicologica e morale e in ciò risiede un’altra caratteristica fondamentale introdotta nell’arte dalla modernità. Nel corso del XX secolo si assiste infatti allo sviluppo di una nuova concezione dell’artista, caratterizzata da grandi aspettative sulla qualità della sua persona e non più solo sul suo talento.
Questa qualità garantisce la presenza nell’opera dei tre grandi criteri dell’autenticità artistica moderna, l’interiorità, l’originalità e l’universalità, senza i quali non c’è singolarità che tenga. Rispettata questa condizione, anche la più infamante delle singolarità, come per esempio la follia, si trasforma positivamente in risorsa estrema del creatore autenticamente ispirato, una figura quest’ultima propriamente moderna, impostasi poco a poco presso il grande pubblico grazie alla figura di Van Gogh.
Una delle principali caratteristiche dell’arte «moderna» — sottintesa nei discorsi sull’arte, nei giudizi di cui è oggetto, nei commenti che accompagnano le opere — è che si suppone che l’arte esprima l’interiorità dell’artista. È a questa condizione che le trasgressioni delle convenzioni plastiche diventano non soltanto accettabili, ma addirittura valorizzate. Questa interiorità rinvia al principio del carattere personale e soggettivo della visione come anche a quella «necessità interiore» che Kandinsky poneva all’origine dell’atto creativo. In questo senso l’impressionismo, il fauvismo, il cubismo e anche l’astrattismo manifestano plasticamente il modo di vivere dell’artista, mentre il surrealismo lo fa in modo fantasmatico, sul piano delle immagini interiori. In questo l’arte moderna rompe con l’arte classica, la cui esigenza primaria era la messa in opera degli standard della rappresentazione secondo riferimenti condivisi.
Parallelamente, il criterio dell’interiorità si manifesta anche nell’esigenza di autenticità: l’opera deve manifestare il suo legame con la persona dell’artista, a partire dai suoi pensieri, dalle sue percezioni e sensazioni, fino ai suoi stessi gesti. Il pennello intinto nella pittura e passato sulla tela, la materia grezza modellata o sbozzata dallo scultore, assicurano una continuità sensibile tra il corpo dell’artista e l’opera realizzata.
Sul piano psicologico, le aspettative in materia di qualità psicologiche, preposte al sentimento di autenticità in riferimento a un artista e, di conseguenza, alla pertinenza di un giudizio estetico sulle sue opere, si svelano nelle varie accuse di inautenticità che stigmatizzano gli artisti scansafatiche, furbacchioni, avidi di guadagni, superficiali, ripetitivi, banali. Se ne evince dunque che in arte l’autenticità esige da parte dell’artista quantomeno serietà, sincerità, disinteresse, interiorità, ispirazione e originalità.
Queste aspettative dunque non sono più legate alla competenza tecnica dell’artista, ma alle sue disposizioni psicologiche. Esse sono una delle conseguenze della «vocazionalizzazione» dell’identità dell’artista, in altre parole dell’abbandono di una definizione professionale dell’eccellenza a vantaggio di una definizione che pone l’accento sulla vocazione, sull’ispirazione, sul dono o talento innato. [...]
Estratto della Lezione magistrale in programma a Carpi, Piazzale Re Astolfo sabato 16 settembre 2017, alle 11,30, nell’ambito del Festivalfilosofia 2017, arti, © Consorzio per il Festivalfilosofia, traduzione dal francese di Tessa Marzotto

Repubblica 12.9.17
Lev Šestov (1866-1938)
Il filosofo russo che fece la rivoluzione dubitando
Si sentiva contemporaneo sia di Dostoevskij che di Tolstoj
Di entrambi condivise i pensieri e le ossessioni. Detestò Stalin
Escono saggi, conversazioni e lettere dell’esistenzialista Lev Šestov
di Pietro Citati

Lev Šestov nacque il 31 gennaio 1866, a Kiev, da una famiglia ebraica ricca e rispettata: il suo vero nome era Lev Isaàkovic Švarcman. A Kiev, fin da giovane, aveva assorbito la tradizione religiosa ebraica: del giudaismo comprese subito il dramma fondamentale; la fusione, nelle profondità di ogni uomo, della presenza e dell’assenza di dio. Nei profeti ebrei, dei quali coltivò specialmente Giobbe, che riteneva un filosofo superiore a Platone e ad Hegel, ammirò “L’incanto dell’inquietudine” – la sua ininterrotta, dolorosa ed allegra inquietudine. In tutta la vita Šestov esaltò la Bibbia contro la Grecia: sopra tutto contro Platone ed Aristotele: Gerusalemme contro Atene; così dice il titolo di uno dei sui libri più famosi. Come
Kafka, pensava che esistono, per noi, due specie di verità, rappresentate dall’albero della conoscenza del bene e del male e dall’albero della vita. Nella prima, il bene si distingue dal male: nella seconda il frutto dell’albero della vita non è altro che la vita stessa, ed ignora sia il bene che il male.
Šestov si sentiva contemporaneo sia di Dostoevskij sia di Tolstoj. Di entrambi, ma specialmente di Dostoevskij, condivise i pensieri e le ossessioni. Il 2 marzo 1910 visitò Tolstoj a Jasnaja Poljana; e la sua fuga e la sua morte alla stazione di Astapovo furono la sua fuga e la sua morte. Dopo Dostoevskij e Nietzsche. La filosofia della tragedia nel 1903 (Aragno, pagg. 58, euro 21), nel 1905 compose Apoteosi della precarietà (Trauben, a cura di Raffaella Faccionato, pagg. 210, euro 11). A Kiev, nel 1918, disse che la rivoluzione russa avrebbe spazzato via tutta la filosofia e la letteratura del passato: compreso lui, Šestov, «se avesse rifiutato di mettere il proprio talento al suo servizio». Con somma disperazione della madre fu rivoluzionario dall’età di otto anni: fin quando sulla scena apparve il “socialismo scientifico”. Detestò Stalin, sebbene meno di Hitler. Nel 1921 fuggì dalla Russia, e andò a Parigi, dove scrisse i libri maggiori: in primo luogo Sulla bilancia di Giobbe (Adelphi, traduzione di Alberto Pescetto, con un saggio di Czeslaw Milosz, pagg. 514, euro 30) e Speculazione e rivelazione (a cura di Glauco Tiengo ed Enrico Macchetti, Bompiani, pagg. 820, euro 28).
A Parigi visse con gioia scrivendo e sopra tutto conversando perché, per lui, la conversazione era una specie di letteratura superiore: non aveva mai conosciuto cosa fosse la “gioia della scrittura”. Oziò molto: «posseggo come pochi la capacità di non fare assolutamente nulla». Detestava tutto ciò che aveva, o sembrava avere, una “stabilità filosofica”: ogni stabilità e fissità lo spaventava. Era sempre altrove: sempre in fuga dai sistemi, specialmente da quelli in cui si attardava, sia pure per un istante. Il modo migliore di filosofare era, per lui, quello di parlare di sé stessi. Non gli importava ripetersi: diceva una cosa, la contraddiceva, la ripeteva, la contraddiceva di nuovo; ma quando diceva la medesima cosa per la centesima volta, essa sembrava nuovissima. Citava le stesse frasi: dalla Bibbia, da Platone, dai Vangeli, da Spinoza, da Dostoevskij, giungendo a conclusioni ogni volta diverse.
Pensava di essere “l’uomo della tragedia” ma era sopra tutto l’uomo dell’ironia; una ironia che negava in primo luogo sé stessa. Ora, angosciosamente, cercava Dio: ora solo il rischio e il pericolo – senza alcun punto di arrivo. Era chiaro ed oscuro: sempre insolito, audace, sfacciato: rifiutava le cosiddette leggi della saggezza; amava la distruzione, senza nessun desiderio di costruire. Gli interessava non ciò che uno scrittore diceva, ma
ciò che avrebbe potuto dire. Come Rochefoucauld, esaltava l’incostanza. Detestava i perché. Il dubbio era la sostanza della vita. La filosofia non doveva dare risposte, ma testimonianze. Pensare significava soffrire, tormentarsi: il contrario di ciò che aveva scritto Spinoza; «non ridere, non piangere, non detestare, ma comprendere ». Una volta disse che condivideva le parole di Amleto: “Il tempo è uscito dai suoi cardini”; ma non cercò mai di rimettere questi cardini al loro posto.
Gli scrittori supremi erano, per lui, i presocratici, Giobbe, Pascal, Kierkegaard e Dostoevskij: i suoi nemici Spinoza, Kant e specialmente Hegel. Di Tertulliano amò il Credo quia absurdum. La fede era una lotta folle per la possibilità; e per questo era così sublime. In Dio – soltanto in Dio – l’impossibile esiste. La libertà non è la possibilità di scegliere tra bene e male: ma la possibilità stessa. La fede combatte l’etica – la quale sevizia e tortura l’uomo: essa combatte la ragione, la legge, il dovere. Dio disubbidisce a qualsiasi principio. Niente esiste veramente: forse anche ciò che era accaduto avrebbe potuto non essere mai avvenuto.
Šestov scriveva per sbarazzarsi da i suoi pensieri e da sé stesso: per annullarsi, sebbene egli fingesse di continuare ad esistere. Desiderava portare all’estremo il veleno di una lucidità superiore ad ogni dubbio: in una condizione di discontinuità e instabilità; mai ortodosso, sempre caustico. Il pensiero era rischio, provocazione. Di certe cose era possibile scrivere solo indirettamente, come avevano fatto Pascal, Kierkegaard, Dostoevskij e Nietzsche. Specie negli ultimi anni, quando compose un bellissimo e divertentissimo libro, Kierkegaard e la filosofia esistenziale (Bompiani, a cura di Glauco Tiengo ed Enrico Macchetti, pagg. 760, euro 25) comprese che Kierkegaard era il suo doppio: il nuovissimo Giobbe.
Šestov pensava soltanto a Dio, anche quando non ne pronunciava il nome: secondo Albert Camus il suo Dio sembrava capriccioso, malvagio, immorale, inaccettabile e inaccessibile. Si, certo, era inaccettabile e inaccessibile. Non era, al contrario di ciò che aveva detto Plotino, l’Uno: né era ragionevole, illuminato, obbediente a una legge, sia pure stabilita da lui stesso. Anche Dio, a volte, correva rischi. Quando Cristo gli disse: «Mio Dio! Mio Dio! Perché mi hai abbandonato?»; questo momento fu terribile per Dio, che fu sul punto di morire sulla croce. Come Pascal, Šestov pensava di non sapere nulla delle opere di Dio, se non partire dal principio che egli ha voluto accecarci ed ingannarci. Proprio per questo, Šestov parlava continuamente del peccato originale: l’uomo non aveva alcun bisogno del sapere; acquistando il sapere, perse la libertà. Non fu l’uomo, ma Dio ad aver colto ed assaggiato il frutto dell’albero. Come Kafka, Šestov rileggeva e reinterpretava senza fine i primi capitoli della Genesi. Si chiedeva: «Cosa sarebbe accaduto se Adamo non avesse peccato?». Anche oggi potremmo gustare il frutto dell’albero della vita: tutti i libri di Šestov inseguono questa possibilità; la libertà primigenia e paradossale, che Adamo aveva condiviso con Dio. Solo la fede permette di ripercorrere questa strada, ritrovando le piene luci o le piene tenebre. Quando diceva queste cose, Šestov si accordava con la mistica ebraica – che credo non conoscesse in modo diretto.
Fu molto meno tragico di Kierkegaard; e venne salvato dall’ironia e dall’indecisione. Kierkegaard aveva detto: «Ho guardato negli occhi il terribile e non ho avuto paura. Non ho tremato». Nemmeno Šestov tremò. Pascal aveva detto: «Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: per tutto questo tempo non bisogna dormire». Šestov non dormiva a lungo sebbene qualche sonno o qualche sogno alleviassero la sua angoscia.
Šestov ebbe un solo allievo, un grande allievo: Benjamin Fondane, un ebreo rumeno (in realtà “Benjamin Wechsler”), il quale scrisse due bellissimi libri: Baudelaire e l’esperienza dell’abisso (Aragno) e La coscienza infelice (Aragno). Ora Aragno raccoglie In dialogo con Lev Šestov. Conversazioni e carteggi, a cura di Luca Orlandini (pagg. 400, euro 25). Fondane era nato nel novembre 1898 in Moldavia. Andò nel 1919 a Bucarest, e nel 1923 a Parigi, dove conobbe Šestov; venne ucciso nel 1944 a Auschwitz-Birkenau. Fu molto amato da Cioran. Fondane non fece nulla, secondo Cioran, per sfuggire al disastro e al fallimento – che lo attraevano miracolosamente. «Mai prima – dice Cioran – avevo conosciuto un tale accordo tra l’apparire e il dire. Cercare era, per lui, molto più una necessità che un’ossessione. Cercare era una fatalità, la sua fatalità, percettibile dal modo di parlare, sopra tutto quando si entusiasmava oppure oscillava senza sosta tra l’ansia e l’ironia. Il suo pensiero si svolgeva in tutte le direzioni, continuamente in lotta contro la tirannia e la nullità delle evidenze, avido delle contraddizioni, spaventato di concludere».

Corriere 12.9.17
«Moretti, nuovo film sul ruolo dell’Italia ai tempi di Pinochet»
L’ambasciatore cileno: sarà un documentario
di Emilia Costantini

Allende, Pinochet e il colpo di Stato: per il suo nuovo film Nanni Moretti sceglie la storia. Il regista sta lavorando a un documentario sugli anni più bui del Sudamerica e la notizia arriva dall’ambasciatore del Cile in Italia. Fernando Ayala Gomez nel corso di un convegno sul golpe dell’11 settembre 1973, che si è svolto a Bologna, ha infatti dichiarato che l’argomento riguarda il ruolo dell’ambasciata italiana in Cile negli anni della dittatura di Augusto Pinochet, dopo la morte di Salvador Allende.
A confermare l’esternazione dell’ambasciatore potrebbe essere il fatto che, guarda caso, nell’aprile scorso Moretti è stato ospite speciale a Santiago del Cile, nello spazio La città e le parole . Una visita molto attesa, tanto che, in previsione dell’incontro con il regista italiano, è stata organizzata una lezione preparatoria per introdurre l’opera del cineasta, cui hanno partecipato il critico Christian Ramirez e l’editore Héctor Soto.
Affermava in proposito il direttore dell’Istituto italiano di cultura Anna Mondavio che ha proposto una retrospettiva di film morettiani, tra cui La stanza del figlio e Mia madre : «È un grande osservatore della società italiana di cui sottolinea i difetti. È un’icona, un gigante del cinema italiano. Attraverso i suoi occhi è possibile capire come funziona la politica, la società, la cultura italiane». E dai critici cileni è stato definito «il più importante cineasta della post modernità», capace di reinterpretare la tradizione dei maestri del dopoguerra, Federico Fellini, Luchino Visconti e Michelangelo Antonioni.
Non è nuovo Moretti ai rapporti amichevoli con il Cile. Si ricorda, ad esempio, che il regista Raul Ruiz, avendo interpretato nel 1989 un piccolo ruolo in Palombella rossa , contraccambiò l’invito offrendo al collega italiano, nel 1996, una piccola parte nel suo film Tre vite e una sola morte . Non è nuovo nemmeno al genere documentario: tra quelli più ricordati, La cosa , girato nel 1990, dove mostra il frenetico dibattito nelle sezioni del Partito comunista italiano all’indomani della proposta da parte di Achille Occhetto di trasformarlo in un nuovo soggetto politico, la cosiddetta «svolta della Bolognina».
Tra i film di contenuto politico, fece scalpore Il caimano (2006) su Berlusconi, mentre Habemus Papam (2011) fu definito profetico rispetto alle dimissioni di papa Ratzinger. Privato e intimista, invece, il suo ultimo lavoro Mia madre (2015), dove il regista mette a nudo i propri sentimenti.

Repubblica  Salute 12.9.17
Cervello
Dolore, rabbia, richiesta di aiuto. La nostra specie li esprime con lacrime e urli. Che hanno origine tra i neuroni. Coinvolgendo sistema simpatico, corde vocali, fisiologia dell’occhio, ormoni. Gli studiosi spiegano che sono un potente antistress
Perché siamo gli unici animali che piangonoLo scorrere delle gocce sul volto innesca il rilascio di endorfine. Le molecole che tranquillizzano
di Davide Michielin

NON IL CANE né il gatto, e nemmeno i nostri parenti più stretti, come oranghi e scimpanzé, ricorrono alle lacrime nel pianto. Un comportamento pressoché unico nell’intero regno animale, descritto da una stupefatta Dian Fossey in una singola ed eccezionale occasione anche in una giovane gorilla costretta alla cattività. Da Darwin in poi, la natura del pianto umano ha stregato intere generazioni di ricercatori. La fisiologica lubrificazione della cornea ha assunto nella nostra specie una profonda valenza emotiva, sulla cui spiegazione si sono cimentati antropologi e biologi, ma anche psicologi e psichiatri, studiosi di anatomia e di fisiologia. Tra loro vi è Carlo Bellieni, neonatologo dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, che da vent’anni studia il dolore nel bambino e ha pubblicato in New Ideas in Psychology un’imponente revisione della letteratura di settore.
«Nella lingua inglese esistono due verbi distinti per l’atto del piangere: crying e weeping», premette Bellieni. Il primo descrive l’espressione di dolore acuto o di rabbia, l’urlo che ci sfugge quando cerchiamo di appendere un quadro al muro e invece finiamo per centrare il dito con il martello. Diverso è il weeping, il pianto con le lacrime, capace di coinvolgere empaticamente chi ci è accanto tramite l’attivazione dei neuroni specchio e di trasmettere un messaggio di richiesta di aiuto immediatamente decifrabile. Uno stimolo non verbale estremamente potente, piazzato in quell’organo di senso che non a caso è definito lo specchio dell’anima. Ma non solo. «Analisi acustiche hanno rivelato che il pianto nasconde un protolinguaggio; oltre una certa soglia di dolore, si attiva il sistema simpatico che tende le corde vocali. Il lamento del neonato diventa costante e acuto, ma soprattutto ritmico: è il cosiddetto pianto a sirena», prosegue Bellieni. La regolarità del fenomeno è scandita da alcune centrali neuronali simili a quelle che regolano la respirazione o la motricità, promuovendo il rilassamento muscolare.
In altre parole, il proverbiale “pianto liberatorio” è a tutti gli effetti un meccanismo di autosollievo, e in quanto tale potrebbe giustificare anche la secrezione delle lacrime, un processo la cui funzione è tuttora sfuggente. Le teorie fisiologiche a riguardo sono infatti numerose, nessuna delle quali pienamente convincente. Alcuni ricercatori suggeriscono che lo schiacciamento del sacco lacrimale sia una semplice conseguenza della contrazione dei muscoli facciali, altri sposano l’idea che si tratti di un meccanismo per espellere le sostanze tossiche, altri ancora lo ritengono fondamentale per umettare le mucose di naso e faringe. Di certo, «al pari di una seduta di massaggi o di una doccia calda, lo scorrere delle lacrime sulla cute del volto innesca il rilascio di endorfine. Il pianto non è una forma di rifugio per i deboli, ma una forma raffinata di antistress. Ecco perché vi ricorriamo anche quando siamo soli», prosegue Bellieni. Numerosi studi ne hanno dimostrato l’efficacia nello stabilizzare l’umore e non a caso teorie come la psicodinamica ne sostengono i benefici, sconsigliando la repressione.
Questo approccio potrebbe inoltre contribuire a spiegare perché l’uomo pianga meno frequentemente della donna. Ormoni e modelli culturali hanno certamente il loro peso, tuttavia è innegabile che, sopratutto nel passato, il volto dell’uomo fosse meno sensibile alle lacrime perché coperto dalla barba e indurito da una maggiore esposizione solare. «Il ragionamento si può estendere anche ai neonati, nei quali le lacrime compaiono a partire dal terzo mese di vita: trascorrendo buona parte del tempo a diretto contatto con la madre o in posizione orizzontale, esse non avrebbero alcuna utilità nei primi mesi», riflette Bellieni. È meno chiaro perché la stessa reazione si accompagni alla risata o a momenti particolarmente felici come la vittoria di una medaglia o la nascita di un figlio. «Forse perché ogni gioia contiene un dispiacere, cioè il presagio della fine imminente dell’evento lieto. Ma al momento si tratta di speculazioni », avverte il neonatologo.

Repubblica Salute12.9.17
Farmaci
Pillole che cancellano il disagio. Non si chiedono al medico per vergogna
Ansiolitici, antidolorifici e antidepressivi. Comprati massicciamente on line. I Nas lanciano l’allarme: è la nuova tendenza degli acquisti illegali. Pericolosa. Perché l’abuso di sostanze può essere anche letale
Sul web c’è lo psicoboom
ELENA DUSI
QUANDO SOFFRIAMO, andiamo su internet. La rete non serve solo a distrarci. Offre anche pillole per tirarci su e cancellare il dolore. Lo strapotere del Viagra e dei suoi fratelli nelle vendite di farmaci illegali sul web è ormai consolidato. Ma alle loro spalle si affacciano ora le medicine che non ti aspetti: antidepressivi, ansiolitici, antidolorifici. Pillole che non portano allo sballo, ma si limitano a cancellare quella patina di disagio che a volte si insinua nella vita. E che potrebbero essere prescritte dal medico di famiglia, ma per vergogna o per abitudine sono spesso ordinate online da chissà dove.
«Negli ultimi due anni abbiamo registrato un boom di sequestri. Ma più che a un fenomeno criminale, con antidepressivi e ansiolitici siamo di fronte a un fenomeno sociale», dice il tenente colonnello Andrea Zapparoli, alla guida del reparto operativo dei Nas a Roma. Nel 2014 - data dell’ultimo rapporto sui farmaci acquistati illegalmente online - l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) citava 93mila pillole sequestrate, di cui 64mila di Viagra e simili e circa 4mila a pari merito destinate al sistema nervoso o per dimagrire. «Un tempo vedevamo circolare su internet pasticche per i culturisti, per le disfunzioni erettili e per le diete. Poi è iniziato il boom di ansiolitici e antidepressivi », conferma Luca Pani, psichiatra, neurofarmacologo ed ex direttore dell’Aifa: «Ricordo nel 2016 un sequestro di Xanax contraffatto. Veniva dalla Cina e lo intercettammo in Svizzera. Era indistinguibile dall’originale, ma di principio attivo non c’era l’ombra. E per fortuna, direi. Perché quando dentro ci sono dosi sbagliate o sostanze pericolose può andare molto peggio».
Oltre allo Xanax (ansiolitico), in rete va forte anche il Diazepam (ingrediente, fra gli altri, del Valium) contro l’insonnia. «A marzo – racconta Zapparoli – all’aeroporto di Bergamo ne abbiamo sequestrate 500 pillole. Venivano dal Ghana, ma non sappiamo dove fossero state fabbricate. Erano state contraffatte con enorme perizia e contenevano effettivamente il principio attivo. Le aveva ordinate un uomo di Trento a 5mila euro. Il processo non si è ancora svolto, ma ci siamo fatti l’idea che fossero per uso individuale, non a scopo di smercio, come invece avviene spesso per i culturisti».
A differenza degli anabolizzanti per i body builder, delle anfetamine o di altre pasticche pesanti, ordinare antidepressivi sul web è piuttosto semplice. «Spesso – spiega l’ufficiale dei Nas - gli utenti che cercano droghe usano il dark web per non essere rintracciati e ricorrono a parecchi espedienti per sfuggire ai controlli. Ma nel caso degli ansiolitici in genere non si usano grandi cautele. Si va su un motore di ricerca e si sceglie una delle migliaia di farmacie online. Sperando che vada bene. A volte si paga e non arriva nulla. Altre volte arrivano sostanze pericolose. Per avere consigli dagli altri utilizzatori spesso si va sui forum».
A luglio un rapporto di Federfarma citava 6mila siti per la vendita di farmaci bloccati dalle autorità giudiziarie dall’inizio dell’anno perché illegali. Nel 2016 erano stati 20mila. «Quando individuiamo un sito, lo monitoriamo e seguiamo gli ordini che riceve - spiega Zapparoli - e abbiamo una collaborazione con l’agenzia delle dogane. A volte gli utenti danno nomi e indirizzi falsi. Ma alla fine il corriere deve pur raggiungerli per portare il pacco a casa. E può capitare che al momento della consegna ci siano proprio i nostri uomini».
Sulle cause del boom di questo mercato Luca Pani offre alcune ipotesi. «Può darsi che il medico di famiglia non voglia prescrivere ansiolitici o antidepressivi. Che il paziente si vergogni a chiederli. Ma forse la verità è che ordinare tutto con un clic ormai è diventato un’abitudine. E per pura inerzia ci si affida a internet anche per farmaci che potrebbero rivelarsi assai pericolosi». Abusare di ansiolitici, si sa, può mettere a repentaglio la vita. «E anche gli antidepressivi possono avere effetti molto gravi, se presi in eccesso - prosegue Pani - la loro soglia di tossicità è bassa. Basta superare di poco le dosi consigliate per rischiare seriamente la vita». Ma in questo campo, sostiene Zapparoli, è la domanda che crea l’offerta: «Oggi c’è soprattutto bisogno di sfuggire dalla realtà. La vita così com’è non ci piace e allora cerchiamo una pillola per indorarla».

Repubblica 1.9.17
Stress
Ma anche traumie burn-out Tre esperienze italiane e molti studi dimostrano che latecnica giapponese cura i disturbi psicosomatici
Lo shiatsu che penetra la mente
I trattamenti mirati migliorano le capacità relazionali. E aiutano a gestire le emozioni e l’aggressività
di Paola Emilia Cicerone

RICORRERE allo shiatsu per combattere malattie psicosomatiche, stress e disturbi collegati come il burn out. Funziona. Come confermano vari studi, tra cui un’importante ricerca coordinata dall’università di Leeds realizzata in tre paesi europei. Ma anche da esperienze come quella della Federazione italiana shiatsu insegnanti e operatori - Fisieo - che ha portato i volontari ad Amatrice e Norcia per offrire trattamenti alle popolazioni colpite dal sisma.
«Lo shiatsu nasce in Giappone, ma affonda le sue radici nella medicina tradizionale cinese, la prima medicina psicosomatica organizzata della storia - spiega lo psicologo Fabio Zagato, presidente della commissione formazione della Fisieo - per l’operatore shiatsu, corpo e mente non sono realtà separate ma inseparabili e indivisi, come le due facciate di un foglio di carta». Per questo è adatto per trattare condizioni che hanno ricadute sia sul piano mentale sia su quello fisico. «Il trattamento serve a ristabilire l’equilibrio compromesso da circostanze esterne, e a sostenere le capacità di autoriparazione che l’organismo mette continuamente in atto, in generale ma anche in relazione a problemi specifici», spiega Zagato. Come lo stress generato da attività mentali ripetitive, oppure il burn out, «che si manifesta quando si deve fare fronte a compiti impossibili, con la frustrazione di non poter raggiungere l’obiettivo, e si utilizzano le proprie risorse senza fare attenzione ai segnali di malessere che l’organismo ci invia», prosegue lo psicologo.
L’obiettivo è intervenire prima che il problema si manifesti: “Pensereste di scavare un pozzo quando si sta già morendo di sete? O di forgiare le armi quando il nemico è già in città?”, recitano antichi detti cui fanno riferimento gli operatori shiatsu. «La nostra è un’attività di prevenzione che passa anche regole di vita», chiarisce Zagato. L’operatore shiatsu non fa diagnosi, ma deve capire se la situazione energetica di un individuo è compromessa e apre la strada a un disturbo, e anche quando bisogna rivolgersi al medico per accertare l’eventuale presenza di patologie.
A confermare l’efficacia degli interventi antistress ci sono le esperienze realizzate con buoni risultati dall’organizzazione di volontariato della Federazione. Due hanno interessato operatori di comunità riabilitative e centri anziani,«che lavorano in situazioni particolarmente delicate per la vulnerabilità dei pazienti », spiega il presidente Renato Zaffina. Ad Ancona è stato proposto un ciclo di trattamenti agli operatori di una comunità riabilitativa, con risultati positivi in termini di benessere psicofisico. Come anche l’intervento realizzato in una struttura che accoglie anziani con demenza in provincia di Catanzaro. «Lo shiatsu - spiega Zaffina - migliora la percezione di sé e dell’altro, aiutando gli operatori a migliorare il contatto con i loro pazienti». Di taglio diverso la terza esperienza, promossa all’istituto scolastico Perri Pitagora di Lamezia Terme per migliorare le capacità relazionali e aiutare i bambini - di nove/dieci anni - a gestire meglio le emozioni, controllare l’aggressività e superare lo stress.