La Stampa 10.9.17
“Io, ultimo amore di Ungaretti. Il suo fascino era irresistibile”
Mondadori
pubblica leLetterea Bruna Bianchi, italiana di San Paolo Ventiseienne,
seppe accendere la passione del settantottenne poeta
di Mario Baudino
Si
incontrarono alla Ca’ d’oro, l’unico buon albergo di San Paolo,
proprietari veneti. Bruna Bianco aveva 26 anni, da dieci era in Brasile e
lavorava per l’azienda vinicola del padre. Scriveva poesie un po’
scolastiche «come accade alle ragazze veramente stupide», ci racconta
nella casa di Pietra Ligure che alterna alla residenza brasiliana, e non
sapeva nulla di Giuseppe Ungaretti. Ma adorava sentir parlare italiano e
aveva letto sul giornale che era un importante poeta: decise di
conoscerlo, fece irruzione in albergo, fu un colpo di fulmine. «Lo stavo
aspettando nella Hall. Come entrò, non capii che cosa mi stesse
accadendo. Parlammo per un’ora, mi invitò a colazione, mi chiese il
numero di telefono».
Allora, in Brasile, un telefono privato era
ancora una costosissima rarità. L’invito fu respinto, il numero -
l’unico che c’era, quello dell’ufficio - fu invece concesso, e i due si
separarono. «Mi abbracciò e mi accompagnò con un lungo gesto delle mani.
Tutto il mio corpo fu solcato da una lunga, intima vibrazione, da un
piacere sensoriale che non avevo mai provato».
Il poeta
settantottenne aveva un fascino intatto, unico - e già sperimentato con
altre donne. Ma questa volta fu l’uomo a imporsi. «Avevo conosciuto un
uomo così totale che, pensai, avrei potuto presentarlo immediatamente a
mio padre per annunciare che intendevo sposarlo. Ero turbata. Nessuno
mai che mi avesse fatto vibrare così follemente al tocco di una mano».
Ungaretti
doveva lasciare San Paolo ma promise di tornare. Pochi giorni dopo il
telefono dell’ufficio squillava imperiosamente, e di lì in poi ebbe
inizio la storia narrata insieme a tante altre cose da questa lettere.
Tre anni di passione con rari incontri: sei in tutto, 3 in Brasile, 3 in
Italia. «Ha presente quella carta antimosche che si usava un tempo? Io
ero come una mosca, appiccicata alla carta di un amore venuto fuori con
una forza inarginabile, un amore fatto di mani, la parte più sensuale di
quell’uomo». Scrissero insieme (le poesie di Dialogo) sognarono
insieme, e alla fine pensarono al matrimonio. «Nel ’69, Ungà (così si
firmava nelle lettere, perché, spiega subito, «Ungà (…) è il nome che mi
dà chi mi vuol bene». N.d.r.) incaricò lo scultore Ninì Santoro di
preparare le fedi, era tutto pronto perché venisse in Brasile per il mio
compleanno. Dopo la cerimonia ci saremmo trasferiti in Italia». Sì, ma
dove? Ungaretti abitava con la figlia e il genero, una stanzetta nel
loro appartamento all’Eur, non era certo ricco, ad onta della fama e
della popolarità conquistata con le sue straordinarie letture televisive
dell’Odissea.
«L’idea di un casa a Canelli, dove la mia famiglia
poteva aiutarci, mi sembrò infastidirlo, aveva un suo orgoglio». Sperava
nel Nobel (ne parla diffusamente con Bruna), che non venne. E ci fu chi
in Italia ostacolò il progetto, tanto che «qualche mia lettera
sicuramente non gli è stata consegnata». Incomprensioni, silenzi. «Il
mio amore per te arde sotto le ceneri» fu la dedica - preoccupante - che
le scrisse sulla copia di Dialogo», il libro con le loro poesie. Per
Bruna Bianco, un segno che non si poteva ignorare. «Ci eravamo promessi
che se il nostro amore si fosse allentato, non ci saremmo più scritti».
Non
sarà arretrato davanti a un passo troppo impegnativo, data la
situazione? «No, era troppo grande per le piccole cose. Era un uomo:
solo la seconda volta che ci siamo incontrati ho cominciato capire che
era anche un grande poeta». E dopo? «Dopo, ho dovuto ricominciare da
capo, azzerare tutto. E mai più un verso». La timida poetessa innamorata
diventa un grande avvocato brasiliano, crea una famiglia. In qualche
modo, senza farsi condizionare da quella vasta ombra. «E sa perché? Me
lo aveva già scritto lui: perché sono un soldato. Voleva che fossi
felice. Lo sono stata. Ho avuto altre persone, ma mai come Ungà».