domenica 10 settembre 2017

Corriere La Lettura 10.9.17
Ti amo. Ti bacio. Il tuo Unga
Giuseppe Ungaretti aveva 76 anni, lei 26
di Roberto Galaverni

Giuseppe Ungaretti scrisse a Bruna Bianco almeno 377 lettere d’amore in due anni e mezzo soltanto, tra il settembre del 1966 e l’aprile del 1969. Basterebbe forse questo a dire dell’intensità, della necessità, del trasporto di una corrispondenza oltre-oceanica scritta in nome di una passione che ha segnato e, alla lettera, reso incandescenti gli ultimi anni di vita del poeta. Dall’inizio alla fine senza il minimo calo di battiti e di temperatura, senza un rientro nella norma quotidiana o ordinaria, senza che un argomento, una frase, anche una sola parola, non fosse che il riverbero di quel sentimento così forte e totale. «Ecco, caro amore mio, tutto. Ti penso sempre, Ti amo. Ti bacio. Il Tuo Unga», così si chiude l’ultima lettera.
Questa corrispondenza, anche se solo per la parte di Ungaretti, si può trovare ora raccolta nel volume Lettere a Bruna , che Silvio Ramat ha curato con grande competenza per Mondadori. Ungaretti aveva conosciuto Bruna in Brasile, dove si era recato per tenere alcune conferenze, ma anche per visitare a San Paolo la tomba del figlioletto morto nel 1939, a 9 anni soltanto, per un’appendicite mal curata (a San Paolo il poeta aveva insegnato all’Università tra il 1937 e il 1942). Bruna gli si era avvicinata proprio al termine di una conferenza per consegnargli qualche suo verso, e da lì, da quel momento, era nato tutto.
Le prime lettere vengono inviate già dalla motonave su cui lo scrittore stava rientrando dal Sud America. Originaria delle Langhe, da una decina d’anni Bruna vive con la famiglia in Brasile, dove il padre ha aperto una filiale della sua azienda produttrice di spumanti. Anche se è laureata in giurisprudenza, è lì che lavora, nell’amministrazione. È bella, aggraziata, elegante, ma soprattutto molto giovane. Ha infatti 26 anni, 52 in meno del grande, vecchio poeta, che in quel momento ne ha 78. La «legge dell’età», come viene chiamata, graverà infatti sul loro intero rapporto, in qualche misura sempre angustiando un Ungaretti mai così attaccato alla vita, ma senza tuttavia ostacolare l’amore, e anzi, come in genere gli impedimenti, legittimandolo e rafforzandolo oltre misura.
Come spiega Ramat, «la corrispondenza è intervallata da periodi nei quali Bruna e Ungà non hanno bisogno di scriversi poiché due volte ritorna lui in Brasile, due volte arriva lei in Italia». Di conseguenza, l’epistolario è stato suddiviso in cinque capitoli, corrispondenti ad altrettanti piccoli cicli non soltanto cronologici della vicenda amorosa.
Ma di che cosa parla Ungaretti quando scrive a Bruna? È presto detto: parla di tutto eppure di nient’altro che non sia il suo amore. Credo che su questo aspetto Ramat abbia visto giusto nella sua introduzione. Non ci sono scene o quadretti autonomi, pezzi di bravura, racconti o raccontini che contengano in sé il proprio fine. Così, se una possibile chiave di lettura di queste lettere si può indicare, sta proprio qui: resoconti di viaggi, cronaca della vita, informazioni, aneddoti, constatazioni, scoperte, giudizi sugli uomini e sul tempo presente, riflessioni sull’arte e la letteratura, consigli e insegnamenti (anche sull’arte poetica), perfino i ricordi e i rimorsi (anzitutto quello per la propria «passiva complicità con il fascismo»), tutto è scritto pensando a lei o comunque confessando senza riserve quello che la passione ha provocato in lui — sensi, cuore, mente, tutto insieme — quasi che il poeta volesse, proprio come accade nelle antiche canzoni, trovare la forza per spingere le sue parole al di là di un oceano che è anche quello di una differenza d’età e di destino che non potrà essere superata. Certo, esistono lettere migliori di altre, pagine più reattive e interessanti, più vive; ma ogni parola andrà comunque letta tenendo ben presente il fuoco o, se si preferisce, la freccia d’amore che la genera, senza poi perdere mai di forza, senza mai precipitare nell’acqua.
Il sentimento, diciamo pure il romanticismo di queste lettere è dunque estremo, smisurato. In fondo, succede con Ungaretti quello che capita con tutti gli innamorati: si scrive a chi si ama per essere veri, semplici, diretti, e dunque per bucare la pagina, per spazzare via la letteratura; si scrive per dire che non si tratta di parole ma di realtà, di una persona in carne e ossa che vive e sente, che patisce e gioisce; e si scrive, ancora, per affermare l’unicità del proprio sentimento e per fare della parola (com’è difficile, com’è impossibile, però) qualcosa che gli occhi, la bocca, le mani, non possono avere, non possono toccare.
Ungaretti se ne rammarica più e più volte, tant’è che ritorna sempre lì, sulle stesse parole che vogliono immediatamente essere gesti, baci (molti, moltissimi ne vengono mandati), corpo, respiro, contatto. L’estasi e, al contempo, la forza drammatica delle lettere si trova anzitutto in questa tensione. In una tra le prime, scrive ad esempio: «Mi stringo con le due mani il viso, e l’accarezzo, e nel mio viso rinasce il Tuo nelle mie mani, la più cara cosa, la sola che amo su tutte, l’anima della mia anima, sei l’anima della mia anima, l’ultima forza che mi resta, l’ultima mia poesia, la vera, l’unica vera». Il valore di testimonianza estrema ma comunque sostitutiva, inadeguata della parola raramente si fa sentire tanto come in queste occasioni. Capita allora che le frasi fatte, la parole comuni, quelle che almeno una volta tutti (così spero, almeno) abbiamo detto, anche e tanto più sulla bocca del vecchio poeta si rivelino le più efficaci, le più dirette e toccanti. Le ripete in ogni momento, ossessivamente, come un ragazzino, perché in fondo non gli è possibile dire altro. Ecco allora i tanti attacchi che si susseguono come minime variazioni l’una dell’altra: «Amore mio», «Anima mia» (il più ricorrente), «Luce mia», «Angelo mio», «Amorissimo mio», «Piccolina mia», «Sposina mia», ma anche: «Amore inverosimile, amore incredibile, intrepido amore, ritemprante amore, amore illuminante, graziosa mia sovrana». E allo stesso modo i congedi: «Ti amo immensamente. Ti amo. Ti bacio», o ancora: «Ti amo tanto, tanto, tanto».
Bruna — Ungaretti lo dichiara più volte — è per lui l’amore, la Musa, la poesia, e dunque la vita stessa. Energia e forza si avvertono da tutte le parti, ma sono sempre indirizzate bene, volta a volta con entusiasmo, furia, dolcezza, candore, malinconia, anche tristezza. Non si trova praticamente nulla dell’Ungaretti incattivito e polemico, talora anche malevolo, che tante volte affiora, ad esempio, nelle lettere a Leone Piccioni, suo allievo, ma poi amico e confidente elettivo ( L’allegria è il mio elemento. Trecento lettere con Leone Piccioni , uscite sempre per Mondadori nel 2013 a cura di Silvia Zoppi Garampi). No, qui il poeta, l’uomo, vuole dare il suo meglio. A volte, certo, come niente fosse fa un po’ mostra di sé e dei propri successi, a volte assume un tono un poco saputo e didascalico. Potremmo anche dire che ci tiene a fare bella figura agli occhi di lei.
Ma è proprio questo il punto, anzi, il bello delle lettere, perché è appunto qui che Ungaretti si mostra più naturale e scoperto, più arreso al volere della sua stessa passione. Il fatto è che quello che ha fatto e scritto non è sufficiente, non serve, non importa. Non gli basta la sua figura consolidata, non gli basta la gloria poetica, il passato, perché sente di essere vivo qui e ora, sente di essere vivo per lei. E deve dirlo. «Sono furente d’amore. Urlo come una belva — alla mia bell’età — d’amore; ma sono un prodigio. La poesia salva un uomo dagli anni, rimane fino all’ultimo un bramoso, con i bramiti. T’amo, T’amo, t’amo, e ti bacio fino all’oblio di me e di tutto».