Corriere La Lettura 10.9.17
Vengono rivendicate diverse forme di supremazia territoriale, economica e politica
I fronti del Pacifico
di Manlio Graziano
Il
fronte del Pacifico rappresenta oggi il punto più fragile degli
equilibri politici internazionali. A prescindere dalla Corea del Nord.
In quella regione sono coinvolte le prime tre grandi potenze in termini
di prodotto, lì si concentra la metà del Pil mondiale e da lì transitano
merci per 5.300 miliardi di dollari all’anno (dati 2015). Ma non è
tutto: nell’area del Pacifico convive un gruppo di Paesi orgogliosi,
dall’individualità nazionale molto netta. E infine, ed è questo
l’elemento più importante, i pesi relativi tra quei Paesi sono
drasticamente mutati nel corso degli ultimi decenni, rendendo ancora più
precario il quadro generale. In un simile contesto, la Corea del Nord è
una macchiolina sullo sfondo, ingigantita dall’uso spregiudicato che
gli altri ne hanno sempre fatto per lanciarsi velenosi avvertimenti
obliqui.
Russia e Cina
Le superpotenze di quell’area — Cina,
Giappone, Russia e Stati Uniti — non solo si sono costantemente
misurate tra di loro ma hanno anche regolarmente trascinato nelle loro
rivalità altri Paesi fieri della propria storia e della propria
indipendenza: Corea, Filippine, Vietnam, Cambogia, Thailandia,
Indonesia. Senza dimenticare l’Australia, e senza ignorare il ruolo solo
apparentemente esterno dell’India che, degli equilibri asiatici, è uno
dei pesi più rilevanti.
La Russia e il Giappone si sono battuti a
lungo per il controllo del mar Giallo, situato tra la penisola coreana e
la Cina continentale. Dopo la vittoria nel 1905, i giapponesi
occuparono sia la Manciuria che la Corea, e lo stesso fecero i russi
dopo la vittoria del 1945 (anche se dovettero spartire la Corea con gli
americani e restituire la Manciuria ai cinesi dopo l’ascesa al potere di
Mao nel 1949). Quell’ostilità ha lasciato tracce profonde: tutti
conoscono le animosità e i sospetti mai sopiti tra Cina, Corea e
Giappone; ma nei pensieri dei dirigenti di quei tre Paesi, la Russia, e
la minaccia che essa rappresenta, non sono mai molto lontane. E
reciprocamente: la Russia non può che considerare con apprensione una
Cina sempre più assertiva e un Giappone che, nonostante i suoi ormai tre
«decenni perduti», resta comunque la terza potenza economica mondiale
(con la quale, tra l’altro, Mosca non ha mai firmato un trattato di
pace). Nel 1949, Stalin poteva permettersi di restituire la Manciuria a
Mao perché considerava la Cina come una sorta di protettorato russo;
oggi i rapporti di forza tra i due Paesi si sono rovesciati. I russi
sanno bene che Vladivostok e il suo retroterra (circa 1.600 chilometri
di costa tra le foci dell’Amur e dell’Ussuri, di fronte all’isola di
Sachalin) erano cinesi fino XIX secolo; e sanno ancora meglio che, oggi,
alla frontiera con la Manciuria c’è uno squilibrio demografico
impressionante: 7 milioni di persone sul lato russo, 70 sul lato cinese.
La
collaborazione tra Russia e Cina in seno alla Organizzazione per la
Cooperazione di Shanghai (Ocs) è vista da molti come la prova che i due
Paesi hanno finalmente superato i rancori della storia e trovato
un’intesa strategica; ma il fatto che due (o più) potenze possano avere
uno scopo comune (in questo caso, tenere gli Stati Uniti il più lontano
possibile dall’Asia) non significa che i loro contenziosi sugli altri
fronti siano scomparsi. Nel caso specifico, anzi, l’Ocs è nata anche per
permettere a Mosca e Pechino di sorvegliarsi a vicenda, non solo in
Manciuria ma, soprattutto, in Asia centrale — cioè in aree dove il loro
antagonismo geopolitico è insanabile.
L’offshore balance degli Stati Uniti
Anche
per Giappone e Corea del Sud la preoccupazione comune è la Cina; ma la
loro identità di vedute finisce lì. Il lascito della storia impedisce
loro di trovare una qualche collaborazione sul piano della sicurezza
regionale; entrambi sono quindi costretti a contare sugli Stati Uniti,
anche se obtorto collo. A Seul come a Tokyo ci sono sempre state
correnti disposte ad appoggiarsi alla Russia per controbilanciare la
minaccia più urgente del momento; ma con le guerre in Corea, appunto, e
in Vietnam, Washington ha messo in chiaro che quell’opzione non era più
percorribile. Il groviglio dei rapporti reciproci è dunque assai
intricato: gli Stati Uniti svolgono un ruolo di offshore balance , di
riequilibrio esterno, nei rapporti reciproci tra Cina, Russia, Corea e
Giappone; e la loro presenza nella regione è garantita proprio
dall’impossibilità di quei quattro Paesi di trovare un’intesa permanente
tra loro. Ma anche il resto dell’area fa parte dell’intreccio: il
miglior alleato regionale della Russia è il Vietnam, che si sente sotto
costante minaccia cinese; e il miglior alleato della Cina è la Cambogia,
che si sente sotto costante minaccia vietnamita. Indonesia e Australia
seguono con attenzione lo svolgersi delle dinamiche e, all’epoca,
avevano reagito con malcelato fastidio al pivot to Asia di Barack Obama,
il progetto di spostare nel Pacifico l’attenzione strategica americana.
Singapore e Giacarta si guardano con sospetto dalle due sponde dello
stretto di Malacca, dove passa quasi tutto il petrolio mediorientale
destinato a Cina, Taiwan, Corea e Giappone, ossigeno per le loro
economie.
Se gli Stati Uniti fanno da offshore balance a Oriente,
l’India svolge un ruolo simile a Occidente: i rapporti politici sul
fronte del Pacifico sarebbero incomprensibili se si facesse astrazione
degli uni o dell’altra. Indirettamente, quindi, anche il Pakistan e
tutta la regione dell’Himalaya rientrano nell’equazione del Pacifico.
Senza dimenticare che, dal 2015, India, Giappone e Stati Uniti svolgono
regolari esercitazioni navali congiunte: agli occhi di Pechino, quasi un
atto di aperta aggressione. Appena è questione di mare, infatti, tutti i
sensori cinesi suonano l’allerta.
Pechino e il mare
Quando
si parla di peso della storia, si intende che le rivalità reciproche
sono tutt’altro che recenti. Nel corso della storia, però, i rivali
mutano di peso e d’importanza. Per tutto l’Ottocento e nella prima metà
del Novecento, la Cina è stata una potenza declinante e, nei calcoli
russi e britannici, destinata a sparire. Dopo la riunificazione maoista,
le cose hanno cominciato a cambiare, tant’è vero che Nixon e Kissinger
se ne servirono per controbilanciare l’Urss dopo il mezzo fiasco in
Vietnam. Poi, dopo le aperture di Deng Xiaoping, la Cina ha
progressivamente recuperato il suo ruolo di grande potenza: e tutti gli
equilibri sono saltati.
Pensando, come Stalin, che la Cina maoista
fosse un protettorato russo, gli Stati Uniti lanciarono ai tempi della
guerra di Corea la strategia della «doppia catena di isole»: la serie di
isole dall’Hokkaido al Borneo doveva restare in mano a Paesi amici
(Giappone, Formosa, Filippine, Vietnam e Malaysia), ed essere
consolidata da una seconda catena, più al largo, allora controllata
dagli americani (Iwo Jima, Guam, Marianne e Caroline). All’epoca
dell’autarchia maoista, quella strategia non ha granché nuociuto alla
Cina; quando però il Paese si è aperto al mercato internazionale, la
«doppia catena» è diventata una minaccia: più gli scambi commerciali
aumentavano, più la protezione delle rotte commerciali marittime — circa
il 90% del volume totale dei suoi scambi — diventava per la Cina una
priorità geopolitica.
Pechino è oggi fermamente intenzionata a
riacquistare la sovranità marittima, che è anche sovranità militare, a
costo di provocare il confronto con i suoi vicini — e col grande
protettore dei suoi vicini, gli Stati Uniti. Nel 2012, il governo ha
adottato una nuova carta geografica ufficiale che permette di
visualizzare la nine-dash line (linea dei nove tratti) nella sua
integralità. Quella linea fu tracciata da Chiang Kai-shek nel 1947, e
adottata tale e quale da Mao come frontiera marittima del mar Cinese
meridionale: due milioni di chilometri quadrati che inglobano parte
delle acque territoriali (secondo le convenzioni internazionali firmate
anche dalla Cina nel 1982) di Taiwan, Vietnam, Filippine, Malesia e
Brunei, più un’ampia fascia di acque internazionali. Secondo Pechino, la
«sovranità incontestabile» di quelle «acque storiche» risalirebbe a
duemila anni fa, e sarebbe quindi anteriore ai trattati del 1982. A
quella disputa, che ha dato luogo a numerosi incidenti col Vietnam e le
Filippine soprattutto, si aggiungono altre rivendicazioni marittime,
come quella sulle isole Senkaku-Diaoyu (7 chilometri quadrati), nel mar
Cinese orientale, controllate dal Giappone, o sullo scoglio di Socotra,
rivendicato anche dalla Corea del Sud, sui quali Pechino ha
unilateralmente stabilito una zona di identificazione aerea nel 2013.
La guerra per le isole
All’interno
della nine-dash line si trovano le isole Paracel, situate di fronte
alle coste del Vietnam, occupate da Pechino nel 1974 e instancabilmente
rivendicate da Hanoi. E soprattutto si trovano le cosiddette «isole»
Spratly, in realtà uno sciame di una quarantina di scogli e di atolli
inabitabili per un totale di meno di due chilometri quadrati di terra
calpestabile, ma sparsi su quasi mezzo milione di chilometri quadrati,
contesi tra Cina, Vietnam, Taiwan, Filippine, Malaysia e persino il
sultanato del Brunei. Molti asseriscono che la disputa sia solo
economica: quelle acque farebbero gola perché, si dice, ricche di
petrolio e pesce. È difficile però pensare che Pechino vi costruisca
isole artificiali con tanto di aeroporti (come sta facendo) e sia
perfino disposta a rischiare un conflitto solo per ragioni di ipotetici
giacimenti e alta pescosità. La Cina vuole il libero accesso al Pacifico
e all’Oceano Indiano; petrolio e pesce sono certo importanti, ma la sua
libertà di movimento, e la libertà di movimento delle sue merci, sono
più importanti ancora.
Lo scontro delle civiltà , il celebre e
controverso libro di Samuel Huntington, si concludeva su un’ipotesi che,
quando apparve nel 1996, poteva apparire fantascientifica: una guerra
mondiale provocata da un iniziale conflitto tra Cina e Vietnam per le
isole Spratly. Per non perdere credibilità di fronte ai suoi alleati
regionali, immaginava Huntington, gli Stati Uniti correvano in soccorso
del Vietnam contro la Cina, dando origine a un concatenamento di eventi
del tipo di quello sfociato nella Prima guerra mondiale.
Nello
scenario di Huntington, la guerra scoppiava perché gli Stati Uniti
avevano rispettato i loro impegni; oggi, il rischio è esattamente
l’opposto. I calcoli politici si fanno mettendo in conto anche gli
imponderabili, ma con tutti gli attori al loro posto. Oggi, non è dato
di sapere se gli Stati Uniti sono ancora al loro posto. La nuova
presidenza è stata inaugurata con il ripudio del più ambizioso piano di
inserimento degli Stati Uniti nella regione, il Trattato transpacifico
di libero scambio (Tpp), e quella prima mossa è stata sufficiente a
rimettere in movimento la slavina degli equilibri regionali. Si potrebbe
pensare che gli avversari degli Stati Uniti si rallegrino della
scomposta cacofonia che regna oggi nella gestione della politica estera
americana, ma non è così: infatti, se nei prossimi anni quel caos
diventasse permanente, sul fronte del Pacifico tutti, amici e avversari,
sarebbero tentati — o addirittura costretti — a «fare da sé», riaprendo
inevitabilmente le ferite di un passato che non passa.
Sul fronte del Pacifico, gli elementi di fragilità non mancano. Oggi, però, la fragilità maggiore si trova a Washington.