Corriere La Lettura 10.9.17
I fronti dell’Africa
A partire dalle rivoluzioni del 2011 intere aree del Continente sono state inglobate in una «mediorientalizzazione» della guerra
di Antonio Morone
La
guerra, in tutta la sua drammaticità, ha costituito un tratto permeante
della storia contemporanea di molte società africane. I conflitti in
Africa hanno spesso cause complesse che non si possono ridurre alle
cosiddette «guerre tribali» e a un’immagine stereotipata degli africani,
primitivi, organizzati in tribù e quindi intrinsecamente inclini a
farsi la guerra l’un l’altro. Al contrario le guerre sono il portato di
processi storici di lungo periodo (il colonialismo e il nazionalismo
soprattutto) che si sono intrecciati con le dinamiche di un ordine
mondiale nel quale il continente africano è stato spesso relegato, suo
malgrado, a periferia di qualcos’altro. La guerra allora è stata anche
una risposta per riaffermare una centralità dell’Africa e degli africani
rispetto a interessi, ingerenze e interferenze esterne.
Se
durante gli anni della guerra fredda i conflitti africani si svolsero
prevalentemente all’interno degli Stati (movimenti secessionisti o
rivoluzionari), dopo il 1990 le guerre africane sono state combattute
tra gli Stati oltre che all’interno dello Stato. La forte
interdipendenza tra la dimensione interna ed esterna della guerra ha
finito per travolgere e lacerare intere società, oltre a mettere in
crisi la tenuta delle istituzioni statali, per lo meno nelle forme e
lungo i confini ereditati dal passato dominio coloniale. In questo
quadro non convenzionale della guerra, che durante gli anni Novanta ha
fatto parlare di «nuove guerre», non è stata l’economia a ristrutturarsi
in funzione delle necessità belliche, ma è stata l’instabilità legata
alla guerra a creare nuove dinamiche economiche (spesso illegali). Anche
per questo motivo, molti conflitti in Africa hanno dimostrato una
capacità di radicarsi e durare a lungo, alimentandosi delle logiche
neopatrimoniali funzionali alla guerra stessa: le risorse dello Stato
non sono messe al servizio di tutti i cittadini, ma del solo gruppo
dirigente e dei suoi clienti, mentre l’alternanza di governo passa
spesso per una nuova fase del conflitto. La disuguaglianza sociale ed
economica, ancora prima della violenza, costituisce allora il tratto
saliente di tanti conflitti in Africa.
Negli anni più recenti, dal
2011, una nuova tendenza è stata l’inclusione di intere aree africane
nelle logiche della guerra in Medio Oriente. Afghanistan, Iraq, Siria,
Yemen, Somalia, Sudan, Nigeria, Mali e Libia sono oggi fronti diversi di
un’unica grande guerra transnazionale che si sta combattendo per
l’islam, al punto da aver fatto passare in secondo piano il conflitto
arabo-israeliano. In questo quadro, la «mediorientalizzazione» del
conflitto somalo durante gli anni Duemila ha solo anticipato una
tendenza che oggi riguarda non solo il Corno d’Africa, ma l’intera
regione sahelo-sahariana oltre a quella mediterranea. I movimenti
jihadisti combattono prima di tutto una guerra contro altri musulmani
per affermare una società improntata a una visione rigorista dell’islam e
a un modello statuale alternativo allo Stato-nazione. Solo in seconda
battuta viene il confronto diretto con l’Occidente, una guerra
asimmetrica che non si fa scrupolo di ricorrere al terrorismo
internazionale come strumento di lotta.
Congo e Grandi Laghi
Nel
corso del 2017 è tornata a salire la tensione nelle province orientali
(Kivu e Kasai) della Repubblica democratica del Congo, dopo che nel
dicembre 2016, alla scadenza del secondo mandato, il presidente Joseph
Kabila ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di cedere il potere.
Il Congo è stato l’epicentro di una guerra regionale che tra il 1996 e
il 2003 ha visto l’intervento degli eserciti di Angola, Zimbabwe e
Namibia a sostegno del governo di Laurent-Désiré Kabila (padre di
Joseph) contro il tentativo di Ruanda e Uganda di controllare almeno una
parte del Paese, dopo aver appoggiato Kabila nella lotta all’ex
dittatore Mobutu Sese Seko. A dispetto degli accordi di pace del 2003,
ugandesi e ruandesi non si sono mai rassegnati a rinunciare alle ricche
province minerarie del Congo orientale, alimentando una guerra per
procura difficilmente contenibile dal contingente di peacekeeping
dell’Onu. Fin dall’indipendenza nel 1960, fu difficile trovare un chiaro
riferimento nazionale per uno Stato nei cui confini nessuno dei
principali gruppi linguistico-culturali (Luba, Kongo, Mongo, Azande e
Lunda) costituiva la maggioranza della popolazione.
Il problema
del Congo è il problema di tanti Paesi africani nei quali i confini di
derivazione coloniale hanno arbitrariamente messo insieme società
diverse per lingua, cultura e storia: in un contesto di estrema
debolezza della nazione, una componente sub-nazionale (o etnica) può
allora aspirare a farsi nazione, ridisegnando i confini dello Stato. Non
a caso per l’Organizzazione dell’unità africana (Oua), nata nel 1963 ad
Addis Abeba, l’intangibilità dei confini e il principio di non
interferenza negli affari interni di un altro Paese membro
rappresentavano la migliore risposta a crisi come quella del Congo del
1960, quando la provincia mineraria del Katanga tentò senza successo la
carta della secessione, grazie al sostegno dell’ex potenza coloniale
belga e del governo bianco sudafricano. L’incapacità dell’Onu di
arginare questa e tante altre crisi africane lasciò all’Oua la speranza
di attuare soluzioni africane per le crisi del continente.
Somalia e Corno d’Africa
La
guerra civile iniziata in Somalia nel 1991 ha portato a una
riorganizzazione dello spazio somalo con la nascita nella regione
centro-settentrionale del Somaliland (1993) e del Puntland (1998), due
«quasi-Stati» mai riconosciuti a livello internazionale. Al contrario il
Sud della Somalia ha continuato a essere l’epicentro di un conflitto
che è spesso stato definito come paradigma della guerra clanica o
tribale e del collasso dello Stato. In realtà è proprio la metafora del
clanismo a fungere da copertura per un insieme di violenze contro civili
inermi che altrimenti sarebbero riconosciute come crimini di guerra, se
non come crimini contro l’umanità. Al di là della retorica del
fallimento dello Stato, in Somalia si continua a combattere per poste
che sono al centro dei processi di ricostruzione istituzionale. Il
fallimento nel 2006 dell’esperimento di governo dell’Unione delle Corti
islamiche e l’intervento dell’esercito etiopico hanno portato a un
ulteriore processo di radicalizzazione della componente islamica del
conflitto. Intanto l’Eritrea, dopo aver conquistato con trent’anni di
guerra l’indipendenza dall’Etiopia nel 1991 (riconosciuta
internazionalmente nel 1993), ha sostenuto le milizie islamiste somale
in funzione anti-etiopica, prima ancora di impegnarsi in una nuova
guerra con l’Etiopia dal 1998 al 2000: il casus belli fu ufficialmente
una disputa confinaria, ma in realtà la posta in gioco erano gli
interessi economici che legavano le due economie una volta unificate.
Sudan e Sud Sudan
Nel
2011 la secessione del Sud Sudan dal Sudan sancì la nascita di un nuovo
confine internazionale: un unicum nella storia recente dell’Africa se
si eccettua il caso dell’Eritrea che nel 1991 ripristinò il vecchio
confine coloniale italiano. Le istanze autonomiste del Sud non-arabofono
e in parte cristianizzato, rispetto all’élite dirigente arabo-musulmana
del Nord, avevano innescato fin dal 1955 una guerra civile che, a fasi
alterne, si concluse solo nel 2005 con la firma del Comprehensive Peace
Agreement che aprì alla secessione del Sud. Nel 2013 tuttavia il
conflitto in Sud Sudan è riesploso a seguito di una spaccatura al
vertice dell’élite dirigente. La lezione è allora che non sono i confini
a generare i conflitti, ma piuttosto le poste in gioco per il controllo
dello Stato e delle sue risorse (petrolio prima di tutto); perciò la
moltiplicazione degli Stati (e dei confini) provoca facilmente una
moltiplicazione dei conflitti, non necessariamente la loro risoluzione.
Inoltre la secessione del Sud Sudan alimentò le spinte autonomiste sia
nel Darfur che nel Kordofan, suscitando la dura reazione del governo di
Omar al-Bashir che proprio per aver appoggiato le bande Janjaweed in
Darfur fu condannato nel 2010 dalla Corte penale internazionale per
crimini di guerra e contro l’umanità. L’isolamento del regime di
Khartoum dopo le sanzioni internazionali volute dagli Stati Uniti nel
1997 per il sostengo offerto dal Sudan a movimenti islamisti radicali
(Al Qaeda, i gruppi islamisti in Algeria, Hezbollah in Libano, Hamas in
Palestina) è andato allentandosi a partire dal 2014 quando il governo
sudanese ha iniziato a collaborare con l’Unione Europea per politiche di
contenimento dei flussi migratori al confine con Libia e Ciad.
Nigeria e Mali
La
Repubblica federale di Nigeria ha una storia di forte conflittualità
interna tra le tre principali componenti linguistiche e culturali
(Hausa-Fulani, Yoruba e Igbo) che portò tra il 1967 e il 1970 a un
fallito tentativo di secessione da parte della regione del Biafra a
maggioranza Igbo. Tuttavia negli anni più recenti è stata soprattutto la
competizione tra musulmani e cristiani ad accentuarsi con
l’introduzione della legge islamica negli Stati settentrionali. Il
movimento armato jihadista Boko Haram, nato nel 2002, ha preso
progressivamente il controllo degli Stati del Borno e di Adamawa,
dichiarando tra il 2014 e il 2015 la sua affiliazione al califfato
dell’Isis e penetrando nei territori di Ciad, Camerun e Niger. Nel
dicembre 2015 il presidente nigeriano Muhammadu Buhari ha dichiarato la
sconfitta di Boko Haram, anche se rimangono ancora sotto il controllo di
suoi affiliati importanti centri nel Nord-Est della Nigeria.
Scenario
simile è quello del Nord del Mali, che a partire dal 2012 è caduto
sotto il controllo di diversi gruppi jihadisti, alleati con i
separatisti tuareg. Nel fermare l’avanzata dei jihadisti si è rivelato
determinate nel 2013 l’intervento militare francese in favore del
governo di Bamako.
Libia
Nel quadro delle proteste popolari
che percorsero diversi Paesi arabi nel 2011, il caso della Libia si
distinse per una rapidissima progressione verso una guerra civile che
oppose il regime di Gheddafi alle forze di opposizione sostenute
dall’esterno dalle potenze occidentali, dalla Turchia e da alcuni Paesi
arabi. L’intervento militare sotto l’egida dell’Onu doveva difendere i
civili dalla repressione del regime. La continuazione delle incursioni
aeree della Nato, nonostante una credibile proposta di mediazione
negoziata dal Sud Africa per conto dell’Unione Africana (Ua), rivelò
senza dubbi che il vero obiettivo dell’intervento era mettere fuori
gioco Gheddafi. Dopo gli anni del panarabismo militante e l’appoggio
libico al terrorismo internazionale in chiave antioccidentale, Gheddafi
si era convertito al panafricanismo e aveva diretto molti investimenti
libici in Africa sub-sahariana. Non a caso l’Ua fu l’unica
organizzazione internazionale a non appoggiare la risoluzione dell’Onu
sulla Libia, dopo che anche la Lega araba aveva scaricato Gheddafi. Se
l’intervento internazionale si riprometteva di sostenere una rapida e
ordinata transizione della Libia alla democrazia, il risultato è oggi
quello di un paese diviso tra l’autorità di due governi e due
parlamenti, con vari gruppi armati che hanno sempre più peso nella
gestione delle risorse dello Stato e della rendita petrolifera. La
guerra per la Libia ha segnato la sconfitta dell’Ua e di una politica
improntata a soluzioni africane per i conflitti di un continente dove
sono invece sempre più coinvolti attori esterni emergenti: la Cina ha
aperto una base a Gibuti, la Turchia ha inviato i suoi soldati a
Mogadiscio e la Russia sostiene il generale Haftar a Bengasi.