Corriere La Lettura 10.9.17
Il «calesse del Poggione» di Asciano, Siena
La Rolls Royce etrusca correva pure nell’aldilà
di Livia Capponi
Nell’Italia
etrusca di età orientalizzante e arcaica (VII-VI secolo a.C.) il carro a
due ruote, in legno e spesso impreziosito da una copertura in lamine in
ferro, bronzo o oro decorate a sbalzo, da sculture e intarsi, era non
solo un mezzo di trasporto, usato dai proprietari terrieri per visitare i
possedimenti o muovere persone o cose, ma soprattutto uno status
symbol, paragonabile a una Rolls Royce appannaggio delle élite, che per
questo era spesso inserito nelle tombe come celebrazione del rango del
proprietario. Certamente gli etruschi usavano vari tipi di carri anche
in ambito militare, per il trasporto del principe guerriero sul campo di
battaglia o in occasioni trionfali o di parata. Che fosse usato anche
per matrimoni ce lo suggerisce un bassorilievo in terracotta da un
palazzo arcaico della città etrusca di Poggio Civitate, i cui reperti
sono oggi nel Museo di Murlo in provincia di Siena. La lastra raffigura
la coppia nuziale sul calesse circondata da servi che coprono gli sposi
con un ombrellino, secondo un’iconografia presente anche in
raffigurazioni persiane dal palazzo di Serse a Persepoli.
Finora
sono stati trovati centinaia di frammenti di carri in ambiti funerari
etruschi, non solo in Etruria ma anche in altri siti nell’Agro Falisco,
in Umbria, Sabina, e nel Piceno, un fenomeno che indica l’esistenza di
legami gentilizi e di un retroterra comune fra le aristocrazie
dell’Italia Centrale. Il carro a due ruote o carpentum (da cui deriva il
termine «carpentiere») passò poi dagli etruschi ai romani, che lo
usarono anche per spettacoli e competizioni nel circo.
Da un mese a
questa parte è tornato visibile al pubblico nelle sale del Museo di
Palazzo Corboli di Asciano (Siena) il «calesse del Poggione», un carro
etrusco in ferro, con grandi ruote, ritrovato negli anni Ottanta nella
tomba «A» della necropoli di Poggione, presso Castelnuovo Berardenga,
sempre in provincia di Siena, e forse appartenuto a un principe. Si
presenta come un tiro a due trainato da asini o cavalli, una cassa a
forma di parallelepipedo aperta davanti e dietro, con la seduta quasi
all’altezza dei bordi, senza predellino, in origine coperto da un
baldacchino, e con uno spazio nella parte posteriore che doveva ospitare
i bagagli o eventuali passeggeri. Aveva due grandi ruote cerchiate e
doveva permettere, viaggiando seduti, di sostenere percorsi anche
lunghi, come visite di principi o signori ai loro possedimenti e
trasporto di beni. Nella sepoltura in cui fu rinvenuto il calesse, una
tomba a camera del VII secolo a.C., erano sepolti un uomo e una ragazza
di alto rango, accompagnati nel viaggio ultraterreno da ricchi corredi,
l’uomo da scudi, armi, gratelle per cucinare la selvaggina, coltelli,
coppe per bere, la donna da oggetti d’avorio, pettini, rocchetti per la
filatura, fibule e gioielli.
Il calesse in questi ultimi anni è
stato sottoposto a un complesso intervento di restauro, che ha ordinato e
innestato la miriade di frammentini emersi dallo scavo su una struttura
in legno per restituire forme e dimensioni originali. Un puzzle
tridimensionale che ha richiesto anni di lavoro e tutta l’esperienza di
un gruppo di restauratori, archeologi e architetti guidato
dall’archeologa Irma della Giovampaola, della Soprintendenza per le
province di Siena, Arezzo e Grosseto.
Fra questi reperti spicca il
carro a due ruote trovato a Montecalvario, restaurato nel 2014 ed
esposto al Museo Archeologico di Castellina in Chianti (Siena), in legno
decorato con lamine in bronzo e ferro sbalzate a rilievo con motivi
ornamentali orientalizzanti e greci; ma il più celebre di questi oggetti
è senza dubbio la biga d’oro di Monteleone di Spoleto (Perugia),
eccezionale carro da parata del VI secolo a.C. scoperto per caso da un
contadino, che durante i lavori di costruzione dell’aia nel 1902
s’imbattè in una tomba etrusca, completa di coppia di defunti e corredo
funerario. Venduto a un mercante locale per novecento lire, il carro,
dopo rocamboleschi passaggi fra Norcia, Firenze, Roma e Parigi,
attraversò furtivamente l’Oceano Atlantico per ricomparire l’anno dopo
al Metropolitan di New York. Si tratta di un lussuoso carro di
rappresentanza, forse usato in contesti trionfali e in cerimonie da più
di una generazione e poi deposto nel tumulo dell’ultimo proprietario. In
legno di noce, cuoio, con lamine di ferro e bronzo dorato lavorato a
sbalzo, e intarsi in avorio, era finemente decorato con pannelli
raffiguranti scene del ciclo troiano ed episodi della vita di Achille,
fra cui la ieratica consegna dell’elmo e dello scudo all’eroe da parte
della madre Teti, il combattimento contro il re etiope Memnone e
l’ascesa di Achille all’Isola dei Beati su un carro trainato da cavalli
alati, sotto il quale giaceva Polissena, principessa sacrificata in suo
onore.
Il livello delle decorazioni fa pensare a un artista di
grande levatura. Al Met il carro fu inizialmente assemblato in maniera
erronea. Più di recente, è stato sottoposto a un lungo restauro a cura
dell’équipe dell’archeologa Adriana Emiliozzi del Cnr, che ha
riallestito i pannelli decorativi nel 2007. Fu una perdita incalcolabile
per l’archeologia italiana, a cui il governo dell’epoca assistette
senza far niente. Da allora il contenzioso per la restituzione è sempre
stato frustrato.
Un altro carro etrusco da guerra del VII-VI
secolo a.C., composto da 145 pezzi in lamina d’oro e bronzo, con decori a
sbalzo raffiguranti animali veri e fantastici, dalla tomba di un
«principe sabino» in una necropoli presso Fara Sabina, l’antica Eretum ,
illegalmente scavato e rubato, fu acquisito negli anni Settanta dalla
Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen. In questo caso la storia ha un
lieto fine. Nel 2016 il Mibact ha sottoscritto con il museo danese un
accordo di cooperazione che ha riportato in Italia il carro e il corredo
funebre pertinente. Ora i reperti sono custoditi dai carabinieri, in
attesa di essere esposti in mostra e poi definitivamente collocati in un
museo. Un importante successo della neonata «diplomazia culturale», che
ha davanti a sé una lunga lista di beni archeologici e artistici in
attesa di tornare a casa. Sempre che la casa sia preparata ad
accoglierli, e a sostenere chi li dovrà comprendere, studiare, far
riscoprire.