Corriere La Lettura 10.9.17
Il museo
Yad Vashem e il nodo dei genocidi
di Macello Flores
A
fine luglio Nadia Murad, la giovane yazida divenuta ambasciatrice delle
Nazioni Unite per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri
umani, che a Milano l’anno scorso ha raccontato la tragedia del suo
popolo e del genocidio cui è stato sottoposto da parte dell’Isis in
Iraq, si è recata allo Yad Vashem e ha commentato: «Se solo saremo in
grado di tornare nella nostra patria dovremo fare una cosa simile», come
documentare, educare, commemorare la storia della Shoah è, da quando fu
fondato nel 1953, il compito dello Yad Vashem, l’Ente nazionale per la
memoria della Shoah dello Stato di Israele, il cui museo è stato
riorganizzato nel 2005. Dagli anni Sessanta spetta allo Yad Vashem
stabilire chi debba avere il titolo di «giusto fra le nazioni» per avere
rischiato la vita nel salvare gli ebrei durante la persecuzione
nazista. Proprio per essere il depositario della memoria ebraica sulla
Shoah, lo Yad Vashem è stato nel corso degli anni al centro di polemiche
storiografiche, politiche, religiose, che ne hanno di volta in volta
criticato l’eccessiva autonomia o messo in guardia dalla sua sudditanza
alle politiche governative dello Stato d’Israele.
Nel corso della
visita di Nadia Murad il direttore della International School for
Holocaust Studies di Yad Vashem si è rifiutato di commentare se
ritenesse — come affermato dalla commissione istituita dalle Nazioni
Unite — quello degli yazidi un genocidio, l’ultimo in ordine di tempo in
un mondo devastato da crimini contro l’umanità. Per anni si è dibattuto
se la Shoah sia stato un genocidio «unico» nel suo genere. Yehuda
Bauer, il grande storico israeliano che per molto tempo è stato in
qualche modo la guida storiografica dello Yad Vashem, ha sempre
preferito parlare di un crimine «senza precedenti» e, recentemente, si è
apertamente schierato con chi ritiene necessario affrontare tutti i
genocidi e accettare uno studio comparativo tra loro, senza lasciare la
Shoah nel «ghetto ebraico», come proprio Yad Vashem era stato accusato
di fare, rifiutando di prendere in considerazione altri genocidi (a Yad
Vashem vi sono numerosi «giusti fra le nazioni» armeni ma non si è mai
parlato apertamente di «genocidio» armeno, che Israele rifiuta ancora di
riconoscere). Molto critico dello Yad Vashem è lo storico israeliano
Yair Auron, che pure negli anni Settanta ha diretto il suo dipartimento
di educazione e ha poi insegnato dal 2005 alla Open University of Israel
(la prima dove si è parlato apertamente di «altri» genocidi).
In
una realtà internazionale in cui le violenze di tipo genocidario o
comunque i crimini contro l’umanità si sono moltiplicate, e in una
società sempre più globalizzata, restare chiusi nell’ambito del solo
proprio genocidio — tanto fondamentale che fu quello da cui il termine
venne inventato nel 1944 — sembra un limite sia di documentazione sia di
pratica educativa.
È in questa situazione che Yad Vashem sta
vivendo, soprattutto in confronto con analoghe istituzioni di tipo
storico-museale (per esempio il Museo dell’Olocausto di Washington), una
sorta di crisi d’identità, in cui non è più sufficiente riproporre la
propria missione, elaborata in un’epoca in cui di Shoah nessuno parlava,
senza affrontare le richieste di una maggiore comparazione che
provengono da ogni parte, dal mondo storiografico internazionale come
dalle vittime di genocidi, dai sopravvissuti come dagli insegnanti.
Yad
Vashem si è trovato di recente, per bocca del proprio direttore della
ricerca, Dan Michman, a polemizzare col proprio governo, un evento assai
raro: è stato quando il premier Benjamin Netanyahu alla fine del 2015
dichiarò che Hitler non aveva alcuna intenzione di sterminare gli ebrei
ma voleva solo espellerli, e fu convinto alla scelta della distruzione
dal gran muftì Haj Amin al-Husseini. Una strumentalizzazione della
storia per fini politici che nessuno, neppure in Israele, si è sentito
di avallare. Anche in Italia non sono mancate polemiche con le scelte di
Yad Vashem, soprattutto in riferimento alla decisione di attribuire il
titolo di «giusto fra le nazioni». Era già successo con Giovanni
Palatucci, commissario di polizia a Fiume, insignito del riconoscimento
nel 1990, che nel 2013 il centro Primo Levi di New York aveva denunciato
come collaborazionista senza che Yad Vashem modificasse il suo
giudizio. Adesso è il caso di Gino Bartali, insignito come «giusto»
proprio a fine 2013 e su cui un articolo sul web dello storico Michele
Sarfatti ha fatto sorgere qualche dubbio, mettendo in discussione la
plausibilità della documentazione sull’apporto del ciclista al
salvataggio di ebrei.