venerdì 1 settembre 2017

La Stampa 1.9.17
La confessione del Papa
«La psicanalisi mi ha aiutato». Bergoglio all’età di 42 anni, per sei mesi ogni settimana, ha incontrato un’analista ebrea. È il Pontefice a rivelarlo in un libro in cui parla anche di matrimoni gay, laicità e immigrazione.
In un libro gli incontri di anni fa del futuro Papa con un’analista ebrea
di Leonardo Martinelli Andrea Tornielli


Padre Jorge Mario Bergoglio, all’età di 42 anni, per sei mesi ogni settimana ha incontrato una psicanalista. È lui stesso a rivelarlo in un libro di prossima pubblicazione in Francia, che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: «Politique et société», edizioni L’Observatoire).
Durante una delle interviste, il Papa ha parlato del ruolo avuto da alcune donne nella sua esistenza. «Quelle che ho conosciuto mi hanno aiutato molto quando ho avuto bisogno di consultarmi». Poi si passa alla psicanalista.
«Ho consultato una psicanalista ebrea - racconta Bergoglio al suo interlocutore -. Per sei mesi sono andato a casa sua una volta alla settimana per chiarire alcune cose. Lei è sempre rimasta al suo posto. Poi un giorno, quando stava per morire, mi chiamò. Non per ricevere i sacramenti, dato che era ebrea, ma per un dialogo spirituale. Era una persona buona. Per sei mesi mi ha aiutato molto, quando avevo 42 anni». L’esperienza raccontata da Francesco si colloca dunque tra il 1978 e 1979, gli anni della dittatura, quando aveva concluso la non facile esperienza di provinciale dei gesuiti d’Argentina e stava iniziando quella di rettore del Collegio Máximo, dove venivano formati gli studenti che desideravano entrare nella Compagnia.
Chiesa e psicanalisi
All’inizio la Chiesa ha denunciato il «pansessualismo», ma anche l’ambizione «totalitaria» della psicanalisi. Ad aprire un primo spiraglio fu Pio XII nel 1952, spiegando: «È inesatto sostenere che il metodo pansessuale di una certa scuola di psicoanalisi sia parte indispensabile di ogni psicoterapia degna di tal nome». Nel luglio 1961, con Giovanni XXIII, il Sant’Uffizio proibì ai preti di praticare la psicanalisi e ai seminaristi di sottoporvisi. Nell’enciclica «Sacerdotalis coelibatis» del 1967 Paolo VI ammetteva la possibilità del ricorso «all’assistenza e all’aiuto di un medico o di uno psicologo competenti» nei seminari e nel 1973, durante un’udienza, affermava: «Abbiamo stima di questa ormai celebre corrente di studi antropologici, sebbene noi non li troviamo sempre coerenti fra loro, né sempre convalidati da esperienze soddisfacenti e benefiche». Come dato curioso si può infine ricordare «Habemus Papam», il film di Nanni Moretti, che racconta di un Pontefice eletto che ricorre - seppur con poca convinzione - al consulto di una psicanalista.
«In gabbia, ma libero»
Il Papa, nei dialoghi con Wolton parla anche della sua vita di oggi. «Mi sento libero. Certo, sono in una gabbia qui al Vaticano, ma non spiritualmente. Non mi fa paura niente». Si scaglia contro quei «preti rigidi, che hanno paura di comunicare. È una forma di fondamentalismo. Quando m’imbatto in una persona rigida, soprattutto giovane, mi dico che è malato. Sono persone che in realtà ricercano una loro sicurezza».
Inevitabile, poi, il riferimento all’immigrazione. «La nostra è una teologia di migranti, perché lo siamo tutti fin dall’appello di Abramo, con tutte le migrazioni del popolo d’Israele. E lo stesso Gesù è stato un rifugiato, un migrante. Esistenzialmente, attraverso la fede, siamo dei migranti. La dignità umana implica necessariamente di essere in cammino». Si rammarica del fatto che «l’Europa in questo momento ha paura. Chiude, chiude, chiude...». Il Papa rigetta anche la nozione di «guerra giusta», che pure ha un fondamento nella tradizione della Chiesa e nella legittima difesa dei popoli. Per Bergoglio, «la sola cosa giusta è la pace».
La vera laicità
Francesco tocca anche il tema della laicità. «Lo Stato laico è una cosa sana – dice -. Gesù l’ha detto: bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Ma «credo che in certi Paesi, come la Francia, la laicità abbia una colorazione ereditata dai Lumi davvero troppo forte, che costruisce un immaginario collettivo in cui le religioni sono viste come una sottocultura. Credo che la Francia dovrebbe «elevare un po’ il livello della sua laicità». Sul dialogo con l’Islam, si dice ottimista e accenna al suo rapporto con l’imam di Al-Azhar. Ma afferma anche che «i musulmani non accettano il principio della reciprocità».
Quanto al matrimonio gay, ritiene che «da sempre nell’umanità, non solo nella Chiesa cattolica, il matrimonio è fra un uomo e una donna». Ma quelle tra omosessuali accetta di chiamarle «unioni civili».
Le piace essere chiamato «Papa dei poveri»? «No, perché è un’ideologizzazione». «Io sono il Papa di tutti, dei ricchi e dei poveri. Dei poveri peccatori, a cominciare da me». A Francesco piace il contatto fisico con i fedeli. «La tenerezza - confida - è qualcosa che procura così tanta pace».

La Stampa 1.9.17
Se il religioso va alla guerra con se stesso
di Ferdinando Camon


La notizia che l’attuale papa Francesco, quando aveva 42 anni, andò in analisi, ti entra nel cervello e non ne esce più. È sconvolgente: un alto esponente della Chiesa Cattolica va in analisi; va da una psicanalista-donna; che è anche ebrea. Quelli che ragionano sull’analisi e sulla religione sono convinti che siano due contrari. Questo perché la fede parte dalla rivelazione: la verità è stata rivelata, una volta per tutte. Sappiamo che cosa è bene e che cosa è male.
Mentre l’analisi è ricerca incondizionata: se alla tua ricerca metti dei limiti (non parlerò di mia madre o della mia amante), l’analisi fallisce, anzi non comincia nemmeno. Cesare Musatti, presidente della Società Psicanalitica Italiana, esprimeva questo concetto ricorrendo alla metafora della guerra civile: l’analisi è una guerra civile, chi va in analisi è in guerra con se stesso, è come uno Stato in cui una parte dei cittadini si ribella e combatte contro gli altri.
Lo Stato non può dire: combatterò i ribelli a Torino e a Milano, ma non a Venezia e a Trieste, perché se parla così succede che tutti i ribelli si rifugiano a Venezia e a Trieste, e quelle città, che lo Stato voleva risparmiare, dovrà raderle al suolo. Pasolini andò in analisi da Musatti e dopo poche sedute disse: «Non parlerò della mia omosessualità, perché è natura». Musatti rispose: «Ne parlerà comunque, anche senza volerlo». Pasolini entrò in un’angoscia tremenda, e dopo sette-otto sedute non si presentò più. È mia opinione che lì sia accaduto un grave errore di Musatti. Perché tu, analista, non puoi dire al tuo paziente qualcosa che il tuo paziente in quel momento non è in grado di reggere. Aspetta, hai tutta l’eternità a disposizione. Se glielo dici in anticipo, e quello entra in crisi e si ritira, la colpa è tua. Musatti faceva l’analisi anche a preti e membri della gerarchia cattolica. Diceva che venivano a lui col permesso dei superiori.
L’analisi è l’esame delle potenti figure interiori che ti porti dentro, se sei cattolico la prima di queste potenti figure interiori è Cristo: non puoi iniziare una battaglia, nella quale puoi trovarti di fronte Cristo, senza dire ai tuoi che parti per il fronte. Un profondo e delicato psicanalista freudiano, Giovanni Gozzetti, allievo prediletto di Salomon Resnik, argentino (il quale è l’autore delle voci di psicanalisi dell’Enciclopedia Einaudi), aveva un paziente cattolico che a un certo punto gli annunciò: «Piuttosto di mettere in discussione Cristo, preferisco ritirarmi», e non si fece più vedere. Probabilmente era questo che temevano i cardinali del film «Habemus Papam» di Nanni Moretti, quando si presentò il problema se il papa (appena eletto, e in crisi col nuovo ruolo) poteva andare in analisi: in analisi? E parlare dei sogni? No no no. Se va in analisi, è la Curia che stabilisce di che cosa può parlare, e di che cosa no.
L’analisi è una discesa dentro te stesso, in una profondità che non conosci, là sotto troverai un te stesso che ignori, può incantarti ma anche spaventarti, puoi tornar su deciso a proseguire per la strada di prima oppure a fare una inversione a U. Non è affatto detto, come credono gli psicanalisti anti-cattolici, che analisi e fede siano due nemiche. Viktor Frankl lo dimostra. E ora anche l’analisi di Bergoglio. Perché ha avuto una conclusione stupefacente: è durata poco, sei mesi, e aveva un ritmo blando, una seduta per settimana, ma alla fine successe qualcosa di raro: in punto di morte, fu la psicanalista a chiamare l’ex-paziente, «per un dialogo spirituale». In analisi le due forze che agiscono sono il transfert, che lega il paziente all’analista, e il controtransfert, che lega lo psicanalista al paziente. Se succede che il secondo sia più forte del primo, allora è lo psicanalista che è in analisi dal suo paziente. Andò così con Bergoglio?

La Stampa 1.9.17
Il pontefice in cura da Moretti
in «Habemus Papam»


Il Papa e uno psicanalista. Un incontro che il cinema aveva già raccontato. Nanni Moretti, nel suo «Habemus Papam» nel 2011, interpreta un analista che assiste il pontefice depresso e poi dimissionario Michel Piccoli (altra previsione azzeccata del regista romano). Per affrontare la crisi del Papa viene chiamato il professor Brezzi (Nanni Moretti), uno psicanalista, che prescrive al santo padre alcune sedute con la moglie, Margherita Buy, analista anche lei, al di fuori delle mura vaticane. L’intervento dei due specialisti non basterà: il Papa si troverà a vagare per Roma di notte su un autobus.

La Stampa 1.9.17
Botte al migrante e video in rete
L’agguato razzista dei ragazzini
Picchiato in strada ad Acqui Terme: “Vai a casa tua”. Denunciati due minori
di Marco Menduni Daniele Prato


«Don’t touch me», non toccarmi. Lo ripete più volte, con un filo di voce. Distoglie lo sguardo, alza le mani, per evitare lo scontro. Ma chi ha di fronte proprio non ne vuole sapere. Cerca la rissa e lo provoca. Prima gli insulti, poi gli spintoni che rischiano di farlo finire sotto a un camion, mentre gli amici ridono, lo incitano a picchiare, filmano tutto con il telefonino. E alla fine, quando Sahid, richiedente asilo somalo di 22 anni, prova a reagire alla violenza, il suo aggressore lo solleva e scaraventa di schiena sul marciapiede, prima di fuggire per l’intervento di un passante. Sono le 13 di martedì 8 agosto, giorno di mercato ad Acqui, palazzine eleganti e viali ordinati in provincia di Alessandria.
Accade tutto sotto alle finestre del Comune, accanto a uno dei siti archeologici che punteggiano la città. Ma il caso esplode adesso, complice il video che, un paio di giorni fa, è spuntato su Facebook, provocando reazioni sdegnate. I carabinieri, con un’indagine lampo, sono risaliti sia all’aggressore, che vive in un paese della zona, sia a uno degli amici bulli, residente in città. Hanno 17 anni, alle spalle altri brutti episodi.
Il pestaggio è costato al primo la denuncia per lesioni personali (il migrante ha riportato un lieve trauma cranico, 5 giorni di prognosi), al secondo, che incitava l’amico, quella per istigazione a delinquere. Ma non è finita: le indagini proseguono per identificare l’autore del video e capire se, come sembra, fosse presente una quarta persona. E mentre il bullo sul suo profilo chiede scusa – «so di aver fatto una c…a e avete tutte le ragioni di avercela con me però vi giuro che non succederà più» – il giovane somalo si chiede «perché?». Si chiama Sahid, ha il fisico gracile protetto da un giaccone nero a strisce rosse nonostante il caldo. Quando lo chiami, si volta con uno sguardo di paura e di preoccupazione. Non parla italiano, poche parole di inglese, gli amici dicono che non si è ancora ripreso dal viaggio e dal dolore di aver lasciato la sua terra. Dell’aggressione ricorda tutto: «Guardavo una colonna antica e hanno iniziato a gridarmi contro. Io non capivo che cosa stavano dicendo, ma più chiedevo “che cosa?” più urlavano. Uno mi è venuto addosso, ho cercato di difendermi, ma lui mi ha colpito, poi mi ha fatto cadere». Si tocca la nuca: «Fa ancora male, anche se la botta non è stata violenta». Il sindaco grillino di Acqui, Lorenzo Lucchini annuncia che il Comune si costituirà parte civile all’eventuale processo: «È un atto vergognoso, chiedo scusa a nome di tutta la città. Vogliamo incontrare questo ragazzo per mostrargli la nostra vicinanza e ringraziare chi è intervenuto per allontanare l’aggressore».
Si tratta del ristoratore Davide Zendale, 39 anni. Lo si vede alla fine del video dire al bullo: «Cosa stai facendo?». «Passavo coi bambini, mi sono fermato. Gli dicevano “Tornatene a casa tua” ma pensavo a un battibecco. Sono intervenuto quando ho visto il ragazzo sbattuto a terra. Ho agito d’istinto, l’avrebbe fatto chiunque». Invece, l’ha fatto solo lui. La coop Crescere Insieme, che ospita Sahid e ha denunciato subito l’episodio, dice: «Che l’aggressore sia un minore e l’aggredito un richiedente asilo interroga le coscienze di tutti noi cittadini, sul lavoro da fare per recuperare umanità sul piano sociale, politico e delle relazioni tra le persone». Sahid spiega che la città gli è stata vicina, anche in queste ore, ma ammette di avere ancora paura di chi lo ha aggredito: «Io non gli ho fatto niente, perché mi hanno picchiato?».

La Stampa 1.9.17
“L’estate dell’intolleranza è colpa dell’assenza di istituzioni e famiglie”
Il sociologo Ferrarotti: “Situazione da allarme Le nuove generazioni vivono senza regole”
intervista di Flavia Amabile


Franco Ferrarotti è appena atterrato dagli Stati Uniti, ma ha già letto tutto quello che è stato pubblicato sull’ennesima aggressione contro i migranti in Italia. Professore emerito di Sociologia all’Università La Sapienza di Roma, presidente onorario dell’Associazione Nazionale Sociologi, a oltre novant’anni è ancora curioso e attento a tutto quello che capita tra Italia e Stati Uniti. «E’ un episodio molto grave anche se devo ammettere che negli Stati Uniti c’è un clima anche peggiore. Purtroppo in Italia la società risente di molti fattori negativi che si sommano creando l’intolleranza diffusa di questi ultimi tempi».
Quali sono questi fattori?
«Si parte dalla libertà e dal garantismo che fanno sì che anche i minorenni si sentano autorizzati a costituire le gang, che seguono regole del tutto slegate da quelle della convivenza sociale. C’è un leader, ci sono gli altri componenti del gruppo per i quali funziona l’effetto emulazione. Negli Stati Uniti ormai è diventato letteratura ma anche in Italia è un problema molto serio».
Secondo quanto appare dal video, un ragazzo incitava l’altro a colpire. Il giovane richiedente asilo ha cercato di non reagire agli insulti ma è stato comunque spintonato, sollevato da terra e scaraventato al suolo.
«Il garantismo si crea per effetto dell’assenza delle famiglie. I genitori di quest’epoca lavorano entrambi, non hanno il tempo di occuparsi dei figli, di educarli, di crescerli insegnando il rispetto delle regole».
Alla fine siamo sempre noi genitori a non fare abbastanza?
«Non solo. Anche le scuole e i professori non hanno più quel ruolo che un tempo permetteva di arginare il diffondersi di comportamenti del tutto riprovevoli. Se le famiglie hanno il compito di formare i figli, le scuole hanno quello di formare i cittadini ma gli insegnanti sono persone sempre meno motivate e, quindi, incapaci di trasmettere a loro volta motivazioni ai ragazzi. È un danno enorme per la società, i ragazzi di oggi sono gli adulti di domani, avere una generazione che sta crescendo priva di regole non può portare a nulla di buono. Ma c’è un’altra componente sociale che non sta facendo quello che dovrebbe».
Quale?
«Il lavoro dovrebbe creare il legame tra le famiglie e i cittadini ma il lavoro non c’è. I giovani e i meno giovani sono in una situazione di crescente difficoltà. Questo li rende più fragili e insicuri, dunque meno capaci di affrontare quello che non conoscono e che percepiscono come un pericolo».
Che cosa fare per combattere il diffondersi dell’intolleranza?
«Purtroppo non esistono ricette pronte. Sono molto pessimista e chiedo scusa per questo mio stato d’animo. Il fatto è che, mentre vedo che c’è un’inversione di tendenza in Paesi come la Germania o l’Inghilterra, in Italia l’intolleranza cresce, si diffonde tra persone di generazioni diverse. Il governo, invece, di cantare vittoria sulla ripresa, dovrebbe fare di più per combattere la crisi e per restituire motivazione agli insegnanti che non si sentono tenuti nella giusta considerazione. Bisognerebbe agire quindi sia sul fronte dei provvedimenti economici per dare maggiore sicurezza agli italiani, sia sul fronte delle politiche attuate in materia di istruzione a tutti i livelli. Basti pensare allo sciopero in corso in questi giorni nelle università. È uno sciopero che vuole difendere innanzitutto la dignità dei professori».

La Stampa 1.9.17
I testimoni del raid punitivo:
«L’eritreo ferito da un 12enne»


 «Non ho lanciato i sassi contro quei bambini, ho solo fatto il gesto perché volevo che si allontanassero. Non cerco alcuna vendetta». A raccontarlo ai carabinieri Yacob M., l’eritreo di 40 anni, ferito alla schiena nel quartiere Tiburtino III a Roma. Gli investigatori, coordinati dal pm Alberto Galanti, nelle ultime ore hanno ascoltato diversi testimoni e alcuni di loro avrebbero raccontato che a colpire con un ferro appuntito l’eritreo - nell’ambito di quella che sembra essere stata una spedizione punitiva - non sarebbe stata la signora Pamela di 40 anni, o almeno non solo lei, ma «il ragazzo di 12 anni che la accompagnava»: ovvero il nipote. Hanno raccontato alcuni testimoni: «Subito dopo il ferimento dell’eritreo gli altri ospiti del centro hanno chiuso il cancello aspettando l’arrivo delle forze dell’ordine». Nessun sequestro dunque. Nelle prossime ore il pm delegherà un consulente per una perizia sul «tondino di ferro» trovato sul posto che dovrebbe essere l’arma del ferimento. Obbiettivo: trovare le impronte digitali dell’aggressore.

Repubblica 1.9.17
Roma, la Croce Rossa avverte
“Basta assedio ai migranti o chiuderemo il centro”


ROMA. «Un centro di accoglienza come quello del Tiburtino III ha senso se si crea un processo di convivenza tra le 80 persone ospitate e la popolazione. Se dobbiamo vivere in uno stato d’assedio non ha senso. Possiamo chiudere il centro anche oggi: ma sarebbe una sconfitta per tutti». È quanto dichiara Debora Diodati, presidente della Croce Rossa di Roma, all’indomani delle tensioni tra migranti e residenti del quartiere Tiburtino III, nella periferia est della capitale, in cui un eritreo di 40 anni, ex ospite dal centro di accoglienza, è stato accoltellato da un residente. Dice Pietro Giulio Mariani, direttore della Croce Rossa di Roma: «Si respira una sensazione di tensione sia da parte degli ospiti che da parte degli operatori. Stiamo parlando con loro per cercare di capire quali siano gli ulteriori fatti rispetto a quelli che sono già emersi». Sulla vicenda, ancora da chiarire, indagano i carabinieri. «Alcuni ospiti affermano di essere stati aggrediti — continua Mariani — all’esterno del centro la sera dello scontro. Questa situazione di assedio non può durare a lungo, per questo confidiamo nelle forze dell’ordine e nel loro lavoro. Ribadiamo il nostro appello per abbassare i toni affinché si possa continuare a fare accoglienza attraverso l’inclusione». Dal letto dell’ospedale in cui è ricoverato, l’eritreo, ferito all’altezza della scapola destra, afferma: «Ho avuto paura, ma non nutro rancore. Non voglio vendetta», e continua a negare di avere tirato sassi a dei bambini del posto, provocando l’insorgere degli abitanti martedì scorso.

il manifesto 1.9.17
«Via i neri dal quartiere»: clima teso al Tiburtino dopo l’assalto al centro
Roma. La polizia presidia i cancelli della struttura d'accoglienza dopo il ferimento martedì dell’eritreo, che accusa: «Questo è razzismo». Baobab: «Siamo stati inseguiti e ingiuriati da una folla ormai fuori controllo»
di Adriana Pollice


ROMA  All’origine degli scontri di martedì notte al Tiburtino III, quartiere popolare del quadrante est di Roma, non ci sarebbe stata l’aggressione di un migrante eritreo, Yacob Misgn, a un gruppo di ragazzi del luogo, seguita dal tentativo di vendetta della madre di uno di loro, assistita da un gruppo di residenti. Sarebbe nato tutto dal rifiuto di dare una sigaretta. Ieri, ai microfoni di Sky, uno degli ospiti del centro della Croce rossa di via del Frantoio ha raccontato: «Questa signora, che nel quartiere tutti conoscono, ha chiesto una sigaretta all’eritreo, che spesso raccoglie cicche per strada. Poi la donna, che era col nipote di 13 anni, si è molto arrabbiata e il ragazzino che era con lei ha conficcato un pezzo di ferro nella schiena dell’eritreo. Non c’è stato nessun sequestro. I ragazzi del centro hanno pensato di chiudere il cancello in attesa dei carabinieri».
YACOB è ricoverato all’ospedale Pertini con una ferita alla schiena guaribile in 30 giorni, la procura indaga, il reato ipotizzato è lesioni gravi. Il padre del tredicenne ha 36 anni, è appena uscito di prigione ed è senza lavoro. Ha avuto cinque figli, poi si è separato e con la sorella della moglie ha avuto altri due figli. Il tredicenne era con la zia, attuale compagna del padre, martedì sera: «È un bambino buono – lo difende il padre -. Ho dovuto insistere perché andasse al mare, voleva rimanere a casa con me. Quell’uomo sarà stato accoltellato da uno dei suoi amici migranti». Yacob è stato ascoltato dai carabinieri. Secondo il gruppo che ha assaltato la struttura, avrebbe scagliato delle pietre ai ragazzi che lo prendeva in giro: «Ho fatto solo il gesto, ma non ho lanciato i sassi – ha spiegato -. Questo è razzismo, io non ho fatto nulla. Appena guarisco voglio tornare in Eritrea. Non nutro rancore, non voglio vendetta ma ho avuto tanta paura».
Ieri il gruppo di residenti che non vuole i migranti nel quartiere ha continuato a farsi vedere al cancello della struttura: «Stiamo pensando di organizzare una manifestazione per chiederne la chiusura. Non siamo razzisti ma qui la sera non si può più uscire. Vanno in giro a gruppi, ubriachi, danno fastidio alle ragazzine. Ci sono furti continui. Siamo esasperati».
LA SINDACA Virginia Raggi ha commentato: «Non bisogna scatenare guerre tra poveri» mentre l’ex sindaco, Gianni Alemanno, ha preso le parti della sommossa. Da Casa Pound a Forza Italia, tutta la destra chiede che il centro vada via dal Tiburtino III. «Il clima di odio che sta montando in Italia non ha precedenti nella storia recente» ha commentato il parlamentare di Mdp, Arturo Scotto.
QUAL È LA SITUAZIONE lo raccontano gli attivisti di Baobab experience, presenti martedì: «Alcuni di noi sono arrivati sul posto intorno alle due di notte, trovando un gruppo di cittadini, una ventina in quel momento, in evidente stato di sovraeccitazione. A bloccarli un cordone di polizia. Il migrante era accusato dalla gente di aver trascinato un ragazzo dodicenne all’interno per abusarne». Qualcuno del Baobab riesce a entrare per chiedere notizie del ferito: «Alcuni agenti ci hanno intimato di allontanarci, con la minaccia di essere portati in commissariato con l’accusa di interruzione di pubblico servizio. Le ambulanze erano bloccate all’esterno. Abbiamo fatto presente agli agenti che uscire, in quel momento, era molto pericoloso ma non c’è stato nulla da fare. Usciti dal cancello, ci siamo ritrovati circondati. Sono partite immediatamente le minacce, gli insulti, la violenza. Una volontaria è stata colpita alla guancia da un forte manrovescio. Abbiamo urlato agli agenti di proteggerci e solo allora si sono decisi a intervenire».
Dopo pochi metri la polizia li ha lasciati soli: «Siamo stati inseguiti e ingiuriati da una folla ormai fuori controllo». La conclusione dei volontari del Baobab è che «a via del Frantoio non c’è scappato il morto perché il caso ha voluto così. Ma questo è un fuoco su cui stanno soffiando in troppi e troppo forte. Chi ha un ruolo politico o istituzionale, è bene che inizi davvero a fare i conti con le proprie responsabilità».

il manifesto 1.9.17
La Croce Rossa di Roma: «Se c’è lo stato d’assedio andiamo via dal rione»
Intervista. Parla Debora Diodati, presidente della Croce Rossa di Roma che gestisce il presidio umanitario di via del Frantoio, assaltato martedì notte da una cinquantina di residenti del Tiburtino III.
di Adriana Pollice


ROMA  «Se dobbiamo vivere in uno stato di assedio allora meglio chiudere ma è una sconfitta per tutti» spiega Debora Diodati, presidente della Croce Rossa di Roma che gestisce il presidio umanitario di via del Frantoio, assaltato martedì notte da una cinquantina di residenti del Tiburtino III.
Diodati, quando siete arrivati nel quartiere?
Nel 2015 allestimmo una tendopoli alla stazione Tiburtina dopo lo sgombero di Ponte Mammolo. A ottobre firmammo un protocollo per la struttura di via del Frantoio, cofinanziata da Croce Rossa e comune. Abbiamo assistito 1.850 persone. Soprattutto migranti al di fuori del circuito dell’accoglienza, se non fossero da noi sarebbero per strada, 300 siamo riusciti a immetterli nel circuito di ricollocamento europeo.
Ospitate solo migranti?
Da noi arrivano attraverso la Sala operativa sociale del comune, che ci manda anche italiani in difficoltà. Tutti hanno accesso alle cure mediche attraverso un protocollo con l’Asl. I progetti sono aperti al quartiere come quelli su dispersione scolastica o prevenzione per gli anziani.
Ci sono state molte proteste.
Il diverso spesso è visto come un problema. Ma esiste anche una parte della popolazione che ci supporta, molte associazione svolgono attività da noi. Un’altra parte vuole la nostra chiusura. Sono quelli, soprattutto a destra, che utilizzano ogni episodio per strumentali campagne stampa e social. È facile utilizzare slogan come «prima gli italiani» ma noi non togliamo nulla al quartiere. Bisognerebbe imparare a conoscersi attraverso progetti comuni ma tocca alle istituzioni intervenire. Tiburtino III è sempre stata un’area popolare, con problemi economici e sociali. E comunque protestano anche nella borghese Monteverde. Se chiudessimo il centro, gli 80 ospiti resterebbero perché è la zona che conoscono, ma starebbero in strada.
Cosa è successo martedì?
Quello che sappiamo è che tutto è successo al di fuori dei cancelli del centro, non c’è stato nessun sequestro di persona. I nostri ospiti sono impauriti, stiamo cercando di tranquillizzarli ma non è facile.

Repubblica 1.9.17
Quei razzisti 17enni violenti per diventare famosi sul web
Acqui Terme, botte e insulti a un richiedente asilo Mentre gli amici incitano. Tutto in un video virale
di Maurizio Crosetti


UN CARNEFICE, due istigatori, una vittima con la pelle nera e un quarto che filma tutto col telefonino: perché se non riprendi non esisti, se non vai su YouTube e su Facebook non ci sei. Sembrano solo ragazzini scemi, invece sono iene. Minorenni. Il luogo è una tranquilla cittadina piemontese, Acqui Terme, da un secolo nell’orbita del benessere legato ai fanghi e, adesso, alle Spa. Non proprio il Bronx, ma è come se.
Il ragazzo nero (poi si scoprirà, un richiedente asilo) sta osservando resti archeologici vicino al Municipio, quando un bullo comincia a provocarlo, mentre le voci di due complici in qualche modo fanno il tifo, e un altro si dedica alle riprese: avrà già in mente di postarle, di catturare un sacco di visualizzazioni. Il filmato dura un paio di minuti e non è una scazzottata, è un viaggio nell’abisso. «Levati dal c.!» grida l’aggressore, poi comincia a spintonare. Intanto le altre due iene sghignazzano, «Eh eh, gli ha detto don’t touch me, sì, don’t touch ‘sto c.!». Il bullo ha la canotta nera, si sta caricando, deve farlo per il suo pubblico. «Io pensavo che lo picchiavi! » fa una delle voci, mentre l’altra si inserisce: «E pum! Adesso carica il destro e lo sdraia!».
Il ragazzo aggredito allunga le braccia per difendersi, qualche passante sullo sfondo non si volta neppure, si sa che Pilato è anche peggio di Giuda. «Mo’ ficcagliene uno!» insiste la iena. Il carnefice ha deciso che non basta così, deve farla pagare a quel nero: lo spinge verso il bordo della strada dove sfreccia un camion a pochi centimetri, lo abbranca con una mossa da arti marziali e lo abbatte. «Negro bastardo, l’ha preso!» E quell’altro continua a filmare. Il ragazzo cade molto male, di schiena, può spezzarsi l’osso del collo. Alla fine interviene un uomo, il suo nome è Davide, e dice di smetterla. «Ma cosa stai facendo?» domanda. «Niente, dài», risponde una voce. Niente.
Niente più che provocare, minacciare, aggredire e colpire un ragazzo nero, perché è così che funziona adesso. Se i neri vanno in piscina s’indigna Salvini, se una cameriera nera serve in un locale di Cortina con addosso il costume tipico bisogna stroncarla su Tripadvisor, se due neri si riposano su una panchina a Forte dei Marmi sono certamente due migranti a sbafo, mica una leggenda del basket e una star di Hollywood. Il nero è nemico, continua minaccia, ladro di spazio e lavoro e sussidio. Le belve lo annusano da lontano come un animale ferito e lo isolano, poi lo sbranano.
I carnefici stavolta sono ragazzi normali, come no. Due diciassettenni di Acqui identificati dai Carabinieri e denunciati alla Procura dei minori di Torino per lesioni e istigazione a delinquere, mentre il nero era ricoverato al pronto soccorso con un trauma cranico per fortuna lieve. Il fatto è accaduto l’8 agosto, ma è stato scoperto ieri perché ormai virale nel mondo degli youtuber. Anche il male, adesso, comincia a esistere davvero solo quando si fa spettacolo e rimbalza nell’arena virtuale, lui invece così reale. Un corpo martoriato e una persona umiliata ricevono, per così dire, certificazione ufficiale. Ma stavolta c’è di più. Ci sono gli zainetti dei carnefici, le loro parole che vorrebbero essere scherzose, in fondo che c’è di male? Quel nero è una lucertola da rincorrere per mozzarle la coda, un ragno a cui strappare le zampe, è quasi logico che sia una vittima e accetti la parte: per forza, è nero.
Di questa lunga, infinita scena fanno molto male non solo i colpi dati, non solo la solitudine della vittima, il suo essere inerme e per nulla decisa a battersi pur essendo più grossa dell’aggressore, ma non violenta come lui. Feriscono le battute di coloro che si sentono spettatori e invece sono kapò, complici dentro la zona grigia, quelli che potevano fare qualcosa e non l’hanno fatto, anzi hanno contribuito a rendere più profonda l’offesa, più insanabile la ferita. E il bello è che ridevano. Cosa sarà mai successo? Solo un negro bastardo da sdraiare. Niente, dài.

Corriere 1.9.17
Così Roma rischia di morire
di Sabino Cassese


C’è una nuova «questione romana», non quella dei rapporti tra Stato e Chiesa, ma quella del rapido declino della capitale d’Italia. Potremmo oggi ripetere le parole con le quali l’ambasciatore francese a Roma Gramont, nel 1860, sintetizzava il suo giudizio: «C’est ici que l’Orient commence» (è qui che comincia l’Oriente). Con l’Unità d’Italia, Roma si era sollevata al rango delle capitali europee. Ora è una città in stato di abbandono. Le strade sono intransitabili a causa delle buche. Nei casi più gravi, vengono tenute chiuse per evitare incidenti, ma così impedendo alla gente di raggiungere le proprie abitazioni. Vi sono lavori pubblici che attendono da quarant’anni d’esser fatti. Per la pulizia di strade e giardini, in alcuni casi diventati pattumiere, si ricorre ormai al «fai da te»: si paga qualche extracomunitario di buona volontà, che provvede. Se un albero crolla, lo si circonda con qualche segnale di pericolo e lo si lascia per terra. Alcuni luoghi pubblici, anche i portici di una delle principali basiliche, sono intransitabili perché vi sono persone accampate, che hanno fatto della strada la propria casa. Tolleranza e incuria regnano sovrane. I trasporti pubblici non funzionano, per cui tutti ricorrono ai mezzi privati, con conseguenze gravi per traffico e ambiente. I vigili urbani sono diventati una entità astratta. Gli amministratori locali vivono sulla luna, invece di girare per le strade e constatare in che condizioni sono.
Questo degrado — di cui ho tratteggiato solo i lati più evidenti — non è cominciato da oggi, ma si è ora improvvisamente accelerato. Mentre Roma ritorna a grandi passi verso il livello di una città medio-orientale, Milano corre, e ai romani che visitano la «capitale morale» pare di esser in un altro Paese.
Poiché una nazione e uno Stato non possono tollerare questa situazione, occorre un piano straordinario per Roma, che impegni tutto il Paese, che renda concreta quella «promessa» che si legge nella Costituzione: «Roma è la Capitale della Repubblica». Questo piano straordinario dovrebbe partire da tre punti.
Il primo è affidare le funzioni di rappresentanza a una persona diversa dal sindaco. Occorre riconoscere che oggi i sindaci di Roma, di una città dove risiedono due capitali (quella dello Stato e quella di una potenza mondiale, la Chiesa cattolica), sono caricati di una funzione da ciambellani, debbono ricevere capi di Stato, visitare pontefici, accompagnare personalità straniere in visita. Questo assorbe energie e «vizia», abituando chi dovrebbe gestire e amministrare a stare sotto la luce dei riflettori, accanto ai grandi nomi della vita internazionale.
Il secondo è dare alla Capitale un ordinamento speciale, come molte delle capitali del mondo (la Costituzione dispone espressamente che «la legge dello Stato disciplina il suo ordinamento»). Un ordinamento speciale che riconosca una realtà ineludibile: la duplicità di funzioni del potere locale romano, che è chiamato anche ad agire come capitale, quindi nell’interesse della intera nazione. Ciò significa che, accanto al rappresentante scelto dal popolo, vi sia un gestore che goda dei poteri necessari a intervenire sullo svolgimento delle attività di interesse generale: per esempio, un organismo politico, un ministro senza portafoglio che faccia sentire nella città gli interessi del Paese e un organismo tecnico che dia attuazione alla cura di questi interessi. Questo era inizialmente chiaro ai «padri fondatori»: Quintino Sella, tra gli altri, pensò che la «città amministrativa» non dovesse essere lontana dalla stazione ferroviaria, perché non doveva servire i romani soltanto, ma anche tutti i cittadini italiani.
Il terzo punto è abbandonare il ragionamento cinico: lasciamo che i Cinque Stelle dimostrino quel che (non) sanno fare, in modo da far capire che una dirigenza politica e amministrativa non si improvvisa. Occorre invece riconoscere che l’evidente incapacità amministrativa di quel movimento politico danneggia romani e italiani, e che, quindi, vanno aiutati. Aiutarli vuol dire prestare alla città una ventina di sperimentati amministratori pubblici, capaci di costituire, con l’esempio, focolai di buona gestione, riconoscendo che per fare il buon amministratore non basta essere un politico onesto.

Corriere 1.9.17
Chi sono i 2.438 denunciati
di Fiorenza Sarzanini


Lo stupro è l’unico reato a restare uguale di fronte a un calo dei delitti. Appena il 7% viene denunciato: migliaia gli episodi impuniti. Tra gennaio e giugno 2017 sono state commesse 2.333 violenze carnali. Basso il numero delle persone denunciate o arrestate: 2.438 (1.534 italiani e 904 stranieri). Per l’Istat sono 6 milioni le donne vittime: 4,5 milioni costrette a compiere atti sessuali, 1,5 che hanno subito la violenza più grave.
ROMA È certamente uno dei reati più odiosi. Ed è anche l’unico a restare sempre uguale nel numero di segnalazioni, a fronte di un generale calo dei delitti. Segnalazioni che, peraltro, sono una percentuale minima rispetto alla realtà. Perché le stime diffuse dall’Istat dicono che appena il 7 per cento degli stupri viene denunciato, vuol dire che migliaia di episodi rimangono impuniti. Le donne hanno paura, visto che molto spesso la violenza la subiscono in famiglia. Oppure si vergognano, comunque temono le conseguenze. La conferma è nei dati forniti dal Viminale: tra gennaio e giugno del 2017 sono state commesse 2.333 violenze carnali, nello stesso periodo del 2016 furono 2.345. Basso anche il numero delle persone denunciate o arrestate: 2.438 nei primi sette mesi di quest’anno. Tra loro, 1.534 italiani e 904 stranieri. Un dato che — come chiariscono investigatori e analisti — si deve però rapportare al numero degli abitanti e dunque all’incidenza percentuale rispetto alla popolazione. Nel 2016 sono stati 2.383 con una divisione che è rimasta pressoché invariata: 1.474 italiani, 909 stranieri.
6 milioni di vittime
È proprio l’Istat a fornire una fotografia drammatica. Secondo l’ultimo rapporto ben il 21 per cento delle donne italiane — pari a 4,5 milioni — è stata costretta a compiere atti sessuali e 1 milione e mezzo ha subito la violenza più grave: 653mila donne vittime di stupro, 746mila di tentato stupro. Un intero capitolo della relazione è dedicato agli abusi in famiglia: il 37,6% tra mogli e fidanzate ha riportato ferite o lesioni, il 21,8% soffre di dolori ricorrenti. E in una catena di orrori senza fine si scopre che nel 7,5 % dei casi a scatenare l’ira del partner è la gravidanza indesiderata.
Indicativo, secondo gli analisti, è lo stato di vessazione psicologica che riguarda ben 4 donne su 10. In questo caso viene sottolineata l’incidenza sui rapporti interpersonali di quello che gli esperti definiscono l’«asimmetria di potere» che «sempre più spesso sfocia in gravi forme di svalorizzazione, limitazione, controllo fisico, psicologico ed economico. Il 40,4% delle donne, oltre 8,3 milioni, «è stata abusata verbalmente fino a sopportare gravi danni allo sviluppo della propria personalità, una su 4 ha difficoltà a concentrarsi e soffre di perdita di memoria».
Delitti in calo
I numeri forniti dal ministero dell’Interno a Ferragosto segnalano un generale calo — in alcuni casi molto evidente — dei delitti. Negli ultimi due anni c’è stata una diminuzione pari al 12 %: si è infatti passati da 1.463.156 reati denunciati nei primi sette mesi del 2016 a 1.286.862 nello stesso periodo del 2017. Scendono del 15,1% gli omicidi passando da 245 a 208; giù del 11,3% le rapine da 19.163 a 16.991; si riducono del 10,3% i furti (anche se pure in questo caso gioca soprattutto la diminuzione delle denunce) da 783.692 a 702.989.
A rimanere stabile è appunto soltanto il numero degli stupri: la statistica parla di una riduzione dello 0,5% quindi, di fatto, inesistente. E a far paura è l’analisi di un fenomeno che coinvolge spesso anche i minorenni. Nel 2015 il ministero della Giustizia aveva in carico 532 ragazzi condannati per stupro e 270 per stupro di gruppo.
Gli stranieri denunciati
Il numero di stranieri denunciati o arrestati è basso, ma diventa indicativo se si fa un raffronto con le presenze in Italia che — secondo le ultime stime — sono di circa 5 milioni di residenti e quasi un milione di irregolari. Nei giorni scorsi la società di ricerche Demoskopica ha reso noto un dossier relativo agli anni 2010-2014, secondo cui «il 39% delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61% da connazionali». L’analisi per etnie delle denunce presentate dice che dopo gli italiani «ci sono i romeni, poi gli albanesi e i marocchini».
Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente del Telefono Rosa, avverte: «Più che fare una differenza di cittadinanza, dobbiamo preoccuparci visto che sta passando un messaggio tremendo di impunità. Gli stupri in Italia sono all’ordine del giorno».

Corriere 1.9.17
«Solo il 7% delle donne ha la forza di denunciare»
Il sociologo Marzio Barbagli: non ci sono dati per dire se gli extracomunitari ne commettano di più
di Mariolina Iossa


Professore, quanto influisce la cultura, la percezione della donna, in questa escalation di violenze sessuali da parte di immigrati?
«Il problema, nel dare una risposta a questa domanda — spiega il sociologo Marzio Barbagli, professore emerito a Bologna — è che il numero di denunce per violenza sessuale è molto basso in Italia. Solo sette donne su cento, secondo i dati Istat, sporgono denuncia. Ancor meno lo fanno le donne violentate da familiari, amici, conoscenti. E pochissime sono le straniere che si rivolgono alla polizia».
Non c’è quindi un’incidenza maggiore degli stranieri che commettono violenza sessuale rispetto agli italiani?
«Dico solo che non ci sono dati solidi da cui trarre conseguenze certe. Come invece ne abbiamo per altri tipi di reato, per esempio gli omicidi, dove l’incidenza degli stranieri è maggiore. Va però detto che sia le violenze sessuali, sia gli omicidi, diminuiscono in maniera costante in Italia a partire dal 1992, e la tendenza non si è mai arrestata».
Non crede che il retroterra culturale dei musulmani, provenienti da una società dove la donna è sottomessa, possa influire sui loro comportamenti rispetto all’universo femminile?
«Sappiamo bene che la base culturale degli immigrati, e degli islamici in particolare, è diversa dalla nostra, e che in molti Paesi musulmani esistono innumerevoli forme di sottomissione della donna. Ma non possiamo dire se questo abbia una diretta influenza sulla violenza sessuale. C’è da sottolineare invece che i maschi stranieri che arrivano da noi sono molto diversi da quelli che restano nel Paese di origine. Sono più giovani, più dinamici, più moderni».
Più moderni anche nelle relazioni con le donne?
«Sì. Gli stranieri non sono simili agli europei, culturalmente, ma sono molto lontani dalle famiglie rimaste a casa. E in Italia si comportano diversamente. Lo vediamo per esempio nella sfera religiosa. Gli immigrati islamici non si convertono al cattolicesimo ma la maggioranza è molto “tiepida” verso le sue stesse pratiche religiose».
La percezione che ne hanno gli italiani sembra essere diversa.
«Invece, analizzando bene il fenomeno, è evidente che l’immigrato ha già in sé una diversità di orientamenti, desideri, aspirazioni e stili di vita, e ha molte più informazioni sul mondo dove va, rispetto ai parenti che sono rimasti nel loro Paese. Per esempio, ha più fiducia nella medicina, si adegua alle forme di intrattenimento, di vita sociale, e quindi anche ai rapporti tra i generi».

Il Fatto 1.9.17
Migranti, Bonino: “Incontri Ue inutili. L’accordo con la Libia? Rimandiamo la gente in preda a stupri e sevizie”

qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/08/31/migranti-bonino-incontri-ue-inutili-laccordo-con-la-libia-rimandiamo-la-gente-in-preda-a-stupri-e-sevizie/3827857/

Repubblica 1.9.17
Delrio con Orlando contro le dichiarazioni sulla democrazia a rischio. Orfini: “Serve battaglia anti-razzista”
L’ex premier chiama tutti: abbassare i toni, siamo una squadra
Migranti, le frasi di Minniti agitano il governo e i dem “Il Pd non cavalchi le paure” La mediazione di Renzi
di Tommaso Ciriaco


ROMA. C’è una fronda contro Marco Minniti che prende forza, nel cuore del governo e del Pd. E ruota attorno a una frase del ministro sull’emergenza migranti e i rischi per la tenuta democratica del Paese. «Non bisogna cavalcare la paura, né inseguire le parole d’ordine della destra», va dicendo in privato Graziano Delrio. «Nell’azione al ministero Marco è stato perfetto assicura Matteo Orfini - ma serve anche una battaglia culturale del nostro partito per contrastare l’ondata di razzismo che si fa spazio nel Paese». Fronda, dunque. E barricate nell’esecutivo, visto che Andrea Orlando spara così: «Non cediamo alla narrazione dell’emergenza, è il ritorno di un fascismo non giustificato da alcun flusso migratorio ». E Matteo Renzi? Preoccupato dallo scontro, il segretario decide di intervenire. Al Tg1 sorvola, «molti giudicano le sue dichiarazioni, io preferisco giudicare i fatti del ministro Minniti, e i fatti dicono che gli sbarchi stanno diminuendo». In privato, però, qualcosa in più concede, vestendo i panni del mediatore: «Marco ha lavorato benissimo, ma quella frase era sbagliata - dice ai suoi, chiamandoli uno dopo l’altro per frenare i progetti bellicosi - Dobbiamo tutti abbassare i toni. E mostrarci forza tranquilla, sapendo che Berlusconi - con Salvini - radicalizzerà lo scontro proprio su questi temi».
Politica e ambizioni si sovrappongono, in questo agosto pre elettorale. Minniti, ad esempio, considera irrinunciabile combattere da sinistra la sfida per la sicurezza. E governare i flussi, anche a costo di entrare in rotta di collisione - come accaduto sulle Ong - con i colleghi di governo. Non si fermerà, questo è certo. A chi lo indica come il principale sfidante di Renzi nella corsa alla premiership, il titolare del Viminale risponde sempre che no, «io mi spendo anima e corpo per fare al meglio il ministro ». Ai più fidati concede giusto qualcosa in più: «Chi attacca mi teme. Ma in politica bisogna sempre stare calmi e giocarsi le proprie carte».
La verità è che al di là del totopremier estivo la questione migranti agita davvero il Pd. Questione di ricette e sensibilità. Per Renzi, però, la priorità è soprattutto raffredare lo scontro interno. È l’unica strada, sostiene, per affrontare una campagna elettorale che vedrà le piazze della destra urlare contro i migranti. «E noi invece dobbiamo essere una squadra». Cercando quindi di parlare a quanti più mondi possibili: al centro con Minniti, a sinistra con Cuperlo e Orlando, un po’ a tutti con Paolo Gentiloni. Una forza tranquilla alla Mitterand, è lo slogan. «Poi magari la forza sono io - scherza con i suoi - e la tranquillità è Paolo...».
Per perseguire questo obiettivo, il segretario dem si è incollato al telefono, chiamando mezzo partito. Ha chiesto a Delrio di sedare la rabbia per le recenti uscite del ministro dell’Interno, ha proposto una tregua a sinistra. Poi, certo, non è un mistero che sia proprio Renzi ad aver più volte confidato fastidio per un eccesso di protagonismo di Minniti, ma il sostegno alla sua azione di governo è effettivo: «Marco ha lavorato benissimo, non c’è alcun problema tra noi». Che è poi musica per le orecchie di Gentiloni.
Il presidente del Consiglio pensa che il Pd debba affrontare con una sola voce il dossier immigrazione, senza soste nel lavoro intrapreso: «C’è una campagna d’odio contro i migranti alimentata da Grillo e Salvini - sostiene in privato - e noi dobbiamo tenerlo bene a mente». Responsabilità e moderazione, dunque. E totale identità di vedute con il ministro dell’Interno nelle scelte assunte: «Con Marco abbiamo condiviso ogni decisione ».
Resta ovviamente la sfida per la premiership. E quel passaggio delicato di novembre, con le elezioni siciliane che rischiano di indebolire ancora il segretario dem. Per adesso, comunque, Renzi si cala nella parte del mediatore tra ministri che litigano sui migranti. E ripercorre il duello tra Minniti e Delrio trovando rifugio nell’ironia: «Che poi, rappresentare chi viene dal Pci come quello di destra, e un cattolico democratico come quello di sinistra non è neanche così credibile, dai...».

il manifesto 1.9.17
Renzi tenta il ritorno
In tv e poi nelle piazze. Il segretario del Pd apre la lunga campagna elettorale spiegando che la legge elettorale non si potrà cambiare e che i meriti del governo Gentiloni sono i suoi
di Andrea Fabozzi


Veloce nell’auto elogio su facebook, pubblicato appena mezz’ora dopo l’uscita dei dati Istat sull’occupazione, Matteo Renzi è altrettanto rapido nel replicare a un suo sostenitore che gli fa i complimenti usando il passato prossimo. «Hai avuto il coraggio di provare, di fare. Una parte di noi italiani ha apprezzato tantissimo», gli scrive Emilio Martino. E lui immediatamente risponde, chiarendo: «Grazie, ma siamo solo all’inizio».
L’inizio di una nuova scalata a palazzo Chigi, l’inizio intanto dell’«operazione ritorno». Primo passaggio in tv l’intervista ieri sera al Tg1, primo appuntamento pubblico domattina a Bologna (e a seguire altri cinque comizi in altre cinque feste dell’Unità, in due giorni). Il calendario delle rilevazioni Istat offre un contributo, il resto lo fa la fantasia nelle interpretazioni. «Il dato più interessante – scrive Renzi – è che da febbraio 2014, inizio dei #MilleGiorni, a oggi sono stati creati 918mila posti di lavoro». E a sera al Tg1 dice: «C’è chi il milione di posti di lavoro lo promette in campagna elettorale, e chi lo realizza. Ma per realizzarlo serviva il Jobs act». Il conteggio è singolare: se il merito è del Jobs act, il calcolo andrebbe fatto dalla metà del 2015, cioè da quando sono entrati in vigore i decreti delegati delle riforma.
Ma a Renzi interessa esaltare tutta la sua avventura, a partire dall’inizio. E senza limiti, perché una novità che si comincia ad apprezzare nel discorso del «ritorno», soprattutto nell’intervista al Tg1, è che il segretario vuole intestarsi (quelli che considera) i successi del governo Gentiloni. Ha letto bene i sondaggi, ha visto gli indici di gradimento del presidente del Consiglio e del ministro degli interni. Del quale non dirà più che ha «le vertigini», adesso per Minniti ha solo elogi: «I fatti sono semplici, gli sbarchi stanno finalmente diminuendo e questo è un passo in avanti importantissimo. Aiutarli veramente a casa loro è possibile, però bisogna chiedere una mano all’Europa».
«Aiutarli a casa loro», lo slogan salviniano che Renzi ha ripreso nel suo libro, era stato disconosciuto dal Pd di fronte alle polemiche e alle accuse di voler copiare la Lega. Adesso è tornato. E sono tornati gli elogi al ministro Delrio, campione dell’approccio soft, e al premier Gentiloni, incarnazione del basso profilo. Tant’è che anche nel commento ai dati Istat il presidente del Consiglio in carica aggiunge quella prudenza che all’ex premier manca del tutto. «Effetti positivi da Jobs act e ripresa, ma ancora molto da fare contro disoccupazione» twitta da palazzo Chigi, riconoscendo anche qualche merito alla congiuntura. Assai più in sintonia con questo realismo è l’auspicio – «speriamo» – che il presidente della Repubblica si lascia sfuggire durante la visita alla Biennale arte di Venezia. Assieme alla constatazione che «arrivano da più versanti segnali confortanti».
A Sergio Mattarella si richiama doverosamente Renzi quando il Tg1 gli chiede se dopo la legge di bilancio la legislatura dovrà considerarsi chiusa. Il segretario pensa proprio di sì, perché questa è l’unica condizione per andare alle elezioni tra fine febbraio e inizio marzo e non due mesi dopo. Ma correttamente ricorda che «i tempi li decide il presidente della Repubblica». Poi però sparge scetticismo sulla riforma della legge elettorale. «Noi come Pd siamo disponibili – dice – quante proposte abbiamo fatto. La mia impressione è che gli altri non abbiano interesse ad andare fino in fondo». Non è proprio così, visto che gli interessati a modificare la legge non mancano, solo che spingono tutti in direzioni diverse. In definitiva è ancora il segretario del Pd quello che ha più interesse a tenere ferme le attuali e diverse leggi per camera e senato, frutto di due sentenze della Corte costituzionale. Perché così può sperare di costringere al listone, alla camera, eventuali alleati di sinistra (Pisapia) e destra (Casini), per sognare il premio di maggioranza, e imbastire invece una coalizione al senato con Alfano, per consentirgli di superare la soglia di sbarramento.
Un piano del genere non tiene conto dei ripetuti appelli di Mattarella all’«armonizzazione» delle leggi elettorali di camera e senato. Renzi riconosce al capo dello stato la regia dei «tempi», ma quando fa l’elenco delle cose da fare in autunno cita l’«edilizia scolastica» e «i soldi per i non autosufficienti e anziani». Cose, dice, «concrete». Di legge elettorale non parla, e nemmeno di Ius soli.

Repubblica 1.9.17
Cacciari: “Il dovere della sinistra è reagire a tutte le bugie della destra”
Ho apprezzato il video di Saviano, che ha smontato efficacemente le menzogne sull’immigrazione
Il filosofo: la linea non può essere tradurre in versione moderata le tesi della lega
di Alessandra Longo


ROMA. Che cosa fa la sinistra di fronte all’esplosione di violenza verbale, a certe pulsioni xenofobe, razziste della destra? Chiederlo a Massimo Cacciari significa avere risposte tranchant (incluso un attacco a Minniti) tipo questa: «Registro una deriva estremamente pericolosa. La sinistra, chiamiamola così, non reagisce più alle menzogne degli avversari. Anzi, semmai cerca comportamenti che possano soddisfare costoro. E così non li fermerà, così perderemo le elezioni ».
Cacciari, la questione immigrazione avanza come un incendio che divora ogni ragionamento… «E’ vero. Siamo passati da una fase di comprensibile timore di fronte all’evidente aggravarsi del problema, con un’Europa impotente e il nuovo protagonismo della destra xenofoba ad una fase – quella di adesso – in cui subiamo passivamente le palle che sparano dall’altra parte. Non c’è reazione, tentativo di controbattere e razionalizzare. Al contrario si cerca di tradurre in “moderatese” quello che certa destra urla in modo forsennato».
Clima brutto.
«Prevalgono parole di odio e violenza. Ed è tipico delle grandi crisi di regime. Le orecchie si chiudono, l’ascolto diventa impossibile. Subentra la logica dell’amico/nemico. La crisi non è più in mano di chi governa. Non sottovaluto la situazione. Siamo in un’epoca di trasformazioni radicali che generano paure e disagi. Dico però che la cosiddetta sinistra non fa nulla per contrastare questo clima».
Cosa dovrebbe fare?
«Deve cambiare la comunicazione, bisogna rappresentare la questione immigrati in modo razionale, evidenziare i punti deboli nella gestione, i suoi tempi lunghi, fornire dati economici, spiegare che non c’è un’invasione che toglie il pane alla gente. C’è un fenomeno epocale che va governato, con una grande progettualità, con i piani di aiuto ai Paesi di provenienza, con l’Europa che si prende le sue responsabilità. Mi è piaciuto il video di Saviano su Repubblica. Non amo sempre l’uomo ma in questo caso ha smontato efficacemente le menzogne della destra, i luoghi comuni. Non è una tragedia se Sesto San Giovanni dovrà accogliere 100 immigrati. La tragedia vera è di quei poveretti che vanno in mare e vengono ricacciati nei lager della Libia. Si è rovesciata totalmente la scala dei valori ».
Il ministro Minniti dice di aver temuto per la tenuta del sistema democratico nel momento di massima crisi migratoria.
«Ma scherziamo. Se così fosse vorrebbe dire che l’attuale sistema democratico è marcio e allora merita di finire! Non bisogna temere di perdere voti e creare un clima parossistico. Così vince la destra. Bisogna rappresentare bene la questione. La politica deve essere razionale non è fatta per dire alla gente: “hai ragione”, non deve ascoltare le domande e ripeterle. Deve dare risposte e indicare prospettive».
Però bisogna anche rispettare il senso di inquietudine della collettività.
«Certo, per questo serve una buona comunicazione della politica. Bisogna smontare le menzogne che seminano il panico. La percezione di insicurezza non è creata solo dal problema immigrazione. Siamo un Paese con il 35 per cento di giovani disoccupati, con milioni di individui in miseria, con il Meridione in mano alla criminalità organizzata. Se il Pil fosse schizzato al 15 per cento, le reazioni della gente ai migranti sarebbero molto diverse. Ma la realtà un’altra. E allora vince chi grida di più».

Repubblica 1.9.17
Le parole dell’odio
di Stefano Bartezzaghi


Durante una lite che sarebbe culminata nel deposito di escrementi canini sullo zerbino della parte avversa, un’anziana signora, temibile e picchiatella, espose sul pianerottolo un cartello che terminava con l’anatema: «Taci, inquilina!». Qualsiasi parola può infatti essere piegata a insulto. A controprova, la frase razzista postata su TripAdvisor dal politico di Forza Italia non ha nulla di scorretto, se non sintatticamente: «Non ho apprezzato una cameriera di colore a servire con costume parzialmente ampezzano ». È quindi vano badare ai singoli vocaboli, attribuendo loro un valore che in realtà non hanno. Da quanto tempo, peraltro, «fascista» non è più un insulto, cioè non riesce più a sollevare l’indignazione che vorrebbe?
Il razzismo si camuffa da senso comune, la violenza «fa problema» solo dopo che è avvenuta. Sullo stupro ormai si fanno distinguo, leggiamo titoli come «Picchiato e ripreso con lo smartphone» e dei profughi un ragazzo del Tiburtino dice, quasi pacato: «Toccherebbe bruciarli». A partire dalla perfetta negazione del valore del corpo dell’altro, i segni dell’odio oggi non sono più nelle qualifiche ma nelle azioni. Da temere è questo: la parola che è tutta un programma.

Corriere 1.9.17
Da Orlando a Grillo, la giostra siciliana Così va in scena il teatro dei pupi
di Gian Antonio Stella


Le accuse incrociate dei paladini di ogni colore. Ma ogni pronostico è azzardato
«Ollannu e Rinardu sunnu chiddi ca fannu calari ‘a pasta», dicevano i vecchi pupari. Cioè quelli così amati tra i pupi siciliani che facevano «buttare la pasta». Reggevano la scena. Davano da mangiare. Ma riuscirà l’ultimo Orlando siculo (quel Leoluca che si vanta d’avere vinto «sette comunali su sette» e come trionfatore delle ultime si è preso il diritto di decidere squadra e strategia) a condurre alla vittoria la rissosa accozzaglia di paladini d’ogni stampo e colore per la cui guida ha scelto il rettore Fabrizio Micari?
I sondaggi, per ora, non sembrano entusiasti del «modello Orlando senza Orlando» lanciato sperando di ripetere il successo di mesi fa a Palazzo delle Aquile. Anzi. Al punto che la «coalizione civica a trazione Pd» immaginata dalla coppia Leoluca-Matteo (Renzi) potrebbe arrivare addirittura terza dopo quelle dei grillini e della destra che, dopo anni di deriva, sembra avere preso nuovo vigore. E potrebbe perfino fare la sorpresa.
Quel che è certo è che la sfida si è via via animata e contraddetta e scompigliata al punto di somigliare sul serio una di quelle rappresentazioni di pupi che andavano avanti per mesi e mesi, in un incessante sbatacchiar di armi per «la più invisibile delle guerre invisibili». Senza però la presenza del «perdomani», il pupo che anticipava che cosa sarebbe successo nella puntata successiva.
E se manca un Gano di Maganza capace di attirare l’odio di tutti (lo storico Antonio Pasqualino racconta che molti anni fa a Gela uno spettatore «acquistò il Gano di Maganza dal puparo, lo appese a un albero e gli sparò a lupara»), i rancori di decenni spaccano un po’ tutti i partiti. Avvelenando il dibattito su tutti i temi. Come il conflitto di interessi di Fabrizio Micari, che a dispetto degli appelli da destra e da sinistra ha detto che si dimetterà da rettore solo se sarà eletto governatore e farà dunque tutta la campagna elettorale tenendo stretta la poltrona da cui dirige la più grande università siciliana che dà lavoro a 4.500 dipendenti (che votano). O i conflitti passati di Gaetano Armao, il leader dei «Siciliani Indignati» che ai tempi in cui era assessore regionale invocò la privacy (sic…) contro i cronisti che avevano rivelato come nella veste di avvocato avesse patrocinato le cause di alcuni clienti contro la Regione e contro gli stessi assessorati che gli erano stati affidati.
Per non dire delle accuse ai pentastellati, su tutti Luigi di Maio e Alessandro Di Battista, d’avere dimenticato pagine importanti del movimento, come quella del maggio di tre anni fa quando una pattuglia di grillini, in testa Claudia Mannino e Riccardo Nuti (finiti poi nei guai per la vicenda delle firme false) ebbe il fegato di occupare con un megafono la piazza centrale di Montelepre, vuota, sarcastica e ostile, per un comizio contro la mafia proprio là, nel fortilizio di Salvatore Giuliano. Dove scelsero di rintanarsi i latitanti Giovanni Brusca e Salvatore Lo Piccolo e dove Crescenzo Guarino scrisse che «si impara l’arte di non passare mai davanti a finestre e balconi». Un atto di sfida non ripetuto, in questa estate torrida, neppure nelle terre di Matteo Messina Denaro. «Ci attaccano non su quello che diciamo ma su quello che non diciamo», ha scritto sul blog di famiglia, ricordando varie intimidazioni contro sindaci del M5S Giancarlo Cancelleri, che molti additano già come il governatore in pectore. Una frase infelice. Perché se anche il turbo-renziano Michele Anzaldi cerca la rissa paragonando la ritrosia grillina a quella di Jonny Stecchino («il problema di Palermo è il traffico») e dimenticando al contrario troppi silenzi, ambiguità, complicità dei partiti di sinistra e di destra, quelle parole sono state usate più o meno identiche da decine di politici ben decisi a non toccar mai il tema del cancro mafioso.
E così, mentre gira e gira la giostra elettorale dove non si capisce bene su quale cavallino abbiano deciso di salire molti protagonisti (a partire dagli alfaniani, ovvio: di qua o di là?), spicca l’immobilità sostanziale di una classe politica che fatica da anni a individuare eventuali purosangue. E subisce la tentazione, mentre tutto si muove, di restar lì, ferma. Al punto che perfino la «nuova» sterzata dei fuoriusciti democratici, con la candidatura di Claudio Fava (prima volta all’Ars 25 anni fa) viene celebrata dove? A Enna, la capitale del «regno rosso» di «Mirello» Crisafulli, il potentissimo ras spesso contestato dai suoi stessi compagni per certi rapporti, diciamo così, disinvolti.
Fatto sta che, a poche settimane dalle elezioni, le cronache traboccano di due nomi: Nello Musumeci e Rosario Crocetta. Gli sfidanti di cinque anni fa. Il primo, sopravvissuto alle risatine ironiche quando da presidente della Provincia di Catania varò l’innovazione di chiamare i consiglieri provinciali «onorevoli» e fortissimamente sostenuto da Giorgia Meloni e Matteo Salvini, ci riprova sfidando la sinistra, i grillini e la scaramanzia. Nella corsa alla presidenza regionale, infatti, è già stato battuto due volte. L’antico adagio (non c’è due senza…) non lo scoraggia. Né lo scoraggiano certi compagni di viaggio sui quali, da galantuomo quale rivendica di essere, spara a zero da anni.
Non meno tenace, però, è Rosario Crocetta. Cinque anni a cambiare assessori. Cinque anni a battagliare con tutti, a fronteggiare polemiche, mozioni di sfiducia, accuse velenose… Eppure è ancora lì. Bellicoso. Deciso a non mollare. A prendere a ceffoni prima chi voleva le primarie come Davide Faraone («È solo un capo corrente. Esprime opinioni a titolo personale»), poi chi vorrebbe evitarle a costo di violare lo statuto: «Non c’è alternativa alle primarie. C’è tutto il tempo per farle». Altrimenti? L’ha spiegato al Corriere : «Non sarò io a rompere col Pd, ma se non dovesse arrivare un accordo la crisi di governo sarebbe inevitabile». Con l’istantanea decapitazione degli assessori sopravvissuti. Ma è davvero ancora possibile un accordo, dopo tanti insulti, tante risse, tante ripicche? Sì, ma alle condizioni sue. Ribadite ieri a La7 : «Non posso essere escluso dalla corsa per un complotto oligarchico: io sono il candidato naturale…».

La Stampa 1.9.17
Pisapia: non voglio rompere con Mdp
In Sicilia il sì a Micari non è scontato
L’ex sindaco: “Alle politiche mai alleato con Ap e forze di centrodestra”
di Andrea Carugati


«Se resta questo schema con 4 candidati dell’area progressista, in Sicilia ci schiantiamo. E a pochi mesi dalle elezioni politiche sarebbe un messaggio devastante». Giuliano Pisapia, dopo lo strappo con Mdp e Sinistra italiana sulle elezioni siciliane, è partito per un viaggio in Grecia che si concluderà domenica.
In queste ultime ore di vacanza sta riflettendo su cosa fare al rientro per “cambiare verso” alla campagna elettorale siciliana che, a suo avviso, rischia di essere «un suicidio» del centrosinistra. «Il candidato del Pd e di Leoluca Orlando, Fabrizio Micari, rischia di arrivare oltre 10 punti sotto la destra e il M5S. E la sinistra potrebbe addirittura restare fuori dal parlamentino regionale», è la sconsolata riflessione affidata ai più stretti collaboratori. Tre giorni fa, infastidito dalle ricostruzioni che davano per assodato il suo appoggio al rettore Micari, l’ex sindaco di Milano ha fatto diramare un comunicato per dire che «sulla Sicilia nessuna decisione è stata presa» e dunque «tutte le ipotesi sono in campo». Compresa quella di un forfait: Campo progressista potrebbe chiamarsi fuori dalla partita nell’Isola, con un messaggio di Pisapia molto critico nei confronti di tutti i partiti del centrosinistra. L’altra ipotesi è quella di mettere dai paletti molto stringenti sul programma, in modo da spingere Alfano fuori dalla coalizione. «Dentro Ap ci sono molti malumori, non è affatto detto che alla fine sostengano Micari», ragiona Marco Furfaro, uno dei Pisapia boys. Il sogno dell’avvocato milanese è che lo scenario siciliano, a sorpresa, possa cambiare. Riaprendo la strada a un’ipotesi di centrosinistra. Ma tra i suoi non si esclude neppure una clamorosa virata a sinistra con il sostegno al candidato delle sinistre Claudio Fava. L’ex sindaco deciderà tra lunedì e martedì, dopo aver parlato con suoi.
Pisapia non ha nessuna intenzione di essere schiacciato dentro l’asse Renzi-Alfano come una costola di sinistra. Meno che mai a livello nazionale. «L’ipotesi di un listone comune alle politiche non esiste», ha ribadito ai suoi dalla Grecia. «E non esiste neppure una coalizione con Pd e Ap al Senato». «La nostra linea non cambia», spiega Furfaro. «La coalizione col Pd si fa solo con un programma in discontinuità e con una leadership contendibile». «Il centrosinistra non si fa con dentro pezzi di centrodestra», gli fa eco Alessandro Capelli, portavoce di Campo progressista. «Quella siciliana sarebbe comunque una eccezione, dentro un progetto civico».
E tuttavia i rapporti tra Pisapia e Mdp restano tesi. «Con Pisapia dovremo discutere, ma noi restiamo per un progetto ampio», ha messo a verbale Per Luigi Bersani.
L’ex sindaco di Milano, dal canto suo, è molto irritato per il «gesto unilaterale» dei bersaniani che hanno lanciato Fava senza consultarlo. «Se vogliamo fare un partito insieme c’è innanzitutto da affrontare un problema di metodo». Per questo, ad oggi, l’assemblea di ottobre per lanciare il nuovo partito a guida Pisapia resta congelata. «L’interlocuzione con lui continuerà», spiega Arturo Scotto. «L’eventuale divisione in Sicilia non deve per forza avere ripercussioni nazionali». «Ma bisogna prima capire se Mpd vuole ancora fare un percorso insieme», ragiona Capelli.
Bersani è in attesa di una parola chiara dell’ex sindaco. Sulla Sicilia e non solo. «Noi siamo rimasti fermi alla piazza del 1 luglio», dice Capelli. «Vogliamo costruire una forza di centrosinistra autonoma dal Pd». L’ex sindaco, alla prima prova politica appare ancora incerto sul da farsi. Ma chiaro nella diagnosi: «Se la Sicilia sarà una partita a due tra destra e M5S, alle politiche rischiamo una Waterloo».

Il Fatto 1.9.17
Renzi calpesta lo Statuto: fa fuori Crocetta con i cavilli
Contro le regole - Solo l’assemblea locale può evitare le primarie, ma non è mai stata convocata. E la Commissione di garanzia tace
Renzi calpesta lo Statuto: fa fuori Crocetta con i cavilli
di Lorenzo Vendemiale


Il Partito democratico viola il suo stesso statuto pur di non ricandidare Rosario Crocetta. Qualcuno a Roma (ovvero Matteo Renzi) ha deciso che il governatore non sarà l’uomo del centrosinistra alle prossime elezioni Regionali in Sicilia. Impossibile, del resto, riproporre con lui l’alleanza con Angelino Alfano che tanto sta a cuore al segretario dem.
Così ecco l’investitura diretta per Fabrizio Micari, rettore di Palermo, candidato civico, copertura ideale per l’accordo coi centristi. E fa nulla che lo statuto regionale preveda le primarie con la ricandidatura automatica del presidente uscente, e che la scelta di Micari sia palesemente in contrasto anche con la normativa nazionale.
“Lo Statuto prevede la ricandidatura del governatore uscente”, ha detto Crocetta nella conferenza stampa di presentazione del suo manifesto elettorale, denunciando il tentativo di “farlo fuori”. Un’accusa chiara, rivolta a tutti i vertici del partito. E la Commissione di garanzia, l’organo che dovrebbe vigilare sul rispetto delle regole interne, che dice? Assolutamente nulla: “Noi ci pronunciamo solo se investiti ufficialmente della questione, non sulla base di articoli o dichiarazioni a mezzo stampa. E ad oggi non abbiamo ricevuto nulla”, spiega Giovanni Bruno, avvocato palermitano, presidente dei Garanti regionali. “E poi non prendiamoci in giro: il problema è politico e va risolto politicamente, sarebbe ridicolo che si nascondessero dietro la foglia di fico della commissione”.
In realtà, nello statuto regionale sembra esserci poco da interpretare: l’articolo 24 chiarisce che “il sindaco, il presidente di Provincia e il presidente della Regione, quando iscritti al Pd Siciliano, sono candidati di diritto alle elezioni primarie”. “Da presidente di un organo di garanzia non posso esprimere la mia opinione”, precisa Bruno.
Anche dalla Commissione nazionale preferiscono non commentare. “Di certo – aggiunge il garante siciliano – su un eventuale procedimento giudicheremmo applicando due fonti, lo statuto regionale ma soprattutto quello nazionale, che è ad esso sovraordinato”. E qui le cose si complicano, perché il capitolo che regola la “scelta delle candidature per le cariche istituzionali” è un po’ più articolato.
Una maniera di far fuori Crocetta ci sarebbe comunque. Grazie a un ragionamento degno del miglior azzeccagarbugli: il governatore ha diritto a ricandidarsi alle primarie, certo, ma solo nel caso in cui le primarie ci siano.
E qui viene in soccorso il comma 4 dell’articolo 24, che sembra scritto apposta per consentire ai vertici di fare un po’ come gli pare: “Si procede con le primarie – si legge – a meno che la decisione di utilizzare un diverso metodo, concordato con la coalizione, non sia approvata con il voto favorevole dei tre quinti dei componenti dell’Assemblea del livello territoriale corrispondente”.
Lo stesso statuto rinnega la consultazione aperta e rimette tutto il potere nelle mani dei capi. Se solo non ci fosse un piccolo dettaglio: quell’assemblea regionale dalla maggioranza schiacciante in favore della candidatura unica di Micari, in Sicilia, non è mai stata convocata.
Ad oggi tutto ciò che i vertici locali hanno prodotto è una nota della segreteria provinciale, che rimanda la decisione finale alla direzione regionale. Dell’assemblea neanche l’ombra e il Pd resta “fuorilegge”. Renzi avrebbe anche potuto liberarsi di Crocetta secondo le regole, ma evidentemente le regole nel partito non interessano a nessuno.

Il Fatto 1.9.17
Sicilia, Claudio Fava: “Il Pd è ostaggio dei capibastone di Alfano. Renzi sa di perdere e quindi ha ceduto la regia a Orlando”
Intervista al vicepresidente della commissione Antimafia, candidato governatore da Mdp. "I dem hanno un problema di coerenza: hanno scambiato voti sull'isola in cambio di una modifica della legge elettorale a Roma. Il M5s? Ha imparato dalla vecchia tradizione politica siciliana: parlare poco delle cose che non fanno prendere vot­i. Come la mafia"
di Giuseppe Pipitone

qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09/01/sicilia-claudio-fava-il-pd-e-ostaggio-dei-capibastone-di-alfano-renzi-sa-di-perdere-e-quindi-ha-ceduto-la-regia-a-orlando/3827495/

Il Fatto 1.9.17
“Pisapia è evaporato, i leader non fanno così”
Claudio Fava - Il deputato bersaniano pronto a candidarsi, ma “solo se a sinistra mi appoggiano tutte le sigle”
di Andrea Managò

qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/pisapia-e-evaporato-i-leader-non-fanno-cosi/

Corriere 1.9.17
Il Tar boccia il numero chiuso alla Statale
Accolto il ricorso presentato dagli studenti dell’Udu contro l’accesso limitato alle facoltà umanistiche «Vittoria storica, i test di lunedì saltano». Per l’ateneo la selezione è necessaria. Prove non ancora annullate
di Federica Cavadini


MILANO Il Tar del Lazio accoglie il ricorso degli studenti e ferma il numero chiuso appena introdotto, a maggio, e dopo settimane di protesta, ai corsi umanistici dell’Università Statale di Milano. I test d’ingresso erano in programma da lunedì, con 5mila iscritti per 3.200 posti, il tetto fissato dall’ateneo. I giudici amministrativi ora hanno sospeso i provvedimenti, ovvero la delibera sul numero programmato, impugnati da un gruppo di studenti che hanno presentato domanda di ammissione a questi corsi, da Storia a Lingue, da Beni culturali a Filosofia.
Sulla selezione in ingresso l’ateneo era diviso. Il fronte del sì aveva vinto in Senato accademico con una sola preferenza di scarto. Il rettore Gianluca Vago aveva spiegato che il numero chiuso era legato alla «sostenibilità» di questi corsi che avevano avuto un’impennata di iscrizioni: il numero dei docenti era insufficiente, anche rispetto ai vincoli posti dal ministero. «Occorre selezionare gli ingressi per garantire qualità», la linea del rettore. Mentre gli studenti e parte dei professori erano e restano mobilitati «per un’università libera e aperta a tutti».
A luglio il ricorso al Tar degli universitari dell’Udu. E ieri l’ordinanza che sospende i provvedimenti decisi dall’ateneo in attesa dell’udienza fissata nel maggio del 2018. Nel testo del Tar però ci sono già indicazioni. Il punto è che alcuni corsi sono programmati a livello nazionale come Medicina e Architettura e per altri lo sbarramento è deciso dalle università quando prevedono l’utilizzo di laboratori e posti di studio personalizzati, ma non è il caso delle facoltà di studi umanistici. E la stessa università ha motivato la necessità del numero chiuso non per la carenza di laboratori o spazi, bensì di docenti.
«Vittoria storica, i test a questo punto saltano», riferisce l’avvocato degli universitari Michele Bonetti. La Statale però non li ha annullati, non ci sono ancora comunicazioni dall’Università degli Studi. L’ateneo potrebbe ricorrere al Consiglio di Stato, anche se i tempi sono stretti, lunedì c’è il primo dei test di ammissione ai sette corsi di studi umanistici. Il preside della facoltà, Corrado Sinigaglia, non più tardi di quattro giorni fa aveva ribadito che senza selezione sarebbero da «bollino rosso»: «Sono a rischio chiusura visto il rapporto docenti-studenti fissato dal ministero». E ha sottolineato che «nessuno resterà fuori» perché il tetto è alto, «il cosiddetto numero chiuso in questo caso è apertissimo: per Filosofia la Statale prevede più di 500 posti per le matricole mentre alla Sapienza sono 200 e a Bologna non arrivano a 300».
Gli universitari nel giorno della vittoria assicurano che prosegue la mobilitazione per abolire il numero chiuso. «La delibera della Statale conteneva vizi formali e sostanziali perché un voto era stato preso al telefono senza che il regolamento lo permettesse e perché la normativa nazionale, a partire dalla legge 246/99 prevede casi specifici per introdurre il numero chiuso e non coincidono con i corsi della facoltà di Studi Umanistici della Statale», hanno spiegano gli studenti dell’Udu. E il sindacato universitario Link rilancia la protesta: «Da anni denunciamo l’ingiustizia dei numeri chiusi. Il problema però resta, perché l’accesso programmato non è che un sintomo del definanziamento costante del sistema universitario pubblico. Mancano aule, docenti, appelli d’esame, spazi, borse di studio». «La nostra lotta continua», dicono gli studenti. Mentre i cinquemila iscritti ai test dei corsi umanistici della Statale aspettano notizie dall’ateneo.

Repubblica 1.9.17
I vincoli introdotti con la riforma per evitare il referendum hanno ridotto le prestazioni occasionali. Ora il rischio è il sommerso
La grande fuga dai nuovi voucher L’Inps: “Ci sarà un crollo dell’80%”
di Marco Ruffolo


ROMA. «La vendemmia anticipata la facciamo con amici e parenti: i nuovi voucher sono troppo complicati, non riusciamo a utilizzarli. Chi può, arriva addirittura a preferire i contratti a tempo determinato». Gli agricoltori della marca trevigiana sono in buona compagnia nel denunciare la burocratizzazione di uno strumento pensato in origine per lavori occasionali e veloci. Ma non è solo un problema procedurale. Pochi mesi fa, una legge fatta in quattro e quattr’otto per evitare il referendum anti-voucher della Cgil, ha trasformato i vecchi buoni-lavoro in contratti di prestazione occasionale, vincolati a un complicato intreccio di limiti e divieti, che impedisce alla maggior parte delle imprese di accedervi.
L’80 PER CENTO IN MENO
I primi 45 giorni di vita del nuovo strumento ci consegnano in realtà un bilancio assai magro. Sono appena 6.742 i lavoratori che hanno svolto finora prestazioni occasionali: quasi tutti (6.056) al servizio di microimprese, e solo 686 per lavori familiari. Sulla piattaforma Inps si sono registrati 16.250 utilizzatori e 10.767 lavoratori, per un totale di oltre 27 mila utenti. «Non potevamo attenderci un livello più alto di ricorso al lavoro occasionale », commenta il giuslavorista Pietro Ichino, senatore del Pd. «La legge ora esclude da questa opportunità tutte le imprese con più di 5 dipendenti stabili: in questo modo si è tagliato fuori il novanta per cento della platea di datori di lavoro che nel regime precedente potevano utilizzare i voucher». Ecco uno dei nuovi paletti, sicuramente il più ingombrante. Tanto da ridimensionare drasticamente le previsioni di accesso ai nuovi voucher elaborate dall’Inps. Secondo l’Istituto di previdenza, non si supererà il 20% di quanto realizzato nel 2016, anno che registrò un picco di 1,6 milioni di lavoratori e 134 milioni di voucher. L’80% in meno significa che ci dobbiamo aspettare a regime poco più di 300 mila prestatori di lavori occasionali. La spiegazione che viene data sta tutta nella nuova costruzione di vincoli e divieti. I quali sono stati inseriti per tutelare meglio i lavoratori, per evitare l’abuso di lavori normali spacciati per occasionali (anche se si era già provveduto a rendere obbligatoria la tracciabilità). E soprattutto per scongiurare il referendum incombente.
VINCOLI E DIVIETI
Vediamoli allora questi nuovi vincoli. Non c’è solo il limite che circoscrive la platea delle imprese a quelle con non più di 5 dipendenti a tempo indeterminato. Ci sono vincoli anche al tipo di attività: le imprese agricole sono ammesse solo se impiegano pensionati, studenti under 25, disoccupati e cassintegrati. Sono escluse imprese edili, cave, miniere e opere e servizi svolti in appalto. Le pubbliche amministrazioni possono accedervi con progetti speciali per categorie svantaggiate, attività di solidarietà, manifestazioni sociali, sportive, culturali e caritative. Le famiglie, invece, possono chiedere piccoli lavori domestici, assistenza domiciliare a bambini e anziani malati o disabili, e lezioni private. Tetto alle ore lavorate: 280 l’anno. Tetto agli importi: ogni lavoratore non può incassare più di 5 mila euro l’anno da tutti i suoi datori di lavoro (contro i precedenti 7 mila), e non più di 2.500 euro dallo stesso utilizzatore. Se si supera questo limite, il rapporto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Il compenso giornaliero non può essere inferiore a 36 euro. Quello orario deve essere di almeno 9 euro netti e 12,37 lordi per le imprese, e di almeno 8 euro netti e 10 lordi per le famiglie. Il vecchio regime prevedeva cifre inferiori: 7,5 e 10 euro.
Facile prevedere, di fronte a questo ginepraio di vincoli, un forte ridimensionamento del fenomeno voucher. «I primi dati dell’Inps mi sembrano molto bassi», commenta il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. «Segno evidente che questa norma è stata pensata non per trovare uno strumento utile a lavoratori, imprese e famiglie, ma solo per evitare il referendum, per scoraggiare l’uso del lavoro occasionale. Che è diventato anche molto complicato da utilizzare».
UNA GIMKANA ON LINE
Oltre ai paletti legislativi, infatti, ci si è messa pure la procedura di accesso alla piattaforma on line dell’Inps a complicare le cose, anche se ad agosto la situazione è migliorata. Lavoratori e utilizzatori devono registrarsi nel sito dell’istituto. Tre i modi: con il Pin, ma servono giorni per ottenerlo, con lo Spid tramite le Poste o con la Carta nazionale dei servizi. Dopo la registrazione, scatta il versamento dei datori di lavoro sul proprio “portafoglio elettronico”: all’inizio si poteva usare solo il modulo F24, da agosto è ammessa la carta di credito. A questo punto bisogna comunicare la prestazione: i dati dell’utilizzatore e del lavoratore, il tipo di impiego, il luogo, la durata e il compenso pattuito. Una volta terminata la prestazione, il lavoratore deve accedere nuovamente al sito e confermare l’avvenuto lavoro. Ed entro il 15 del mese successivo viene pagato dall’Inps.
IL RISCHIO SOMMERSO
Insomma, un percorso molto più accidentato di quello richiesto con i vecchi voucher, reperibili dal tabaccaio e facilmente utilizzabili; un percorso che richiede il più delle volte la guida di un consulente. Così, tra paletti legislativi e gimkane sul web, l’esordio dei neo-contratti non è stato certo brillante. Resta da capire dove sia finito tutto il lavoro occasionale che si avvaleva dei vecchi voucher. «Difficile dirlo — risponde Ichino — presumibilmente una parte sparisce, una parte torna nel sommerso, e una parte (molto piccola perché costosa) diventa lavoro regolare a termine. Si sarebbe dovuto compensare il divieto di utilizzo del lavoro occasionale per le imprese almeno con un allargamento del ricorso al lavoro intermittente. Non si è fatto. E così le aziende oggi non hanno uno strumento contrattuale adatto alle esigenze particolari del lavoro occasionale».

La Stampa 1.9.17
Ryanair: vogliamo 90 aerei di Alitalia
L’ad O’Leary: “Pronti a comprare la flotta a lungo raggio, con piloti, equipaggi e rotte”
di Fabio De Ponte


«Novanta aerei, compresi piloti, assistenti di volo, manutenzione e rotte». È questa la porzione di Alitalia a cui punta l’amministratore delegato di Ryanair, Michael O’Leary. In una conferenza stampa a Londra, il numero della compagnia low cost - che due giorni fa si è ritirato dalla corsa per Air Berlin - conferma l’interesse per la società italiana. «Alitalia - spiega - ha una flotta di 120 aerei, la nostra offerta è per 90 velivoli con i loro piloti, equipaggi di cabina, rotte, eccetera». Perché l’aspetto «più interessante di Alitalia - sottolinea - è la sua flotta a lungo raggio» che «ha una forte capacità di crescita». L’irlandese ha tempo fino al 2 ottobre per presentare un’offerta vincolante.
Intanto lancia l’allarme il ministro dei Beni e delle attività culturali e del Turismo, Dario Franceschini. «Lo spezzatino di Alitalia - dice - sarebbe un errore gravissimo. Alitalia, al di là della proprietà, è comunque il primo pezzo di Italia che accoglie i visitatori in arrivo da ogni parte del mondo: gli aerei - sottolinea Franceschini - sono infatti il primo il luogo dove iniziare ad apprezzare il cibo, il cinema, l’arte, la bellezza e lo stile italiano».
Solleva gli scudi anche la Filt Cgil: «L’ipotesi di spezzatino è fuori da ogni prospettiva anche sindacale», scrive in una nota il segretario nazionale Nino Cortorillo. «Il fatto che Ryanair - spiega il dirigente sindacale - sia interessata ad aerei e rotte e magari a una parte di personale più che uno spezzatino è macelleria». In realtà, sostiene, «è una fake news o come diceva una canzone è fatta “per vedere l’effetto che fa”».
Ma tra i corridoi della compagnia di bandiera si dà una lettura diversa alle parole di O’Leary. È la prima volta, sottolineano fonti dell’azienda, che il manager irlandese usa parole di questo genere. Quello che ipotizza lui, spiegano, non sarebbe uno spezzatino perché non vuole portare a casa solo gli aerei, ma anche le rotte e soprattutto il personale. «Ryanair - sono le sue parole in conferenza stampa - terrà la maggior parte del personale Alitalia, in particolare piloti ed ingegneri, se la sua offerta verrà accettata». Di più: «Sarà mantenuto - promette - anche il marchio Alitalia». Anche se certamente, precisa, la proposta dipenderà anche «da numero di esuberi, modifiche alle condizioni del personale e rinegoziazione dei leasing».
Insomma, l’ipotesi spezzatino non è prevista dal bando e infatti sul tavolo non c’è, sottolineano le fonti. Ma è prevista invece la possibilità di dividere la società in due, la parte di volo e quella di terra. E quella di O’Leary assomiglia più a un’offerta sulla parte di volo - pur con un perimetro leggermente più stretto - che a un tentativo di spezzatino. Soprattutto considerando che i 30 aerei che Ryanair non vuole sono quelli più piccoli o più datati.
D'altra parte, O’Leary potrebbe non avere tutti i torti, quando dice paventa il rischio in un intervento dell’Antitrust. «Saremmo molto ben disposti - dice - a comprare Alitalia ma sospetto che, visto che siamo una delle principali compagnie aeree in Italia, saremmo bloccati dall’Ue per motivi di concorrenza. Abbiamo il 35% del mercato italiano e Alitalia ci porterebbe a salire al 50-55%. Sono abbastanza sicuro che saremo bloccati». In quel caso, ammonisce, «in assenza di altri compratori si procederà allo spezzatino».

Il Fatto 1.9.17
La folle Rai che spreca il talento di Gabanelli
di Antonio Padellaro


Immaginate un allenatore che abbia in squadra Dybala o Insigne oppure Icardi, fate voi, e che invece di schierarli li faccia marcire in tribuna o, tutt’al più, li tenga in panchina obbligandoli a un riscaldamento lungo due anni.
Un comportamento spiegabile solo se l’allenatore è fuori di testa oppure se glielo ha ordinato la società per motivi misteriosi. Lo stesso discorso vale per Milena Gabanelli, talento assoluto Rai, una professionista che ha regalato al servizio pubblico e a milioni di italiani quel gioiello di informazione libera e coraggiosa chiamato Report. Succede che la Gabanelli accetti l’offerta dell’allora direttore generale, Antonio Campo Dall’Orto, che la vuole alla guida del portale Rai per il rilancio dell’offerta informativa web. Un Report quotidiano, un incubo per la politica con la coda di paglia e a pochi mesi dalle elezioni. Anche per questo Campo Dall’Orto è diventato un ex, sostituito dal direttore del Tg1, Mario Orfeo. Tutt’altro che fuori di testa è anzi uno bravo che nel risiko del potere non sbaglia una mossa. Infatti ad Aldo Fontanarosa di Repubblica, che gli ricorda la lunga panchina della Gabanelli, risponde che la collega “è in campo” per “rilanciare il portale web dove ora è collocato ovvero su Rai-news.it”. Come dire: non gioca all’Olimpico ma si allena tanto. Con l’obiettivo, sentite questa, “di contrastare il virus delle fake news”. Non sappiamo come la prenderà la Gabanelli davanti all’invitante prospettiva di dover guerreggiare con truffatori e squilibrati. E dopo aver atteso invano che le promesse fossero mantenute. Però con questa mossa, Orfeo dimostra che la sua nomina al vertice di Viale Mazzini è strameritata. Infatti se Allegri non facesse giocare Dybala verrebbe cacciato su due piedi. Ma se Orfeo costringerà la Gabanelli a fare le valigie vedrete che lo faranno ministro.

Repubblica 1.9.17
Nerone l’ecomostro infinito di Roma
Il sipario sul colossal è calato il 19 giugno La Regione Lazio aveva investito un milione
Dopo il flop mancano i soldi per smontare il mega palco al Palatino
di Sergio Rizzo


NELLA Roma monumentale mancava un monumento allo spreco e all’oltraggio ambientale. Lacuna ora finalmente colmata con l’ecomostro di ferro alto trentasei metri e largo quaranta che troneggia da qualche mese sul Palatino. Il ciclopico groviglio di tubi è quel che resta del Divo Nerone, un’opera rock benedetta dal ministero dei Beni culturali le cui repliche erano previste lì dentro fino a settembre inoltrato, davanti a una platea di tremila posti a sedere. Il sipario è invece calato il 19 giugno. E abbiamo la certezza che non si alzerà mai più. Non sul Palatino, di sicuro. Intervistato dall’Agenzia Italia dopo un debutto claudicante, il suo organizzatore Cristian Casella aveva prospettato per quello spettacolo, stroncato fulmineamente dalla critica e dal pubblico, una sopravvivenza almeno ventennale.
SEGUE A PAGINA 19
SVENTATO questo pericolo, lo stesso non si può dire purtroppo per l’ecomostro. Sapendo come vanno le cose in Italia, il rischio che quell’immenso obbrobrio metallico finisca per diventare a tempo indeterminato parte del paesaggio dei Fori imperiali va messo nel conto.
Non sarebbe neppure un inedito. Riaffiora alla mente la storia del meraviglioso Tempio di Apollo a Selinunte, rimasto imprigionato per 12 (dodici) anni da impalcature arrugginite, per indifferenza dei politici, sciatteria dei burocrati e la solita scusa della mancanza di denari. E qui il problema non si presenta molto diverso, soprattutto per l’ultimo aspetto. Per abbattere quel monumento metallico così proporzionato alle dimensioni della follia che l’ha generato da superare in altezza perfino il Colosseo (l’anfiteatro Flavio misura 48 metri ma è sotto il colle Palatino) servono un sacco di soldi. Dovrebbe scucirli Nero Divine Ventures, la società organizzatrice, che però non ha pagato nemmeno gli artisti: figuriamoci se ha i quattrini necessari a smontare chilometri di tubi.
Accanto ai fratelli Cristian e Marco Casella, il primo già collaboratore per l’immagine di Silvio Berlusconi quando il Cavaliere era a palazzo Chigi e il secondo già responsabile dei giovani di Forza Italia, c’è pur sempre la Regione Lazio, che attraverso la società controllata Lazio Innova ha sborsato per entrare in questa discutibilissima operazione più di un milione di soldi pubblici. Così incautamente che quando ha visto la mala parata ha pensato bene di avviare un’indagine per capire come è riuscita a infilare se stessa in questo pasticcio. E non è nemmeno escluso che su questa faccenda, come ha raccontato sulle pagine di Repubblica il nostro Gabriele Isman, non si accenda il faro della Corte dei conti. Difficile immaginare come adesso la Regione presieduta da Nicola Zingaretti possa prendere in mano la situazione. E poi, a che titolo?
Quanto al Campidoglio, nella storiaccia del Divo Nerone non c’entra nulla. L’ecomostro sorge infatti nell’area dei Fori di pertinenza statale. Dove l’amministrazione capitolina non ha dunque voce in capitolo. Il che non toglie una virgola al fatto che quell’offesa al patrimonio culturale sia stata perpetrata a Roma, e forse una parolina da parte della sindaca o di chi per lei sarebbe stata gradita anche prima del patatrac. Ma tant’è.
Infine il ministero dei Beni culturali, che invece in questa vicenda ha le principali responsabilità politiche, avendo autorizzato ecomostro e spettacolo. Il soprintendente Francesco Prosperetti, che dopo aver firmato la concessione ha detto di essere rimasto sorpreso dalle dimensioni del palco, in proposito è stato molto chiaro. Le sue parole suonano come una sentenza: «È buon costume che davanti al patrocinio del ministero le soprintendenze non pongano vincoli». Traduzione: ci hanno detto di farlo e l’abbiamo fatto. E anche qui sarebbe interessante sapere com’è andata davvero.
A questo punto c’è solo una cosa che potremmo ritenere ancor meno accettabile del danno arrecato con questa operazione non soltanto ai contribuenti italiani ed europei (il milione versato dalla Regione viene dai fondi comunitari) ma anche all’immagine di una capitale che già non se la passa bene. Ossia, lo scaricabarile: se ne sente già l’odore. Per favore, risparmiateci almeno quello, e che ognuno, per una volta tanto, si assuma le proprie responsabilità. Ripulite il Palatino, uno dei luoghi più belli e preziosi del pianeta, da quell’orrore. E fatelo più in fretta possibile. Per regolare i conti, poi, ci sarà sempre tempo: e state pur certi che qualcuno dovrà pagarli.

La Stampa 1.9.17
Los Angeles cancella il Columbus Day
Il Consiglio comunale: basta festeggiare, l’esploratore ha provocato il genocidio dei nativi
Gli italo-americani: schiaffo in faccia
Dopo la distruzione e la lotta contro le statue sudiste, sotto accusa finisce un altro simbolo
di Francesco Semprini


La caccia alle streghe continua. E dopo gli anti-eroi della Confederazione, ora prende di mira i navigatori. Come Cristoforo Colombo, reo di aver inaugurato il genocidio dei nativi d’America, e pertanto meritevole di essere cancellato dalle parate celebrative dei personaggi che hanno dato lustro alla storia degli Stati Uniti. Ne è convinto il consiglio comunale di Los Angeles, che con un colpo di penna ha cancellato dal calendario la parata che si tiene il secondo lunedì di ottobre, il Columbus Day, per sostituirla con «la parata di indigeni, aborigeni e popoli nativi».
A poco sono servite le rimostranze di comunità, circoli o associazioni di italo-americani, il consiglio di Los Angeles non ha sentito ragioni, e così mercoledì è giunta la delibera «ammazza-Colombo»: «Celebrarne l’arrivo nel 1492 era un oltraggio alle popolazioni indigene e alla storia degli Stati Uniti». E pensare che gli italo-americani si erano persino detti disposti a posticipare la parata a un giorno diverso. Ipotesi inaccettabile per Chrissie Castro, vice presidente della commissione dei nativi americani di Los Angeles: «Occorre smantellare le celebrazione di un genocidio sponsorizzate dallo Stato. Celebrare oggi o un altro giorno sarebbe un’ingiustizia».
Eppure il consigliere Joe Buscaino, un oriundo, ha ricordato il pregiudizio e le discriminazioni di cui gli italiani sono stati vittime durante la grande migrazione: «Tutte le culture hanno importanza». Non proprio tutte, evidentemente, a parere della maggioranza del comune di Los Angeles, che ha seguito l’esempio di Seattle, Albuquerque e Denver, dove la parata del navigatore italiano è stata sostituita con la «Indigenous Peoples Day».
Del resto il clima da neomaccartysmo, inaugurato con la caccia al «confederato» scatenata dopo Charlottesville, non poteva che agevolare scelte radicali e indiscriminate. «Tutti dentro»: il generale Lee equestre o no, il busto di Italo Balbo a Chicago e quindi Colombo. Anche la Farnesina ha reagito dicendo che la scoperta dell’America resta patrimonio dell’umanità nonostante ogni dibattito volto a rileggere oggi eventi di tale grandezza.
Una pulizia che ha messo in difficoltà il sindaco Bill De Blasio, il quale ha ordinato una revisione di statue o manifestazioni a New York per individuare quelle meritevoli di abbattimento: Philippe Pétain nel «Canyon of Heroes» o lo Scià di Persia. L’imbarazzo lo ha però colto in contropiede, quando il primo cittadino, che della sua italianità ha fatto vanto elettorale, si è trovato davanti alla richiesta di una consigliera che chiedeva la rimozione del monumento a Columbus Circle. E allora perché non si fa lo stesso per Ulysses S. Grant (due statue a Brooklyn), che nella guerra civile ordinò l’espulsione di cittadini ebrei da tre Stati.
O Horatio Seymour (gigantografia a City Hall), che era solito dire «Questa è la nazione dell’uomo bianco». O i generali «nordisti» William Tecumseh Sherman, Oliver Otis Howard, Philip H. Sheridan, George Crook, Nelson A. Miles, che finita la guerra civile iniziarono quella che portò allo stermino e al confino degli indiani nelle riserve. Perché se Colombo ha dato inizio al genocidio, sono stati gli «yankee» a portarlo a compimento. E chissà, magari dopo anti-eroi e navigatori, sarà il turno dei santi.

Corriere 1.9.17
Cefalonia scuote il premio Acqui «Anche collaborazionisti sull’isola»
di Antonio Carioti


Su come si comportarono i tedeschi sull’isola greca di Cefalonia (Mar Ionio), nel settembre 1943, non esistono dubbi: fu un feroce crimine di guerra fucilare un gran numero di militari italiani della divisione Acqui catturati dopo una settimana di combattimenti. Ma è sulle scelte dei nostri connazionali che i pareri divergono: una discussione riaperta dal libro di Elena Aga Rossi Cefalonia (il Mulino, 2016), che si è inasprita con la decisione di includerlo nella cinquina finalista del premio Acqui Storia, creato proprio per onorare i caduti dell’omonima divisione.
Il volume, recensito da Paolo Mieli sul «Corriere» il 5 settembre 2016, svela che un po’ di polvere venne nascosta sotto il tappeto per celebrare il martirio dei nostri militari sterminati: incertezze ed errori nelle trattative con i nazisti, episodi di insubordinazione contro il comandante della Acqui, generale Antonio Gandin (fucilato dopo la resa e medaglia d’oro alla memoria), considerato filotedesco da coloro che premevano per volgere le armi contro gli ex alleati. Il numero dei caduti fu gonfiato: si è parlato di 9 mila vittime, mentre una valutazione realistica fa scendere a circa 2 mila il conto degli uccisi sull’isola.
Il punto più scottante riguarda però l’allora tenente Renzo Apollonio. Sulla base di documenti dell’epoca, tra i quali spiccano una relazione del 1946 di Ermanno Bronzini, capitano della Acqui, e un rapporto di Livio Picozzi, ufficiale inviato a Cefalonia dall’esercito nel 1948 per indagare sugli eventi, Elena Aga Rossi ne ha ricostruito l’operato in termini molto critici. Secondo questa versione dei fatti, sostenuta anche dallo storico tedesco Hermann Frank Meyer (autore del libro Il massacro di Cefalonia , Gaspari editore), Apollonio prima spinse per lo scontro con la Wehrmacht; poi sfuggì alla strage in circostanze poco chiare; quindi collaborò in posizione di comando con le forze del Terzo Reich, svolgendo anche missioni per conto loro a Belgrado e Atene; infine prese contatti con gli Alleati, che gli chiesero di arrendersi come capo del presidio lasciato dai nazisti sull’isola dopo averla evacuata, e riuscì a tornare in patria con tutti gli onori, dichiarando di aver svolto un’attività clandestina antitedesca di cui però sono rimaste ben poche tracce.
Dato che Apollonio, poi divenuto generale e scomparso da tempo, aveva assunto un ruolo di rilievo tra gli ex commilitoni, fino a diventare presidente dell’Associazione nazionale dei reduci della divisione Acqui e dei loro familiari, il libro ha suscitato reazioni aspre da parte di alcuni soci dell’organizzazione, secondo i quali l’autrice non ha tenuto nel debito conto altri documenti, come un giudizio del 1949 che dichiarò infondate le accuse di collaborazionismo rivolte ad Apollonio e una ritrattazione sottoscritta da Bronzini 31 anni dopo la sua relazione, nel 1977. D’altra parte l’Associazione ha rifiutato la proposta di Elena Aga Rossi di pubblicare sul suo sito web un altro rapporto di Picozzi sfavorevole ad Apollonio, inviato nel 1948 al capo di stato maggiore Luigi Efisio Marras, e una lettera in sintonia con le tesi del libro firmata da Rocco Russo, nipote di don Romualdo Formato, cappellano della divisione di stanza a Cefalonia.
Quando poi il saggio edito dal Mulino è stato incluso nella cinquina del premio Acqui (sezione scientifica), diversi membri dell’Associazione hanno scritto al Comune della cittadina piemontese, che organizza la manifestazione, per esprimere il loro dissenso. Si tratta, tengono a specificare gli interessati, di interventi a titolo personale. Bisogna aggiungere tuttavia che a nome dell’Associazione, Tiziano Zanisi, delegato ai rapporti con il premio, ha spedito alla stampa una lettera dai toni pacati, ma nella sostanza niente affatto tenera verso Elena Aga Rossi. Pur dichiarando di non voler interferire con il compito della giuria, la lettera definisce «un passo falso» la qualifica di collaborazionista attribuita nel libro ad Apollonio.
L’assessore alla Cultura del Comune di Acqui, Alessandra Terzolo, dichiara al «Corriere» che ha pensato di promuovere un chiarimento: «Noi rispettiamo il valore scientifico del libro, ma anche le posizioni espresse dai reduci di Cefalonia e dai loro familiari: mantenendoci neutrali, vorremmo organizzare un dibattito tra l’autrice e uno storico designato dall’Associazione Acqui, da svolgere dopo l’assegnazione del premio, per non influenzare la giuria, ma possibilmente prima della sua consegna».
Questa ipotesi, che ricorda un po’ i faccia a faccia televisivi, non convince Elena Aga Rossi: «Sono disposta a un confronto nell’ambito di un convegno tra studiosi sulla questione di Cefalonia, ma dev’essere del tutto svincolato dal premio Acqui. Non mi sembra opportuno aderire a iniziative che nei fatti finirebbero per risolversi in un processo al mio libro».
Una posizione che Maurilio Guasco, presidente della giuria del premio, giudica sensata: «Capisco che l’autrice non voglia mettersi a confronto con persone che hanno attaccato duramente il suo saggio: si rischierebbe la rissa. Altra cosa sarebbe un seminario o una tavola rotonda tra gli studiosi che si sono occupati di Cefalonia. Un’iniziativa che sarei disponibile a presiedere».
Il sindaco di Acqui, Lorenzo Lucchini, ritiene che ci sia spazio per tenere aperto il dialogo: «Lavoreremo per trovare una soluzione che consenta un confronto sereno».

Repubblica 1.9.17
Il Far West del Far East
Quelle pasionarie del Turkestan per l’indipendenza uigura
di Siegmund Ginzberg


Per i cinesi sono una minoranza che non esiste, loro invece si considerano turchi Per Pechino la regione dove vivono si chiama Xinjiang, per loro invece è una terra ingiustamente occupata Ma da secoli e fino a oggi ogni rivendicazione o lotta è passata attraverso le donne
Ma lei viene da Istanbul? La ragazza me l’aveva chiesto in turco. O in uiguro, che è poi un dialetto turco. Emozionata. Come chi ritrova uno di famiglia. O si imbatte nel Cavaliere azzurro che la salverà dal Drago rosso. Per avvicinarsi aveva lasciato i telai, incurante dei miei accompagnatori cinesi. Non me la sentii di deluderla. Le risposi, col poco di turco che ho conservato dall’infanzia, che in effetti ero nato a Istanbul. Ma lei, come
Rabiya Kadeer, ora over 70, vive in America da quando nel 2005 era stata rilasciata per “ragioni umanitarie” dalle prigioni cinesi. Ma tornano a bollarla come istigatrice di “separatisti” e “terroristi” ogni volta che scoppiano incidenti etnici a Urumqi. Così come un’altra donna, Xiang Fei, la “La Concubina fragrante”, vissuta secoli prima, nel Settecento, continua a essere per gli uni il simbolo dell’inimicizia, per gli altri quello della riconciliazione. Di lei abbiamo persino dei ritratti dal vivo, alcuni attribuiti al gesuita Baldassarre Castiglione, che dipingeva alla corte dell’imperatore Qianlong. aveva fatto a indovinarlo? Allora, 35 anni fa, avevo capelli e folti baffi neri. Una giovane uigura del Xinjiang a quei tempi forse non riusciva ad immaginare che un visitatore straniero fosse altro che turco. O forse lo sperava e basta. O forse è che le donne sono più perspicaci.
Molto dipende da chi e da come ve la raccontano. Curioso però che qui la storia (o favola se si preferisce) sia spesso declinata al femminile. È stata ad esempio una donna a impersonare il conflitto negli ultimi decenni. Pasionaria per la dissidenza uigura, e al tempo stesso bestia nera di Pechino, Senonché in alcuni dei ritratti che si suppone la raffigurino è vestita e ha fattezze cinesi, in altri ha fattezze turche e indossa un’armatura europea. Capita, alle figure da romanzo. E in effetti il personaggio ha scatenato fantasie letterarie e diatribe storiche a non finire, di qua e di là della Grande Muraglia. Delle diverse e contrapposte narrazioni verrebbe da fare un romanzo nel romanzo.
Per le fonti letterarie cinesi l’Imperatore Qianlong era follemente e sinceramente innamorato della concubina uigura. Gli era stata portata a Pechino dal generale che gli aveva conquistato il Xinjiang. Con ogni precauzione, compresi bagni quotidiani di latte di cammella perché si preservasse la fragranza naturale che emanava dal suo corpo. Le faceva arrivare ogni giorno meloni freschi e altre leccornie dalla sua terra e le aveva costruito un padiglione della Città Proibita che si affacciava sul bazar musulmano. Queste versioni ne fanno il simbolo per eccellenza dell’armonia tra cinesi han e uiguri musulmani. Le versioni di parte uigura la presentano invece come ribelle irriducibile, che nell’harem imperiale si addestrava alle arti marziali per uccidere l’imperatore e vendicare il proprio popolo. Finché fu fatta avvelenare (o strangolare) dall’Imperatrice madre. Le due opposte versioni della favola si perpetuano. Non c’è accordo nemmeno su dove sia sepolta: nello splendido monumento funerario della famiglia Khoja a Kashgar, secondo gli Uiguri, a Pechino secondo i cinesi.
Ci si scontra con più ferocia sul passato che sul presente, sui nomi delle cose piuttosto che sullo stato delle cose. Xinjiang significa “Nuovi territori” o “Nuova frontiera”. È il nome datogli con la conquista Manciù. Come il Far West americano, il termine evoca leggende, epopee, violenza, pericoli, ma anche immense opportunità. I grandi viaggiatori del Novecento chiamavano questa regione Turkestan orientale, e i loro abitanti islamici Turki. Ma poi Turkestan sarebbe diventata parola tabù, proibita in Cina. Come Kurdistan lo è in Turchia. Per converso, il termine “Uiguri” non esisteva, era praticamente sconosciuto prima del 1934. A inventarlo fu l’allora governatore cinese del Xinjiang, Sheng Shicai. Distinse 14 etnie là dove Pechino ne considerava cinque. Poi le manovrò una contro l’altra. Spinse musulmani uiguri a massacrare Hui e Han, e vice- versa. Fu una guerra di tutti contro tutti, con l’intervento di tutte le potenze interessate: quasi una prova generale della Siria dei nostri giorni. I metodi con cui Sheng si mantenne al potere in Xinjiang negli anni Trenta e Quaranta somigliano a quelli di Assad (ricorse anche ai gas). E fanno impallidire quelli del “Barone sanguinario” Ungern-Sternberg in Mongolia. Eppure nelle foto d’epoca, che lo ritraggono con moglie e figlia, sembra un tranquillo padre di famiglia.
Sono andato a rispolverare le foto in bianco e nero che avevo scattato 35 anni fa in Xinjiang con la Nikkormat prestatami dal fotografo del giornale. Avevo l’impressione che il tempo si fosse fermato, da secoli. Incontravo facce antiche, figure che parevano immutate da secoli lungo le strade dall’Asia centrale all’Anatolia, reincarnazioni di Nasreddin Hodja (per i cinesi Afandi) sul suo asinello, di guerrieri di altri tempi. Al mercato di Kashgar le donne uigure giravano ancora con una coperta in testa, un burqa integrale che neanche in Afghanistan.
Sono andato a cercare su internet immagini più recenti. Mi ha colpito una foto a colori che ritrae una bellissima signora uigura con un foulard rosso e un lungo vaporoso vestito giallo di organza. Scattata a Kashgar nel 2014 a una fermata di autobus della città vecchia, dice la didascalia. A guardare meglio, ho come un senso di dèja vu. La cosa che mi impressiona è come il resto - i personaggi maschili che la circondano, i loro sguardi, i muri fatiscenti sullo sfondo - siano quasi identici a quelli nelle mie foto di decenni prima. Incredibile come in Cina possa cambiare tutto, a ritmi vorticosi, e a guardare meglio poi ti accorgi che in fondo è cambiato meno di quel che sembra.
La mia interlocutrice di allora mi aveva chiesto se ero turco. Non se ero musulmano. La discriminante era etnica, non religiosa. Gli uiguri sentivano di essere turchi, parlavano turco, mangiavano come i turchi, somigliavano più ai turchi che ai cinesi. Gli “altri” erano gli Han, i cinesi, quelli venuti da fuori, che parlavano cinese, mangiavano cinese, comandavano in cinese. In mezzo c’erano gli Hui, musulmani come gli uiguri (anzi sono la maggioranza dei musulmani in Cina), ma più simili ai cinesi. Le carte si rimescolano, poi le vecchie separazioni che sembravano sopite tornano a galla e riavvampano. Non è tanto o solo questione di religione. Ci sono barriere di lingua, di percezione del tempo, di cucina, e persino di gusti musicali. Gli uiguri parlano turco, gli altri solo cinese. Anche e soprattutto quando sarebbero in grado di intendersi in entrambe le lingue. L’ora ufficiale del Xinjiang è quella di Pechino, cioè di tutta la Cina. Tra gli uiguri è frequente spostare in segno di sfida avanti di due ore le lancette, secondo quella che dovrebbe essere l’ora solare locale. Gli uiguri non mangiano maiale, gli altri sì. Il che fa sì che è raro che si frequentino in occasioni conviviali.
Una ragazza uigura che voglia sposare un cinese incontrerebbe in famiglia più difficoltà di una palestinese innamorata di un israeliano. C’è più di qualche similarità. Anche nei pregiudizi reciproci («Gli uiguri pensano solo a divertirsi. Noi cinesi a lavorare», «Ci odiano, proteggono i terroristi »). Nel pugno di ferro. E pure nell’imposizione di inutili umiliazioni. Tra le più recenti: il rinnovo forzato di tutti i passaporti degli islamici, la proibizione di dare ai figli il nome Mohammad e la messa al bando di barbe e mustacchi “strani”.

Repubblica 1.9.17
Cry for me, Argentina la dittatura e i segreti dei desaparecidos
Nel romanzo “Doppio fondo” di Elsa Osorio il mistero di una militante e il ritorno dei fantasmi
di Susanna Nirenstein


IL LIBRO Doppio fondo di Elsa Osorio (Guanda, trad. di Roberta Bovaia e Marco Amerighi pagg. 410 euro 19,50)

È la paura la fonte viva della scrittura di Elsa Osorio. Anche se negli anni della dittatura argentina, dal 1976 al 1983, non ha vissuto in prima persona l’orrore dei centri di tortura che la giunta militare aveva nascosto in decine di caserme e garage, è stata perseguitata dal panico di finirci dentro. Come raccontò in un’intervista, ripuliva la casa di continuo con l’incubo di una perquisizione: «Qualsiasi cosa avessero trovato poteva essere un elemento di accusa» perché loro cercavano niente e tutto, per tenerti sul filo del rasoio e metterti le manette alle mani e ai piedi. Una volta ad esempio fu bloccata all’aeroporto perché aveva nella borsa un libro di Tolstoj, un russo, «un grave motivo di allarme dunque».
Dal 2000 ha trovato la forza di dar voce al disgusto, alla memoria di quell’abominio che ha mietuto trentamila vittime, e combattere l’oblio. Ora, a 62 anni, continua a farlo, con la stessa convinzione, la stessa capacità di costruire romanzi mozzafiato, veri e propri noir che ti tirano dentro esattamente come fece il suo primo grande successo, I vent’anni di Luz. Era la storia di una bambina adottata e cresciuta in una famiglia di militari dopo l’uccisione della madre rivoluzionaria – una prassi consolidata nel regime, tenere in vita le donne gravide, assassinarle dopo il parto, adottarne i figli. Ora Osorio riprende il filo. E con Doppio fondo (Guanda) ci porta tra i desaparecidos e i torturatori che li acchiappavano, li spremevano e li facevano fuori, buttandoli da un aereo in mezzo al mare. Qui la fine è nota a pagina 11. Siamo nel 2004, e il corpo della sessantenne Marie Le Boullec, franco-argentina, viene trovato dai pescatori di Turballe, costa francese, vicino a Saint Nazaire. Nel breve capitolo precedente abbiamo letto parte di una missiva spedita da una donna a un figlio che ha abbandonato da bambino. Cerca di spiegargli come è stato possibile, e allora racconta l’amore, la nascita, un altro amore, la militanza politica nelle Fuerzas Armadas Revolucionarias e i Montoneros, un appuntamento maledetto, la cattura nel 1976 insieme al piccolo, la detenzione all’Esma, l’Escuela de Mecànica de la Armada, un carcere clandestino poi tristemente noto per le torture e le morti, il massacro del suo corpo e della mente. Infine l’offerta di avere salva la vita sua e quella del bambino di tre anni consegnandolo al padre in Olanda, se avesse collaborato.
Noi sappiamo, quella donna riaffiorata in Francia probabilmente è lei, la desaparecida della lettera al figlio, ma gli inquirenti no, e poi siamo nel 2004, in Francia. Che cosa c’entra un volo della morte nel terzo millennio? E poi chi l’avrebbe uccisa, un generale redivivo? È più facile che si sia suicidata dopo la morte del marito, per depressione, dicono le autorità. Eppure Fouquet, l’ispettore incaricato in via di pensionamento, ha l’età giusta per mettere insieme l’Argentina e un corpo caduto in acqua e poi affogato con delle tracce di Pentothal nel sangue e le ossa spezzate nei punti giusti per essere caduto dall’alto, da molto in alto. Con lui, una giovane giornalista. Le prove e i salti nel passato si srotolano e si riarrotolano. La Osorio procede spedita, ogni manciata di pagine una svolta che chiede e fornisce una nuova risposta. Una scelta narrativa che dà forza alla memoria e ci tira dentro come una spirale al cui apice esiste comunque un futuro, un futuro possibile.

Il Fatto 1.9.17
Segre scuote “L’ordine delle cose” sui migranti
di Federico Pontiggia


“La situazione è grandemente complessa: è la prima volta che chi subisce le condizioni più pesanti decide di muoversi a piedi. Camminare per venire qui da noi, con il Sahara in mezzo. E noi, che facciamo? Ci occupiamo solo del punto di contatto, di Lampedusa. Non è umano, è folle”. Andrea Segre porta alla Mostra del Cinema di Venezia, e dal 7 settembre in sala, il suo terzo lungometraggio di finzione, L’ordine delle cose. Problema, finzione non è: il protagonista Corrado Rinaldi (un grande Paolo Pierobon) è un funzionario del ministero degli Interni impegnato a contrastare l’immigrazione irregolare nella Libia post-Gheddafi. Si direbbe un instant-movie, se non fosse che il cinema per stare al passo con la realtà ha una sola possibilità: pre-vedere.
Segre ha previsto cinque anni fa, osservando le operazioni di Mare Nostrum, e scoprendo il lato oscuro che montava dietro il salvataggio dei migranti, ovvero l’aggiramento della condanna comminata all’Italia dalla Corte europea dei Diritti di Strasburgo nel marzo del 2012 per i respingimenti verso la Libia attuati dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Un progetto, bloccare i migranti prima che prendano il mare, su cui il regista veneto ha scommesso: “Che diventasse attualità è successo, ma noi cerchiamo di andare oltre, portando sullo schermo interrogativi universali, profondi”. Nel cast Giuseppe Battiston e Valentina Carnelutti, prodotto da JoleFilm con Rai Cinema, patrocinato da Amnesty International, Medici per di Diritti Umani e Naga onlus, L’ordine delle cose si scuote allorché Corrado incontra Swada (Yusra Warsama), una donna somala che vorrebbe raggiungere il marito in Europa: che succede quando le ragioni dell’umanità confliggono con la ragion di Stato? “Andrebbero invertiti i fattori: la ragione di Stato postula come inevitabile che non ci si occupi di altri essere umani, ma solo della nostra vita. E se un giorno il rischio fosse nostro?”. Incalza Segre, “dal punto di vista politico significa eludere ed elidere i bisogni dell’essere umano, tra i quali, pensateci, rientra la volontà dei nostri figli di studiare all’estero”. La decisione di Corrado è inverata dalla cronaca di questi giorni, “da quel che Gentiloni, Macron e Merkel hanno appena stabilito per la Libia, vale a dire ‘è un bene fermare i viaggi così le persone non muoiono, poi cerchiamo di occuparcene in loco’. Al contrario, servirebbe un’inversione: prima ce ne occupiamo e, dunque, cerchiamo di eliminare a monte le cause per cui sono costretti a partire”. Dopo l’acclamato Io sono Li (2011) e La prima neve (2013), Segre, che nasce e cresce nel documentario, ha optato per un altro film di narrazione assecondando una teoria di motivi: “Persone che fanno il lavoro di Corrado nei servizi segreti internazionali non possono raccontarsi alla luce del sole, ma non è questa la causa principale: volevo carpirne il valore intimo, psicologico. Inoltre, almeno in Italia, l’impatto del documentario sulla società dello spettacolo è più ostico e limitato”. A sgombrare i dubbi sullo statuto ontologico, però, ci pensa il secondo cartello de L’ordine delle cose, che recita: “I personaggi e i fatti qui narrati sono interamente immaginari. È autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”.
Indicazioni d’uso mutuate da Le mani sulla città di Francesco Rosi, ma oggi il teatro è purtroppo infinitamente maggiore: il temuto e berciato scontro di civiltà lascia il posto al mancato incontro, l’indifferenza è il nuovo esperanto, e la veglia della ragion di stato genera altri mostri. “Prendiamo paura quando il nostro corpo produce dei mostri, e ci bastano un Salvini di passaggio, due sassate nel quartiere, i nostri poliziotti che bastonano donne e bambini. Ma il nostro corpo – osserva Segre – sta producendo qualcosa di sbagliato: tenere fuori queste tensioni apre ferite dentro”. L’operato dell’attuale ministro dell’Interno Marco Minniti, dice Segre, non offre punti di sutura: “È una persona che ormai tanto tempo fa ha anteposto la ragione di Stato a quella umana, ed è talmente convinto da non accettare il benché minimo sguardo critico sul suo operato. Che questo percorso produca dolore nemmeno lo intende, sostiene che i migranti sono il suo assillo quotidiano, ma se lo fossero davvero avrebbe invertito l’ordine delle cose”.

il manifesto 1.9.17
Auschwitz, la parola che fa ammutolire
Un'intervista con Franco Berardi Bifo che ha rinunciato alla sua performance a Kassel, dopo le polemiche suscitate dal titolo «Auschwitz on the beach»
di Lorenza Pignatti


KASSEL Alcune parole sembrano essere impronunciabili, tale è la loro forza e risonanza nell’immaginario collettivo. Una di queste è indubbiamente Auschwitz, come dimostra il clamore che la performance Auschwitz on the beach di Franco Berardi Bifo, Dim Sampaio e Stefano Berardi (era programmata per documenta14 a Kassel, dal 23 al 26 agosto), ha suscitato nella stampa internazionale e nella comunità ebraica, tanto da condurre alla sua cancellazione. In un incontro pubblico, ospitato in The Parliament of Bodies, Berardi ha spiegato le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere quel testo per la performance dall’innominabile titolo.
Era consapevole che la sua performance avrebbe suscitato tanto scalpore?
Dopo molte esitazioni, avevo deciso di usare l’espressione provocatoria Auschwitz on the beach affinché quel nome potesse essere uno «scudo», una protezione contro il pericolo, a mio parere sempre più attuale, che Auschwitz ritorni. Gunther Anders, nel libro Noi figli di Eichmann, nel 1967 scrisse di un possibile ritorno del nazismo in una società in cui la tecnica ha il sopravvento sull’uomo. Non è forse Auschwitz il primo esperimento di una gestione industrializzata e tecnologica dello sterminio? Quello a cui assistiamo oggi è l’inizio di uno sterminio basato sulla supremazia razzista. Pensiamo agli oltre 30mila migranti morti nel Mediterraneo negli ultimi quindici anni e alle decisioni politiche di far rimpatriare i migranti in Libia, dove è probabile che siano torturati o uccisi. E poi si descrivono le Ong – come Medici senza frontiere – in veste di taxisti del mare, quando invece sono organizzazioni che salvano la vita a migliaia di persone. Sterminio su base etnica. Non è forse legittimo ravvisare gli estremi del nazismo e della supremazia razziale?
Kim Jong-un ha dichiarato che gli occidentali devono smettere di pensare che le guerre riguardino solo gli altri paesi perché ora anche loro sono in grado di portare la morte. E sappiamo che questo è vero, così come sappiamo che dopo l’11 settembre, con la guerra voluta dagli Stati Uniti, un esercito di suicidi terrorizza le città europee, da Parigi a Berlino, da Nizza a Barcellona.
Ricordo quando nel 2004 hoguardato le immagini delle torture di Abu Ghraib in televisione. Ho subito pensato alle conseguenze che quelle immagini avrebbe potuto avere sui milioni di bambini mediorientali che le vedevano non solo in Iraq, in Egitto o in Afghanistan ma anche a Parigi o a Londra. Ora ne conosciamo le conseguenze con i kamikaze che si tolgono la vita indossando cinture esplosive o guidando furgoni per uccidere persone che passeggiano nelle città europee, ed è nostro compito cercare di cambiare tale deriva disumana. La pace, l’accoglienza e la solidarietà sono gli unici modi da attuare per sfuggire a una guerra che stiamo già perdendo, che distruggerà la nostra vita quotidiana e le nostre città.
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Al posto della performance è stato organizzato un incontro pubblico che è stato molto emozionante. Si aspettava tanta partecipazione?
Si era acceso un acceso dibattito dopo che la stampa – tedesca, americana, inglese – aveva criticato la performance e alcuni centri di cultura ebraica avevano accusato gli organizzatori di documenta14 di violenza simbolica contro la memoria. Oltre ad aver cancellato la performance, prima dell’incontro pubblico serale, io, Paul B. Preciado e Adam Szymczyk, rispettivamente direttore del programma pubblico e direttore artistico della mostra, ci siamo recati al principale centro ebraico della città.
Abbiamo discusso le nostre motivazioni, i rappresentanti hanno riconosciuto che la performance non aveva un carattere antisemita, pur ribadendo che Auschwitz appartiene alla storia e alla memoria ebraica, e hanno ricordato che nel 1938 gli ebrei tedeschi subirono da parte delle autorità americane e inglesi lo stesso rifiuto che oggi i migranti ricevono dalle autorità europee. Un numero incalcolabile di ebrei sono morti nei campi di concentramento nazisti perché inglesi e americani rifiutarono di accoglierli come rifugiati, con le stesse motivazioni con le quali oggi i governi europei respingono siriani o nigeriani. Diversi rappresentanti sono venuti anche all’incontro serale, intitolato Shame on us. La loro presenza è stata determinante per decostruire i malintesi e riflettere sull’emergere di nuove forme di razzismo. Pur non rinunciando alle mie motivazioni politiche e filosofiche, ho riconosciuto di non avere il diritto di procurare ulteriore dolore alla comunità ebraica, e ho annullato la lettura del testo scritto per la performance.
«Shame on us» è stato quindi il titolo dell’incontro…
Diversi messaggi ricevuti dai nostri accusatori ci dicevano che dovevamo vergognarci. E, in effetti, è accaduto: la vergogna riguardava però il fatto che nessuno di noi riesce a fermare le forme di fascismo che scandiscono l’agenda mediatica nazionale e internazionale. Mi preoccupa l’impotenza rispetto agli atti di brutalità a cui stiamo assistendo. Nel giugno 2016, mentre gli inglesi votavano per la Brexit e gli americani ascoltavano Trump, Zbigniew Brzezinski ha pubblicato un articolo intitolato Toward a Global Realignment. Nel testo rifletteva su quanto i massacri e le guerre compiute dai colonizzatori occidentali si siano risolti nello sterminio dei popoli colonizzati: la scala era paragonabile ai crimini del nazismo della seconda guerra mondiale, provocando centinaia di migliaia e talvolta milioni di vittime. Dovremmo accusare Brzesinski di antisemitismo e di relativizzare il nazismo? Non direi. Il politico americano di origini polacche, consigliere durante la presidenza di Jimmy Carter, scrive che il nazismo è l’aspetto più disumano che abbia caratterizzato la storia della nostra specie. Tale disumanità sta riemergendo nella società contemporanea sia come vendetta da parte degli oppressi, sia come sommossa razzista da parte della popolazione bianca che si sente minacciata e impotente rispetto alla perdita di potere e alla propria supremazia razziale.
Sta facendo riferimento agli eventi di Charlotteville?
Non solo a quelli. Sarebbe ingenuo circoscriverli agli Stati Uniti. L’arrogante supremazia razziale, che è parte della storia del colonialismo occidentale, ha portato all’elezione di Trump, alla Brexit, e alle tante manifestazioni di intolleranza e razzismo a cui assistiamo ogni giorno. Solo l’Internazionalismo proletario avrebbe potuto evitare che la resa dei conti del colonialismo passato e contemporaneo diventasse un bagno di sangue planetario. Ma il comunismo è stato sconfitto e ora vi è la guerra di tutti contro tutti in nome di niente.
Nel corso della sua lunga carriera si è occupato di politica, attivismo, «cognitariato» e semiocapitalismo. Nei suoi ultimi testi, in particolare modo il romanzo «Morte ai vecchi» e «Heroes. Suicidio e omicidi di massa», i toni sono diventati più distopici, terminali: perché?
Forse la risposta a questa domanda sta nelle cose, non nella mia personale evoluzione. La sconfitta del comunismo (della quale i comunisti sono i primi a portare la responsabilità) ha cancellato l’orizzonte internazionalista, cioè l’orizzonte di una possibile solidarietà tra gli oppressi e gli sfruttati, tra operai occidentali e masse dei paesi colonizzati. Ogni forma di solidarietà è stata cancellata dal prevalere dell’ideologia neoliberale e dalla precarietà. Competizione è diventato l’imperativo di ogni relazione sociale.
Ora siamo alla precipitazione: gli effetti di trent’anni di egemonia neoliberale e di capitalismo finanziario hanno distrutto il tessuto sociale nei paesi occidentali, e hanno reso possibile una diffusione degli armamenti più distruttivi. L’apocalisse è all’ordine del giorno, non perché la vede qualche esagerato come me, ma perché il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta (Lenin).

il manifesto 1.9.17
I due psicologi delle torture Cia
Stati uniti. Scomparsi nei «buchi neri» dei servizi, appesi, incatenati, isolati, privati del sonno. Ma ora gli ex prigionieri Usa in Afghanistan saranno risarciti. Pagheranno gli ideologi della «guerra al terrore», vittoria senza precedenti. E stavolta il Dipartimento di Stato non muove obiezioni
di Giuliano Battiston


Nel novembre 2002 Gul Rahman, cittadino afghano rifugiato in Pakistan, è morto assiderato in un «buco nero», una delle carceri segrete gestite dalla Cia in Afghanistan.
Nell’agosto 2017 due psicologi assoldati dalla Cia sono stati costretti a risarcire i famigliari. Il risarcimento da parte degli psicologi, chiamati dalla Cia a ideare, modellare e perfezionare il sistema di interrogatori e torture dopo l’11 settembre, è una novità assoluta, nota Kate Clark sul sito dell’Afghanistan Analysts Network.
E apre le porte a possibili, nuove cause legali. Che potrebbero coinvolgere, dopo molti anni di impunità, anche i funzionari governativi responsabili di abusi e torture. Che a volte hanno condotto alla morte. Come nel caso di Gul Rahman.
LA SUA STORIA PRENDE una svolta improvvisa e drammatica il 29 ottobre del 2002. Fuggito in Pakistan dopo l’invasione americana con la moglie e le quattro figlie per sfuggire alla guerra, quel giorno Gul Rahman raggiunge Islamabad per un controllo medico.
Lì incontra Ghairat Bahir, genero di Gulbuddin Hekmatyar, il leader dell’Hezb-e-Islami, il gruppo armato che, fino a pochi mesi fa, ha condotto una guerriglia contro il governo di Kabul. Entrambi vengono sequestrati da agenti americani e pachistani e poi trasferiti in Afghanistan.
Mohamed Ben Soud
Finiscono in uno dei tanti «buchi neri» della guerra al terrore. Luoghi occulti, gestiti dai servizi segreti, dove gli interrogatori diventano abusi e torture. A loro capita un carcere poco distante dalla capitale Kabul, in seguito noto come «Cobalt».
Subiscono una serie di torture. Il genero di Hekmatyar sopravvive. Gul Rahman rimane stecchito sul pavimento di una cella, dopo due settimane di abusi da parte di un team che include anche uno psicologo, John «Bruce» Jessen.
L’AUTOPSIA E IL RAPPORTO interno della Cia dicono che sia morto probabilmente per ipotermia, «in parte causata dall’essere stato costretto a stare sul nudo pavimento di cemento senza pantaloni», oltre che per «disidratazione, mancanza di cibo, immobilità» dovuta a catene troppo corte.
Nessuno ritiene di avvertire la famiglia. Che lo cerca dappertutto. Invano. A lungo. Fino a quando, nel 2010, arriva un’inchiesta dell’Associated Press: è stato ucciso in Afghanistan, dopo essere finito nelle mani Cia.
GUL RAHMAN è rimasto vittima delle tecniche di interrogatorio messe a punto da due psicologi, James Mitchell e John «Bruce» Jessen. Assoldati dalla Cia, i due hanno messo le loro competenze medico-professionali al servizio della «guerra al terrore». Un paradigma politico-militare in cui siamo ancora immersi.
Suleiman Abdullah
Dal raggio globale: intentata nell’ottobre 2015 dall’American Civil Liberties Union (Aclu), la causa contro gli psicologi oltre ai famigliari di Gul Rahman riguarda due sopravvissuti alle torture. Hanno condotto vite molto diverse, in luoghi molto distanti tra loro, prima di finire nello stesso buco nero afghano. Si tratta di Suleiman Abdullah Salim e Mohamed Ahmed Ben Soud.
IL PRIMO, PESCATORE, è nato a Zanzibar, in Tanzania. Sequestrato dalle forze di sicurezza keniane e dalla Cia nel marzo 2003 a Mogadiscio, in Somalia, dove lavorava e si era sposato, sottoposto a interrogatori feroci in Kenya, è finito poi nella stessa prigione di Gul Rahman, Cobalt, nei pressi di Kabul.
Come lui, è stato brutalmente torturato. Trasferito nel maggio 2003 in un altro buco nero della Cia in Afghanistan, Salt Pit, vi è rimasto per 14 mesi, in isolamento.
NEL LUGLIO 2004 è stato condotto nel carcere interno alla base aerea di Bagram, 40 km a nord di Kabul, gestita dalle forze americane. È stato rilasciato soltanto il 17 agosto 2008, quando è stato accertato che «non pone alcun pericolo alle forze armate americane o ai loro interessi in Afghanistan».
Per la Cia era pericoloso anche Mohammed Ahmed Ben Soud, un dissidente libico trasferitosi in Pakistan, dove è stato sequestrato dalla Cia nell’aprile 2003, su suggerimento di Gheddafi. Finito nello stesso buco nero fuori Kabul, Cobalt, è stato torturato per un anno, nudo, incatenato al muro, in isolamento, in una cella sotterranea, ficcato in una scatola ampia meno di mezzo metro, appeso a una sbarra, immerso nell’acqua gelida, privato del sonno. Nell’aprile 2004 è stato portato in un’altra prigione segreta afghana gestita dalla Cia.
Gul Rahman
Gul Rahman
MAI INCRIMINATO formalmente, nell’agosto 2005 è stato spedito in Libia e imprigionato per altri cinque anni, fino al rovesciamento del regime di Gheddafi. Oggi Mohammed Ahmed Ben Soud vive con la famiglia a Misurata. Suleiman Abdullah Salim vive a Zanzibar. Gul Rahman è morto.
Sono soltanto 3 dei 119 nomi inclusi in un rapporto sul programma di tortura e rendition (trasferimenti forzati) della Cia, redatto dal Comitato sull’Intelligence del Senato statunitense e pubblicato nel dicembre 2014. Di questi, almeno 59 avrebbero subito torture.
Qualcuno, come Mohammed Ahmed Ben Soud e Suleiman Abdullah Salim, ha deciso di chiedere conto delle sofferenze fisiche e psicologiche subite. Con i famigliari di Gul Rahman e con l’aiuto dell’Aclu i due hanno chiamato in causa gli psicologi responsabili delle tecniche di interrogatorio.
Finora, come spiega in modo dettagliato Kate Clark, simili tentativi erano finiti nel vuoto, a causa della necessità di proteggere la «sicurezza nazionale» e i «segreti di Stato». Ma la pubblicazione del rapporto del Senato americano, in cui sono elencate nero su bianco alcune delle torture della Cia, ha fatto venire meno quel pretesto.
Secondo quanto riportato dall’Aclu, a differenza che in passato questa volta il Dipartimento di giustizia americano non ha ostacolato la causa.
E GLI PSICOLOGI, dopo aver opposto obiezioni su obiezioni, hanno preferito trovare un accordo, prima che il processo, previsto per il 5 settembre, avesse inizio. La somma concordata per il risarcimento è segreta. A ben vedere è poco importante. Quel che conta è il cambiamento significativo, celebrato dall’Aclu.
L’esito della causa, ha sostenuto Laden Dror, avvocato dell’American Civil Liberties Union, «è un ammonimento per chiunque pensi di poter torturare impunemente». Perfino nei buchi neri della Cia in Afghanistan.
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Le loro «tecniche» approvate dal Dipartimenti di giustizia di Bush
Secondo quanto scrive l’Aclu sulla base del decisivo rapporto sulle torture della Cia redatto dal Comitato sull’intelligence del Senato americano, James Mitchell e John «Bruce» Jessen, «basandosi sulla loro esperienza come psicologi e su esperimenti condotti sui cani negli anni Sessanta…», «hanno suggerito che i prigionieri della Cia dovessero essere psicologicamente distrutti infliggendo loro acuti dolori e sofferenze mentali e fisiche». Per i due psicologi, indurre uno stato di «inutilità acquisita» avrebbe eliminato ogni resistenza nei detenuti.
Il loro programma, nota l’Aclu, «non prevedeva soltanto la tortura sui prigionieri, ma esperimenti su di loro».
Mitchell e Jessen non si sono limitati a teorizzare l’utilità della tortura, ma l’hanno anche praticata: oltre ai tanti successivi, hanno personalmente condotto il primo interrogatorio della Cia che seguiva le loro «tecniche di interrogatorio avanzate», contro Abu Zubaydah.
Nessuno dei due «aveva alcuna esperienza negli interrogatori, né una conoscenza specialistica su al-Qaeda, sul terrorismo, o alcuna rilevante conoscenza regionale, culturale o linguistica». Eppure, le loro tecniche di interrogatorio sono state approvate dal Dipartimento di Giustizia, sotto la presidenza Bush.
Per mettere in pratica e ridefinire il programma di interrogatori, per ben otto anni la Cia «ha pagato i due psicologi, e l’azienda da loro fondata, decine di milioni di dollari».
La loro responsabilità è enorme: Mitchell and Jessen «hanno definito le violente procedure, le condizioni e il trattamento crudele imposto sui prigionieri durante il loro trasferimento e nella successiva detenzione, e orchestrato gli strumenti di tortura e i relativi protocolli, hanno personalmente torturato i detenuti e addestrato il personale della Cia nel gestire le tecniche di torture».
In evidente conflitto di interessi, avevano inoltre il compito «di valutare l’’efficacia del programma da cui traevano enormi profitti».