giovedì 31 agosto 2017

Corriere 31.8.17
«Meno sedute e più scienza, ecco la nuova psichiatria»
Vittorino Andreoli racconta in un libro come è cambiata la sua disciplina: «Oggi siamo direttori d’orchestra»
di Agostino Gramigna


«La prima volta che ho messo piede in un manicomio è stato nel 1959». Allora Vittorino Andreoli era ancora un giovane studente. «Il direttore di quella struttura faceva tutto». Incarnava il potere assoluto. «Esatto. Questa figura non ha più senso. Per curare ci vuole un direttore d’orchestra, un Claudio Abbado».
Non è una provocazione. Il noto psichiatra veronese ha appeno finto di dare alle stampe il suo ultimo libro. Un lavoro riassuntivo a cui tiene molto perché è scaturito da un bisogno: «Raccontare che cos’è oggi la disciplina. Diversa da quella che ho conosciuto».
Professore ma perché lo psichiatra deve trasformarsi in direttore l’orchestra?
«Lo studio del cervello ha fatto passi avanti straordinari. Da una quindicina di anni s’è scoperto l’encefalo plastico. Significa che il nostro cervello costruisce delle strutture sulla base dell’esperienza: non è un cristallo che se si rompe va perduto. Bisogna operare tenendo conto di tre fattori: biologia, personalità, ambiente».
Le terapie del Novecento erano adeguate o no?
«Io credo nella scienza. E cosa ci dice oggi? Che non lo erano. Non bisogna aver paura di ammetterlo».
Il cervello è plastico. Cosa deve fare lo psichiatra-direttore d’orchestra?
«Capire che percentuale hanno nella terapia la biologia, la personalità e l’ambiente. Faccio un esempio: se nel disturbo è predominante il fattore biologico è inutile che faccia l’analisi freudiana, si interviene con i farmaci. Lo psichiatra che oggi pensa di poter fare da solo va ricoverato. Deve decidere quando far entrare il violinista quando invece richiamare un altro musicista».
I farmaci. Se ne fa abuso?
«Qui siamo fermi. Dal 1953 al 1961 sono state scoperte casualmente quattro famiglie di farmaci, tranquillanti, antidepressivi. Oggi abbiamo appurato che le malattie dipendono dai tre fattori che dicevo prima e che occorre agire su un encefalo plastico. I farmaci sono generici, sedano o smuovono. Ma non servono a combattere la singola malattia. La case farmaceutiche stanno cercando. Ma al momento siamo fermi».
È cambiata la disciplina, deve cambiare lo psichiatra. Ma il paziente oggi chi è?
«È altro, anche lui. È diversa la famiglia. Ci sono persone che in casa sono normali e sul lavoro solo folli. E viceversa. Ma resta il punto di fondo: alla base della psichiatria c’è sempre e solo l’indagine della relazione con l’altro».
Freud è ancora valido?
«Sì, ma le terapie devono avere tempi brevi. Al paziente si deve dare una risposta subito. Non si può pretendere che paghi 150 euro a seduta e chiedergli di farne tante».

Repubblica 31.8.17
Virus dell’odio e i falsi terapeuti
di Massimo Giannini


ORA sappiamo di cosa parla Marco Minniti, che di fronte «all’ondata migratoria» dice di aver temuto «per la tenuta sociale e democratica del Paese». Se ci guardiamo intorno, in questo desolato panorama italiano, vediamo moltiplicarsi i focolai di un ordinario odio razziale. Latente, e al tempo stesso terrificante. Tiburtino III, disperata periferia romana trasfigurata per un pomeriggio in una banlieue di Parigi o in un ghetto di Los Angeles, è solo l’ultimo di una lunga teoria di violenze covate, compresse ma pronte a esplodere.
Dobbiamo dirlo, con la drammatica consapevolezza che impone la fase. In questo esausto lembo di Occidente, il discorso social-xenofobo rischia davvero di vincere la partita del consenso. “Noi”, i “forgotten men” vittime dell’impoverimento globale e dello smarrimento identitario, contro “loro”, i disperati senza patria che rubano la nostra terra, la nostra casa, il nostro lavoro. Uno schema ideologico costruito sull’incrocio fatale tra disagio economico e malessere identitario, e dunque di sicura presa psicologica e mediatica in questa Europa sempre più svuotata di senso.
È questo il virus che gli impresari della paura, politicanti travestiti da falsi terapeuti, inoculano nelle vene di un Paese già provato dalla crisi. Ed è questo il messaggio che arriva e fa breccia non più solo nella testa e nel cuore degli italiani che, ai margini dei centri metropolitani e dei servizi residui del Welfare, vivono la prossimità sulla propria pelle, come “penultimi” assediati dagli “ultimi”. Ma anche in quel che resta dei ceti medi, desertificati da una disoccupazione spietata e bombardati da una “narrazione” avvelenata. Come scriveva Zygmunt Bauman, lo «straniero alla nostra porta» è la costruzione di un capro espiatorio utile a distrarre il popolo dalle vere emergenze. A ingenerare il “panico morale”, cioè quella forma di risentimento spaurito che ti fa guardare a chiunque sia diverso da te con gli occhi del nemico.
Tutto questo sta accadendo, qui ed ora. Intendiamoci. Non saremo mai noi a negare che i flussi migratori vadano assolutamente gestiti, e nei limiti del possibile controllati insieme a un’Unione europea che finora ha voltato altrove il suo cinico sguardo. Non saremo mai noi a negare che il sistema in questi anni non ha funzionato, alimentando un circuito nel quale i richiedenti asilo sopravvissuti alla morte nel Mediterraneo e abbandonati a se stessi negli Sprar o nei Cie hanno ingrossato le file della disperazione e ingrassato le casse della criminalità. Non saremo mai noi a negare che il problema non si risolve evocando genericamente il dogma dell’accoglienza, declinata quasi come un esorcismo.
Ma mentre ribadiamo tutto questo, non possiamo non vedere l’orrore di quello che accade ed è accaduto intorno a noi, in questo infuocato agosto italiano. Non possiamo non vedere che al Tiburtino III, qualunque cosa sia successa in quel centro della Croce Rossa e qualunque sasso abbia brandito quel profugo eritreo, un gruppo di romani ha provato a farsi giustizia da sé, con un raid punitivo. Non possiamo non vedere che dopo gli stupri di Rimini, per i quali sono sospettati profughi magrebini, gli odiatori del web e i volenterosi carnefici della Lega si sono scatenati contro Boldrini e le donne del Pd, augurando loro un “trattamento” analogo.
Non possiamo non vedere che a Pistoia don Massimo Biancalani è stato “crocifisso” dalla Rete e “processato” da Salvini e da Forza Nuova per aver postato su Facebook una foto in cui una quindicina di profughi ghanesi affidati alla sua parrocchia facevano il bagno in piscina. E avevano persino l’impudenza non solo di esistere, ma persino di “sorridere”. Non possiamo non vedere che a Cagliari un venditore ambulante senegalese ha rischiato di essere linciato da un gruppo di villeggianti campani, che rivendicavano il diritto di prendersi la sua merce senza pagarla. Non possiamo non vedere che a Margherita di Savoia due turisti cubani che avevano prenotato un soggiorno in un bed&breakfast sono stati rifiutati dal gestore «perché neri».
Sono frammenti di intolleranza, ai quali ci siamo tragicamente assuefatti. Ricordano Crash, il capolavoro cinematografico di Paul Haggis, il cui sottotitolo (non per caso) era “Contatto fisico”, e in cui ogni scena nella quale i bianchi e i neri condividevano un luogo o un diritto era l’occasione potenziale di un conflitto, materiale o verbale. Il film di questa brutta estate tricolore evoca quasi le stesse atmosfere. La destra di piazza impone la sua egemonia, e la sinistra da salotto non è più capace di spiegare, a se stessa e all’opinione pubblica, che c’è ancora un modo per coniugare diversità e solidarietà, legalità e civiltà. È un problema di valori, è un problema di linguaggi. Se il tema migranti si affronta sempre e solo nei termini di un’Apocalisse, le risposte del senso comune saranno sempre e solo apocalittiche.
Il governo sta tentando di offrire soluzioni. Il ministro dell’Interno sta provando a elaborare una strategia. Per evitare che salti “la tenuta sociale e democratica del Paese” non bastano interventi “esemplari”, come il codice per le Ong o gli sgomberi con i manganelli. Servono la fatica e la responsabilità di una politica che sappia discernere, spiegare, e poi decidere. Una politica che abbia un orizzonte vasto, molto più lontano delle prossime elezioni. Altrimenti, nella condizione fragile e spaurita in cui viviamo, il timore di Minniti rischia di diventare altro: una profezia che si autoavvera.

Repubblica 31.8.17
La scienza funziona quando è unita
di Elena Cattaneo


LA scienza, come la società, funziona quando è unita, trasparente e basata sulle prove. Basta vedere cosa è successo con la legge sui vaccini, una delle migliori, se non la migliore, dell’intera legislatura, almeno da un punto di vista del miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, fine ultimo di ogni vera democrazia.
DOPO anni di abbassamento dei tassi delle vaccinazioni, hanno iniziato a riemergere alcune malattie infettive che pensavamo sconfitte come il morbillo, la meningite, la pertosse, il tetano. Medici e scienziati hanno dato l’allarme. A questo punto sono intervenute la politica e le istituzioni. Il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità hanno coordinato e rilanciato l’appello alla comunità medico-scientifica che prontamente ha reagito cooperando e offrendo dati e strategie per rilanciare la cultura della prevenzione vaccinale.
L’obbligo, a detta di tutti, si è profilato come una scorciatoia inevitabile: il metodo più veloce ed economico per scongiurare nuovi decessi, decessi di bambini che durante il dibattito sulle vaccinazioni aumentavano drammaticamente. Una minoranza non era d’accordo sull’obbligo, sebbene tutti lo fossero sull’efficacia e la sicurezza delle vaccinazioni. Anche l’ordine dei medici, la Fnomceo, ha deciso di giocare il ruolo che le è proprio di tutela della categoria, proponendo sanzioni, sino alla radiazione, di quei pochissimi medici irresponsabili che criticavano, senza prove e solo con ipotetiche esperienze personali, le vaccinazioni. La comunità medico-scientifica, le istituzioni e gli ordini professionali hanno dato un’immagine coesa e precisa di come si deve agire per la tutela della salute pubblica, dialogando e offrendo prove inoppugnabili. A questo punto la palla è passata alla politica, e in particolar modo al Senato, che ha tradotto in legge le indicazioni offerte dalle competenze. Non esiste una legge perfetta, esistono buone leggi: quella sui vaccini è una buona legge, realizzata in tempi apprezzabili. Una cosa di cui andar fieri.
Non rovinino le giuste autonomie delle regioni ciò che il Parlamento, nella sua unità, ha saputo fare. Tutti ricordiamo cosa accadde con il caso Stamina. Alcuni scienziati caddero nel tranello di un ciarlatano che voleva trattare con miscugli segreti a base di staminali pazienti e famiglie indebolite da terribili malattie neurodegenerative. Il Senato non ascoltò le competenze, di cui il Paese è peraltro ricco, e diede retta alla piazza, alla pancia del Paese, come ai tempi della cura Di Bella. Fu sull’orlo di concedere un finanziamento pubblico di un milione di euro perché una cura senza alcuna validità scientifica venisse distribuita dal Sistema Sanitario Nazionale (tra i primi al mondo, ci dicono da anni statistiche internazionali), mettendo a serio repentaglio non solo la salute dei pazienti ma anche le sue finanze. Scienziati, media e politica riuscirono all’ultimo a ristabilire il principio di ragione. Quella esperienza deve rimanere il nostro monito per il futuro.
Ora le regioni stanno andando in ordine sparso sull’attuazione della legge.
Questa estrema diversità è pericolosa, specie se applicata ai vaccini, per almeno due ragioni. In primo luogo, questo atteggiamento è deleterio per la percezione sociale dei cittadini, che si disorientano di fronte a scelte non coerenti. Come è possibile spiegare a un cittadino della Lombardia che deve attenersi a un obbligo se poi a pochi chilometri il Veneto non lo impone? Solo qualche mese fa alcuni genitori no-vax altoatesini minacciarono il trasferimento nelle scuole austriache pur di non sottoporre i figli all’obbligo. In secondo luogo, trattandosi di malattie infettive, è inutile che alcune regioni abbiano coperture alte accanto a regioni con coperture più basse. I vaccini funzionano solo se circa il 95% della popolazione è coperto, secondo il noto concetto dell’immunità di comunità. Perché tenere alti i livelli di copertura di una regione se poi quelli della regione accanto possono veicolare infezioni pericolose?
Serve uno sforzo di unità nazionale. La scienza e la democrazia questa volta hanno dimostrato di saper dialogare costruttivamente, i cittadini e le regioni facciano la loro parte.
L’autrice è docente presso l’Università degli Studi di Milano e Senatrice a vita

Corriere 31.8.17
Il fossato tra est e ovest
di Sergio Romano


Anche nei suoi momenti migliori, quando il desiderio di integrazione sembrava maggiormente condiviso, l’Unione Europea ha dovuto permettere che alcuni Paesi avessero rapporti speciali e cercassero di mettere i loro partner, nelle questioni più complesse, di fronte al fatto compiuto di un accordo preliminare. Sapevamo che l’asse franco-tedesco aspirava a una sorta di leadership europea. Ma non potevamo dimenticare che una intesa fra i due Paesi ha molto spesso favorito un passo avanti sulla strada della unità.
Quello che è accaduto a Parigi negli scorsi giorni, tuttavia, è alquanto diverso. Il quartetto che il presidente francese ha presieduto nel palazzo dell’Eliseo (Francia, Germania, Italia e Spagna) non serve a spianare la strada verso soluzioni comunitarie. Serve a fare, in materia di immigrazione, ciò che altri Paesi della Ue, se fossero stati interpellati e coinvolti, non ci avrebbero permesso di fare. Senza dichiararlo esplicitamente, la riunione di Parigi ha detto al mondo che vi sono due Europe, di cui una desidera camminare più rapidamente sulla strada della sua unità.
Questa constatazione non dovrebbe sorprenderci. Sapevamo che l’allargamento agli ex satelliti dell’Urss, dopo la disintegrazione del sistema sovietico, è stato una operazione frettolosa, fortemente voluta soprattutto dalla Germania di allora e dai Paesi (fra cui la Gran Bretagna) che avrebbero volentieri ridotto l’Ue a una semplice zona di libero scambio.
S apevamo (o avremmo dovuto sapere) che fra il nucleo originale della Comunità Economica Europea (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi) e i quattro Paesi di Visegrád (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Ungheria) corre una fondamentale differenza. Noi abbiamo aderito a un progetto unitario per rinunciare, sia pure gradualmente, a quelle sovranità nazionali che erano responsabili di due conflitti mondiali. I quattro di Visegrád, invece, sono usciti dal sistema sovietico con la speranza di recuperare una sovranità perduta. Hanno chiesto di aderire alla Unione Europea perché garantiva sostanziosi aiuti economici e un più largo mercato del lavoro per i propri cittadini. Ma hanno affidato la loro sicurezza agli Stati Uniti e hanno con Washington relazioni più strette, per molti aspetti, di quelle che hanno con Bruxelles e con Strasburgo.
L’evoluzione della politica europea ha allargato il fossato che divide i due gruppi. Mentre i partiti euroscettici, nella Europa centro-occidentale, si scontravano con la resistenza delle tradizionali forze liberal-democratiche, il nazional-populismo trionfava soprattutto a Budapest e a Varsavia, con qualche inquietante manifestazione a Vienna. Mentre il Vertice di Taormina riservava al nuovo presidente americano una accoglienza tiepida e prudente, Varsavia riceveva Trump entusiasticamente e il governo polacco dava l’impressione di essere in totale sintonia con i suoi programmi di politica internazionale. Il rapporto con gli Stati Uniti sarà probabilmente il grande tema della politica europea dei prossimi anni. È difficile immaginare, in questa situazione, che le due Europe possano parlare all’America con una sola voce e continuare a fare parte di uno stesso progetto.
Questo non significa che l’Unione Europea sia necessariamente destinata a frantumarsi in nuclei diversi. Nel dicembre 1989, mentre la riunificazione tedesca era ormai a portata di mano, il presidente francese François Mitterrand propose la creazione di una confederazione di cui il blocco dei 12 Paesi già membri dell’Unione avrebbe fatto parte con i nuovi arrivati della Europa centro-orientale. Jacques Delors, allora segretario generale, spiegò la proposta di Mitterrand in questi termini: «Il presidente francese ha lanciato due idee: la prima è una confederazione europea di cui facciano parte tutti i Paesi che sottoscrivono i principi della democrazia politica e del pluralismo; la seconda è un colpo d’acceleratore per l’Europa a 12». Se fosse stata accolta, la tesi delle due Europe ci avrebbe risparmiato i molti inconvenienti di questa Europa dei 27, troppo grande ed eterogenea per condividere un futuro comune.
Oggi forse l’idea dei due cerchi concentrici è più difficilmente realizzabile di quanto fosse all’inizio degli anni Novanta. Ma esiste un’altra strada: quella delle cooperazioni rafforzate, previste dai Trattati di Amsterdam e Nizza quando almeno nove Paesi decidono di adottare un progetto comune. Non è una novità e può diventare la regola dei Paesi che non vogliono piegarsi alle pretese di chi desidera stare nell’Europa senza condividerne i principi e gli ideali.

il manifesto 31.8.17
«Accordo tra l’Italia e le milizie per fermare i migranti in Libia»
Patto criminale. L’agenzia Ap: «I servizi italiani trattarono con i trafficanti. Poi lo stop alle partenze»
di Domenico Romano


Dietro la forte diminuzione di sbarchi nel nostro Paese potrebbe esserci un accordo siglato dal governo italiano direttamente con due milizie libiche coinvolte nel l traffico di esseri umani. A rivelarlo è una lunga e dettagliata inchiesta dell’agenzia americana Associated press che cita numerose testimonianze, tra le quali anche quella di un portavoce di una delle due milizie.
«Non c’è nessun accordo tra il governo italiano e i trafficanti», ha smentito ieri una nota della Farnesina, mentre da Bruxelles una portavoce dell’esecutivo europeo ha rifiutato di commentare le notizie in arrivo dalla Libia: «Suggerisco di chiedere alle autorità italiane», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti. «Quando si tratta di fondi europei – ha poi sottolineato la portavoce -, sono soggetti a controlli molto stretti, con destinazione molto chiara. Noi continuiamo a seguire le regole, come facciamo sempre».
La scorsa settimana era stata un’altra agenzia di stampa, la Reuters, a riferire di una milizia denominata «Brigata 48» che a Sabrata impedisce ai barconi carichi di migranti di prendere il mare. Sabrata è ormai da tempo uno dei principali punti di imbarco per i disperati che dalla Libia tentano di raggiungere l’Italia. Secondo la Reuters la milizia, formata da «agenti, militari e civili», in cambio del suo lavoro riceverebbe finanziamenti direttamente dal governo di Tripoli guidato dal premier Fayez al Serraj (nella foto con Minniti e Gentiloni).
Notizie che adesso troverebbero conferma nell’inchiesta condotta in Libia dall’Ap. Due, secondo l’agenzia americana, le milizie coinvolte: oltre alla già citata «Brigata 48» anche un’altra denominata «Al Ammu», il cui nome ufficiale sarebbe «Brigata del martire Anas al-Dabashi». Quest’ultima dal 2015 si occuperebbe della sorveglianza dell’impianto petrolifero di Melitah che l’Eni gestisce insieme alla National oil corporation (Noc) libica. Entrambe le milizie avrebbero base a Sabrata e sarebbero guidate da due fratelli appartenenti al clan dei Dabbashi che controlla la città.
L’Ap ricorda come nello scorso mese di luglio gli arrivi lungo le coste italiane siano notevolmente diminuiti rispetto all’anno passato, tendenza confermata ad agosto con appena 2.936 sbarchi rispetto ai 21.294 del 2016. «Una diminuzione dell’86%», spiega l’agenzia, che attribuisce la flessione in parte alle condizioni del mare e all’attività della Guardia costiera libica ma, soprattutto, «all’accordo con le due più potenti milizie della Libia occidentale».
A sostegno delle sue affermazioni l’agenzia cita almeno cinque funzionari della sicurezza e attivisti di Sabrata che confermano il coinvolgimento delle milizie nel traffico di uomini. Un funzionario arriva a descrivere i fratelli Dabashi come «i re del traffico» di esseri umani a Sabrata. «Nel suo ultimo rapporto di giugno – scrive inoltre l’Ap – le Nazioni unite hanno indicato la milizia al Ammu come il principale agevolatore del traffico di esseri umani».
Secondo quanto affermato da Bashir Ibrahim, definito dall’Ap come il portavoce di al-Ammu, due mesi fa le milizie avrebbero raggiunto un accordo «verbale» con il governo italiano per fermare le partenze dei migranti e da allora avrebbero impedito la partenza delle imbarcazioni imponendo anche alle altre organizzazioni criminali di interrompere il traffico. «Come contropartita ricevono attrezzature, barche e stipendi», ha spiegato Ibrahim, secondo il quale in questo momento sarebbe i atto «una tregua» destinata a durare finché durano i sostegni alle milizie. «L’integrazione ufficiale delle due milizie tra le forze di sicurezza di Serraj – scrive l’Ap – permetterebbe all’Italia di lavorare direttamente con loro visto che non sarebbero considerate come trafficanti ma parte del governo riconosciuto».
Secondo alcuni attivisti di Sabrata intervistati dall’Ap l’Italia avrebbe gestito l’accordo saltando il governo Serraj e inviando agenti dei servizi in Libia a trattare direttamente con i capi delle milizie. «I trafficanti di ieri sono la forza anti-traffico di oggi», ha detto un poliziotto che ha preferito mantenere l’anonimato. «Quando la luna di miele tra i trafficanti e gli italiani finirà ci troveremo in una situazione pericolosa» ha aggiunto il funzionario spiegando come le forze regolari non siano sufficientemente armate per affrontare le milizie. «Un portavoce del governo italiano- conclude l’Ap – ha detto che l’Italia non commenta notizie che riguardano i servizi segreti»

il manifesto 31.8.17
Lo stile coloniale di Minniti
di Tommaso Di Francesco


Che arriva dal patto di Parigi di quattro Paesi decisivi per i destini dell’Ue? Niente di concreto e niente di vero. Solo uno stile coloniale, confermato dalle ultime dichiarazioni di Minniti: «Se non avessimo fatto questo in Libia c’era da temere per la tenuta democratica del Paese». Smentito ieri clamorosamente dal ministro della giustizia Orlando.
Quindi trasformiamo in lager buona parte del continente africano «per la democrazia»? In realtà finanziando milizie mafiose, come rivela un veridico reportage dell’aurorevole Ap, per reprimere i migranti. Come non definire colonial-criminale questo lessico e questi intenti?
Da Parigi dunque solo l’evidenza di una pervicace quanto elettorale volontà di dimostrare ad ogni costo alle rispettive opinioni pubbliche il comune intento a contenere, il più possibile lontano dalla coscienza europea ed occidentale, il fenomeno epocale delle migrazioni, quelle dei rifugiati da guerre e persecuzioni e quelle da miseria.
E nonostante sia eguale questa condizione, invece con infinita perfidia si è ribadito a Parigi per bocca di Angela Merkel la nefasta distinzione che relega i cosiddetti «migranti economici» in un limbo di morte.
Perché niente di concreto? Lo ha ribadito anche la rappresentante della politica estera Ue Mogherini: non ci sarà alcuna promessa di piano Marshall per l’Africa «già spendiamo – ha spiegato – 20 miliardi di euro, in aiuto allo sviluppo, alla cooperazione, in partenariati commerciali…».
Per un continente ricchissimo come l’Africa, nel quale siamo impegnati direttamente e indirettamente con il commercio di armi in tante guerre, e dal quale ogni giorno rapiniamo risorse petrolifere, minerarie e terre, per affari che rimpinguano il nostro interscambio commerciale e i bilanci delle multinazionali, lo scambio ineguale che proponiamo è «addirittura» di 20 miliardi di euro all’anno più varie centinaia di milioni per le operazioni di contenimento vere e proprie.
Tutti finanziamenti che finiscono per la maggior parte nelle mani predatorie delle leadership locali corrotte (anche da noi). Una somma – con le chiacchiere sui «limiti di Dublino», e sulla presunta «perfezione» del ruolo dell’Italia» – che, com’è chiaro, non può essere sufficiente allo sforzo che si annuncia. Che intanto propone centri di identificazione in Africa, con tanto di coinvolgimento dell’Unhcr e dell’Oim.
Ma che fine farà subito quel milione di profughi che in questo momento è rimasta intrappolata in territorio libico? Dice il governo Minniti-Gentiloni che ci penseranno i «sindaci» delle città costiere libiche, la guardia costiera libica e forze militari che la Francia metterà a disposizione in Niger e Ciad (paesi le cui economie sono nelle mani di Parigi e si rifletta sull’assenza-presenza del Mali dove è in corso un intervento militare francese).
Per la conoscenza che abbiamo della Libia e sulla base di veridici reportage, prima della Reuters e ieri dell’Ap – che preoccupano la stessa Ue per i quali il governo italiano si trincera dietro un «non commentiamo le operazioni dei Servizi» – vale la pena ripetere che le città libiche, della costa e non, altro non sono che potentati e clan locali spesso legati ad una storia di jihadismo estremo. E che la cosiddetta guardia costiera spesso cambia casacca e si trasforma nella milizia di questi potentati. Che, come a Sabrhata, spesso si spartiscono anche il lucroso traffico di migranti, controllando relativi e spaventosi centri di detenzione dove non entrano i diritti umani.
Ora tutte queste forze di controllo sono impegnate da noi, dopo la campagna vergognosa di colpevolizzazione delle navi umanitarie delle Ong, sia contro i profughi sia contro le Ong rimaste uniche e sempre in minor numero a soccorrerli in mare.
Perché niente di vero? Si parla di Europa, ma sono solo quattro Paesi che, se pur centrali, sono stati continuamente contraddetti in questi tre anni fra loro e da tutti gli altri, da quelli dell’Est e dall’Austria. E poi si parla di «Libia» e di «autorità libiche», ma Fayez al Serraj chi rappresenta? Le Libie sono tante, dopo la devastazione della guerra a Gheddafi, e tutte in conflitto fra loro. Lo ha insediato la nostra Marina, ora gli arriverà – ma a lui solo o anche al signore della guerra della Cirenaica Khalifa Haftar e agli altri clan del Fezzan? – anche un pacchetto di milioni di euro.
Del resto questo scambio «per la democrazia» è già accaduto per l’altro interlocutore fondamentale dell’Occidente, il Sultano Erdogan, che ha appena finito di essere il santuario delle milizie jihadiste dell’Isis ed è impegnato in un repulisti violento contro ogni opposizione; o come l’altro leader sponsorizzato dall’Italia, il presidente golpista egiziano Al Sisi. Naturalmente e subito nel pieno disprezzo del diritto-dovere all’accoglienza e alla normalizzazione dei flussi: questo un governo democratico dovrebbe fare, non rincorrere le pulsioni razziste.
E di fatto trasformando la Libia e ora anche Niger e Ciad in un grande campo di concentramento. Un fatto è certo: piuttosto che attenti al numero di morti a mare, nella grande fossa che è diventata il Mediterraneo, valutiamo la riduzione degli arrivi con un occhio ai sondaggi, meno il 46% in estate ma solo meno 6% in un anno. Disperazione e vittime non si devono vedere. Né si deve dire che se fortunatamente i morti diminuiscono, i flussi no.
Ora li «concentriamo» tra sponda libica a confini a sud del Sahara, armando milizie e facendo le sentinelle su un percorso di 5mila chilometri?
Meglio se il misfatto avviene nel grande deserto a sud della Libia e nel Sahel, lontano da telecamere e coinvolgimenti diretti, ma con tanto di timbro dell’Onu, la coperta di Linus buona per tutte le stagioni. È in quel deserto che, adesso, stiamo ricacciando milioni di persone alla disperata quanto impossibile ricerca di una nuova, mortale, via di fuga.

Repubblica 31.8.17
I nostri occhi puntati sull’Africa
di Eugenio Scalfari


IL 28 agosto, lunedì, c’è stata una riunione internazionale a Parigi cui hanno partecipato i capi di Stato e di governo di quattro nazioni dell’Ue: Francia, Germania, Italia, Spagna e in più alcuni alti funzionari dell’Ue e anche (come osservatori) dell’Onu.
Il tema, visto all’ingrosso, era quello del rapporto tra l’Europa dell’Ue e l’Africa del nord e del centro occidentale, dal Ciad al Niger e a tutti i paesi minori a sud della costiera mediterranea. Ovviamente la più interessata era la Libia, oltre che, ma in chiave minore, il Marocco e l’Algeria. Insomma il complesso ex imperiale e coloniale francese cui va aggiunta la colonia libica che fu in mani italiane dal 1911 fino al 1943, che la rese libera dal colonialismo prima giolittiano e poi fascista.
L’INCONTRO del 28 scorso è stato il primo sul tema Europa-Africa, ma ce ne sarà tra pochi giorni un secondo e poi finirà con l’insediare una sorta di organo permanente di intervento e di gestione d’un tema che sopporterà allo stesso tempo pace e tempesta ma che si proporrà una finalità nobile e positiva per un verso, combattuta e sanguinosa dall’altro.
Il finale sarà sicuramente positivo (o almeno è questo ciò che penso) ma richiederà una trentina d’anni a dir poco prima che i risultati si stabilizzino al punto massimo che avremo finalmente raggiunto.
Il risultato del primo incontro è stato la partenza, condensata in due brevi documenti: uno di due pagine redatto in lingua inglese che indica le finalità dell’incontro; l’altro di sette pagine redatte in lingua francese, che entra nel dettaglio dei problemi che vanno affrontati e risolti e per alcuni ne indica genericamente la soluzione.
Sono alquanto stupito del modo con cui buona parte della stampa italiana ha dato conto di quanto è accaduto: un titolo molto evidente in prima pagina e un paio di pagine all’interno, assai diverse da giornale a giornale. Il tutto alla data di martedì. Ma su quasi tutti i giornali di mercoledì, cioè di ieri, il tema era già scomparso. Si parlava della Corea del Nord e di ciò che accade in quel teatro e poi del tema delle pensioni, dei palazzi instabili che esistono in mezza Italia, della scarsità di acqua e ovviamente di calcio. Non una parola sul tema Europa- Africa che è a mio avviso il numero uno nel rapporto tra due continenti che si fronteggiano da millenni e oggi si declina con varie parole: immigrazione, accoglienza, respingimento, traffici umani, incontri e scontri in tutto il Mediterraneo, povertà, lavoro, investimenti, alleanze tra governi e tribù, problemi sanitari, amicizia e contrasti con l’Africa centromeridionale e orientale.
Pensate che all’origine del nostro pianeta l’Africa e l’Europa erano un’unica terra, il Mediterraneo non esisteva. Parliamo di un passato di miliardi di anni che potrebbe ricostruirsi, sia pure tra altrettanti millenni.
Ebbene, scordarsi dopo un giorno dei problemi avviati per la convivenza utile anche se molto difficile da realizzare, è una leggerezza che ritengo inaccettabile, anche perché nell’incontro dello scorso lunedì uno dei personaggi chiave è stato il nostro premier Gentiloni e uno dei personaggi elogiati è stato il nostro ministro Marco Minniti, che non era presente (c’erano soltanto capi di Stato e di governo) ma è stato ricordato da Macron come uno dei più validi a occuparsi del problema e della sua concreta attuazione fin dalle prossime settimane.
Ma noi, giornali e giornalisti, ci occupiamo d’altro. Buon pro non ci farà.
*** Due parole su alcuni aspetti del tema Europa-Africa. Finora il Ciad e il Niger non erano stati presi in considerazione. Erano invece territori folti di bande del malaffare che ingaggiano africani in gravi ristrettezze di ogni genere e che sono pronti a pagare e a diventare schiavi degli affaristi, con la promessa che saranno portati fino all’imbarco su battelli di fortuna per essere transitati sulle coste europee, quelle italiane in particolare, con tutto quello di pessimo che ne seguirà, morte compresa.
Questo tema è stato preso in considerazione. Ciad e Niger combatteranno gli affaristi di merce umana e saranno loro a occuparsi delle persone schiavizzate e a rischio di morte.
Naturalmente Ciad e Niger e paesi limitrofi saranno inseriti nel piano europeo; aiuteranno e saranno aiutati. Sono problemi tutt’altro che semplici e andranno perciò seguiti con la massima attenzione. Facevano più o meno parte dell’impero coloniale francese ed è perciò ovvio che sia Macron quello che più degli altri si interessa di questi temi.
Merkel dal canto suo ha proposto l’abolizione del trattato di Dublino. Ottima proposta che va immediatamente realizzata, anche se non sarà facile perché riguarda tutti i 27 Paesi dell’Unione.
Infine: non si perda di vista che in tutto il “bailamme” africano ci sono anche molti islamici sensibili all’Isis: altro tema che non va mai perso d’occhio. Caro Gentiloni, caro Minniti e caro Renzi, l’Africa ci riguarda come tema principale. Non lo dimenticate e riservategli la massima attenzione.

Repubblica 31.8.17
I luoghi comuni sui migranti
di Pino Arlacchi


CARO direttore, mi permetto di dissentire dalle critiche alla sinistra italiana avanzate martedì dal professor Marzio Barbagli a proposito di immigrazione e criminalità. La sinistra nostrana ha tanti difetti, ma su questo tema si muove bene, in sintonia con le posizioni della Chiesa, del governo e della maggioranza degli italiani. Non mi risulta che il Pd e i suoi dintorni stiano ignorando o coprendo una realtà scomoda da accettare, come quella di una forte incidenza degli immigrati nella perpetrazione di reati violenti.
Non siamo in presenza di una ondata di criminalità determinata dall’aumento dell’immigrazione, come blaterato da Salvini e soci. Sta accadendo, come Barbagli d’altra parte sa, esattamente il contrario. Dall’inizio degli Anni ’90 ad oggi la criminalità più violenta è discesa costantemente, e non solo in Italia, Paese nel quale gli omicidi si sono ridotti di oltre il 70% e continuano a ridursi. E ciononostante una ondata di immigrazione dall’estero senza precedenti.
Ci sono poi i minitrend e le controtendenze. So bene che gli immigrati commettono, come sottolinea Barbagli, una quota sproporzionata di reati violenti e predatori. Ma è un errore enfatizzare questo dato e costruirvi sopra le paure e gli odi collegati. Barbagli attribuisce la criminalità degli stranieri allo status migratorio e non all’età in primo luogo, e alla maggiore visibilità e vulnerabilità dei delinquenti di origine straniera rispetto agli autoctoni. Gli immigrati compiono più omicidi perché si trovano nella fascia di età — sotto i 30 anni — entro la quale la stragrande maggioranza dei reati violenti si compiono. E sono sovrarappresentati nelle statistiche sugli arresti e sui detenuti perché poveri, giovani e privi di connessioni col territorio.
Un potenziale distruttivo da non sottovalutare, certo, presente in Italia come altrove in Europa. Ma il megatrend depressivo della violenza che domina il tutto finisce col mitigare di molto il pericolo che questi giovani stranieri si trasformino in delinquenti professionisti, casseur, terroristi e simili. L’Italia, poi, si avvantaggia — rispetto al resto dell’Europa — dell’assenza di ghettizzazione territoriale, dell’influenza del solidarismo laico e cattolico e delle tradizioni antirazziste e anticoloniali di una sinistra che, su questo tema, deve semmai mostrarsi più risoluta.
L’autore è professore di Sociologia all’Università di Sassari, è stato parlamentare e vicesegretario generale delle Nazioni Unite

Corriere 31.8.17
I migranti integrati creano ricchezza
di Danilo Taino


La gran discussione di questi giorni sull’immigrazione e sulle azioni politiche per metterla sotto controllo è di grande importanza. Così come lo è il tentativo di integrare nell’economia globale i Paesi da cui i migranti provengono. È però chiaro che la questione rimarrà con noi italiani ed europei per parecchi decenni. Realisticamente, dunque, occorre porsi il problema di come integrare chi arriva, una volta che ottiene il permesso di soggiorno, metterlo nelle condizioni di contribuire alla creazione di ricchezza. Perché su una cosa non ci sono dubbi: gli immigrati creano ricchezza. Uno studio di qualche mese fa del McKinsey Global Institute ha calcolato che il 90% dei 247 milioni di persone che hanno attraversato le frontiere per stabilirsi in un altro Paese lo hanno fatto volontariamente, per ragioni economiche. I rifugiati alla ricerca di asilo sono forse più visibili ma sono solo il 10% . Gran parte degli immigrati cerca un lavoro e tra il 2000 e il 2014 hanno contribuito tra il 40 e l’ 80% alla crescita della forza lavoro nei maggiori luoghi di destinazione. Nel muoversi da un Paese povero a uno più ricco e a più alta produttività danno un contributo maggiore alla creazione di ricchezza globale.
Lo studio McKinsey calcola che i migranti rappresentino il 3,4% della popolazione del mondo ma che realizzino quasi il 10% del Prodotto lordo globale. Si tratta di circa 6.700 miliardi di dollari, tremila in più di quelli che avrebbero prodotto nel loro Paese d’origine. E le nazioni più sviluppate nelle quali si integrano beneficiano del 90% di questo effetto. Non si può però dire che l’integrazione sia sufficiente, soprattutto in Europa, Italia in testa. Ci sono problemi di alloggio, di istruzione, di salute, di lavoro, di accettazione sociale non ancora risolti e spesso nemmeno presi in considerazione. McKinsey calcola che, se affrontati, il gap salariale tra immigrati e nativi, tra il 20 e il 30% , potrebbe diminuire a un livello tra il cinque e il 10% . Il che significherebbe una crescita maggiore per l’economia globale tra gli 800 e i mille miliardi di dollari l’anno. In una serie di attività, il valore del lavoro degli immigrati è già oggi evidente. Ciò nonostante, prevale l’idea che l’immigrazione sia solo un problema. Lo è spesso. Ma, dal momento che continuerà a esserci, è forse intelligente lavorare anche sui suoi portati positivi.

Il Fatto 31.8.17
Gli sbarchi al minimo storico. Ma Orlando attacca Minniti
Agosto: registrati appena 3.235 arrivi, soprattutto per la svolta sulle Ong e la Libia Guardasigilli contro Viminale: “Altro che tenuta democratica, semmai fascismo”
di An.Gi.


“Nessun rischio di tenuta democratica per l’Italia. Semmai vedo un fascismo razzista”. È scontro nel governo sui migranti. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando attacca il collega dell’Interno, Marco Minniti, che il giorno prima dallo stesso palco, quello della Festa dell’Unità di Pesaro, aveva detto di aver “temuto per la tenuta democratica di fronte a barricate per l’arrivo di migliaia di stranieri”. Il guardasigilli, invece, respinge questa visione politica: “Vedo che sta tornando un fascismo non giustificato da nessun flusso migratorio al mondo. Non credo sia in questione la tenuta democratica del Paese per pochi immigrati rispetto al numero dei nostri abitanti – ha affermato –. Non cediamo alla narrazione dell’emergenza perché altrimenti noi creiamo le condizioni per consentire a chi vuole rifondare i fascismi di speculare”.
Intanto, a un mese dalle prime firme del codice di condotta per le Ong voluto da Minniti, si registra un calo di sbarchi che non si vedeva da anni. I migranti sbarcati in Italia dal 1° gennaio al 30 agosto erano il 10,15% in meno rispetto a quelli calcolati nello stesso periodo del 2016. Se un anno fa, alla fine di agosto, ne erano arrivati 109.565, nel corso di quest’anno ne sono giunti 98.448. Ad agosto ne sono arrivati soltanto 3.235, decisamente meno dei 21.294 dell’agosto 2016, ma molti di meno rispetto ai 11.459 migranti giunti nel luglio scorso e ai 23 mila circa arrivati sia a maggio, sia a giugno. E così nei primi sette mesi del 2017 i migranti sbarcati erano addirittura l’1,10 per cento in più di quelli arrivati nei primi sette mesi del 2016. Era un dato “sostanzialmente in linea rispetto all’anno precedente”, sosteneva a metà agosto Frontex che però notava già un calo del 57 per cento rispetto al mese prima, “il livello più basso per il mese di luglio del 2014”. Per quel periodo, si può parlare di “diversi fattori” che possono aver influito. Frontex infatti aggiungeva: “Nelle ultime settimane, hanno contato anche le peggiori condizioni del mare nella prima metà di luglio. Gli scontri vicino a Sabrata, principale area di partenze in Libia, hanno poi danneggiato le operazioni dei trafficanti. In più la maggiore presenza della Guardia costiera libica li ha scoraggiati”.
Nel periodo preso in considerazione da Frontex il codice di condotta per le ong voluto dal ministro dell’Interno Marco Minniti non era ancora stato predisposto e firmato. Le prime firme sono arrivate il 31 luglio, quelle di Migrant offshore aid station (Moas) e Save the children; l’8 agosto aveva sottoscritto il protocollo anche la Proactiva open arms e l’11 agosto Sos Mediterranée. A Ferragosto il capo del Viminale era cauto: “È presto per fare valutazioni di carattere strutturale”, aveva detto commentando il suo codice. Ma gli ultimi dati, però, sembrano confermare che la svolta si è fatta più netta proprio ad agosto. Il regolamento, dunque, ha influito: “Sicuramente le ong che operavano vicino alla costa aumentavano l’attrattività per i trafficanti che potevano utilizzare delle barche inadatte alla navigazione per il mare aperto. Ci sono stati dei cambiamenti nelle modalità di invio delle persone, venivano utilizzati gommoni e i costi del viaggio erano più bassi, in media 250 dollari, un quarto di quanto avvenisse in passato”, spiega Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per lo studio della politica internazionale (Ispi). Ci sono stati poi anche altri fattori: “C’è stata la stretta con le ong e anche quella con la Libia – ricorda –. L’accordo di febbraio non aveva dato un frutto immediato, poi a giugno Minniti ha incontrato di nuovo Ferraj e ha concluso un accordo di massima. Ci sono tante componenti, tra cui anche le intese con le milizie di Sabrata e dintorni, ma il fatto che le ong abbiano dovuto arretrare ha un effetto moltiplicatore”.
Tra gli effetti di queste azioni, inoltre, c’è anche il calo drastico di morti in mare: lunedì l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha reso noto che “per 20 giorni la conta dei decessi nel mar Mediterraneo è rimasta a 2.410. Soltanto 19 morti sono state registrate ad agosto nella regione, un netto calo rispetto alle 689 dell’agosto 2015 e alle 62 dell’agosto 2016”.

Corriere 31.8.17
La legge elettorale non decolla
Dopo il varo della manovra potrebbe finire la legislatura
di Maria Teresa Meli


ROMA Con l’approvazione della legge di Bilancio Paolo Gentiloni considera esaurita l’attività del suo governo. Per quel che riguarda il premier, con quell’atto l’esecutivo ha svolto il compito che gli era stato affidato.
Ma è chiaro che il presidente del Consiglio è disponibile ad andare avanti nel caso in cui le forze politiche ritenessero necessario metter mano alla riforma elettorale. Un tema, questo, che nelle ultime settimane è rimasto un po’ sullo sfondo. Anche perché i partiti, ma pure i vertici istituzionali, attendono di vedere quello che accadrà in Sicilia alle regionali del 5 novembre per capire che piega prenderanno gli eventi.
Non è un mistero per nessuno che Sergio Mattarella preferirebbe che il Parlamento mettesse mano alla riforma elettorale per dare vita a una buona legge. Il presidente segue con discrezione l’evolversi dello scenario politico. E da siciliano qual è, guarda con occhio attento a ciò che avviene nell’isola. Al Quirinale non dispiace il sistema tedesco. Non per niente Mattarella aveva dato la sua benedizione all’accordo siglato da Pd-Forza Italia e Movimento Cinque Stelle, che andava proprio in questa direzione.
E a quel patto o, comunque, a una riforma dell’attuale legge elettorale guardano quanti vorrebbero protrarre il più possibile la legislatura. In questo modo si potrebbe arrivare fino alla data limite per lo scioglimento, quella del 15 marzo. Il che consentirebbe di andare al voto a maggio dell’anno prossimo.
Ma il Partito democratico, che pure a suo tempo si era fatto promotore dell’accordo sul sistema tedesco con Forza Italia e grillini, non pare troppo disposto a riaprire delle trattative che non si sa dove porterebbero. Tanto più che dentro il Pd la linea sulla riforma elettorale è tutt’altro che univoca e lo stesso dicasi per quanto riguarda il centrodestra. Mentre i Cinque Stelle si sono sfilati già una volta e Mdp, che in Sicilia è disposto a far vincere Nello Musumeci pur di non accordarsi con il Partito democratico, non ha intenzione di fare nessun patto con il Pd. Perciò prima della pausa estiva il capogruppo alla Camera Ettore Rosato aveva avvertito: «Dopo l’approvazione della legge di Bilancio la legislatura è ragionevolmente finita».
In effetti il sistema attuale non sembra affatto dispiacere al Pd in questa fase. Alla Camera, infatti, il premio di maggioranza scatta al 40 per cento e per raggiungere questa soglia il Partito democratico potrebbe proporre presto un patto sia ai centristi (ossia Pier Ferdinando Casini e Angelino Alfano) che alla sinistra di Giuliano Pisapia e ad altre forze e liste civiche per andare tutti uniti in un unico listone. Al Senato, invece, dove l’attuale sistema prevede la possibilità di dare vita a coalizioni, Campo progressista e i centristi potranno correre con i loro simboli, alleandosi con il Pd. Infatti per chi si presenta in coalizione la soglia di sbarramento scende dal proibitivo (sia per Pisapia che per Alfano) 8 per cento al 3.
Dunque, sembra difficile rimettere mano alla legge elettorale, tenendo conto anche del fatto che molti partiti sono divisi trasversalmente tra chi vuole il sistema tedesco e chi il premio di coalizione. Mattarella, comunque, come è suo costume, non forzerà la mano né sulla riforma né sul «timing» del voto.

La Stampa 31.8.17
Gli ostacoli sulla sfida dell’autunno
di Giovanni Orsina


L’estate del governo Gentiloni finisce assai meglio di com’era cominciata. Magari il ministro Minniti ha esagerato quando ha detto di aver temuto per la tenuta democratica del Paese. Però nelle settimane in cui il flusso migratorio appariva inarrestabile, l’Austria in campagna elettorale annunciava di voler schierare i blindati al Brennero, la Francia del nuovo Presidente si chiudeva entro i propri confini, l’aria che si respirava in Italia era davvero quella di un’esasperazione sempre maggiore. Frutto forse del senso d’impotenza, prima ancora che di qualsiasi reazione xenofobica: il dubbio di non esser governati più da nessuno, né da Roma né da Bruxelles. Oggi questo dubbio è senz’altro meno angoscioso: s’è mossa Roma, si sta muovendo l’Europa – un pezzo d’Europa, almeno. I problemi restano immensi, la partita è tutt’altro che chiusa, ma si ha almeno l’impressione che la cabina di pilotaggio non sia vuota.
Incassare il dividendo politico dei risultati ottenuti sul fronte migratorio, oltre che cercare di farsi attribuire il merito per il miglioramento degli indicatori economici, è la sfida che attende il Partito democratico nei prossimi mesi. Superando soprattutto due ostacoli, mi pare.
In primo luogo le divisioni ideologiche e politiche interne a una sinistra che, quando si tratta di rivendicare i successi dei suoi governi, è storicamente capace di raggiungere l’acme dell’autolesionismo. Divisioni visibili oggi tanto nel Pd quanto fra il Pd e gli altri partner di governo – basti pensare alle polemiche sui fatti di Piazza Indipendenza a Roma che, certo, sono cosa diversa dagli sbarchi, ma per gli elettori rientrano nella medesima area ipersensibile delle politiche migratorie. E basti pensare al voto regionale siciliano d’inizio novembre, che potrebbe vedere in campo tre candidati di sinistra.
Il secondo problema è l’immagine di Matteo Renzi. Fin dalla campagna per il referendum costituzionale, il segretario del Pd è diventato l’incarnazione d’una politica che gli italiani vedono come un luogo non di risoluzione dei problemi, ma di sfogo delle frustrazioni. La sua strategia comunicativa nei primi sei mesi di quest’anno non ha in alcun modo risolto il problema – semmai l’ha aggravato. Sarà interessante vedere se la pausa estiva, la prima dopo il referendum, ha arrestato questo meccanismo. E, in quel caso, se Renzi saprà approfittarne.
Prive di responsabilità di governo, le opposizioni paiono poter guardare all’autunno politico con maggior serenità del partito di maggioranza. Ancora una volta la situazione siciliana, sebbene per tanti versi peculiare, ne dà testimonianza: se la sinistra, come detto, è in alto mare, il Movimento 5 stelle ha il suo candidato ormai da tempo, e i partiti dell’emisfero destro sembrano (sembrano) aver trovato una soluzione unitaria. La tendenza a convergere fra Forza Italia e Lega si sta facendo sempre più robusta anche a livello nazionale – pure se, in assenza d’una legge elettorale, resta difficile intravedere quella convergenza fin dove arriverà.
Da qui a fine settembre, quando sceglieranno il loro candidato premier, i grillini mostreranno invece più fratture interne del solito – Fico e Di Maio già si sono divisi profondamente e platealmente sulla vicenda di Piazza Indipendenza. In virtù dei loro meccanismi di «democrazia diretta» (dall’alto) è ben probabile tuttavia che, una volta deciso il leader, quelle divisioni passeranno in secondo piano. Nella marcia verso il voto politico, resterà allora al Movimento il problema di sempre: come mostrare un profilo di governo. E gli resterà sperare che non vi siano sviluppi troppo negativi al Comune di Roma.

il manifesto 31.8.17
Il ritorno di Alfano in coalizione ha fatto saltare il piano studiato al Nazareno con Orlando e i centristi: slegare le elezioni del 5 novembre dalle prossime politiche. Ma Bersani e la Sinistra sono stati costretti a sfilarsi e adesso si annuncia una sconfitta, anticipo del 2018
di Alfredo Marsala


PALERMO Un candidato «civico» per non legare plasticamente il voto in Sicilia con le politiche e raggiungere un duplice obiettivo: mettere al riparo il Pd di Renzi, il cui scopo è di ritornare a fare il premier, e aggregare come valore aggiunto Leoluca Orlando con la sua «lista dei territori» che in teoria dovrebbe mobilitare parte di quegli amministratori locali senza simbolo. Alla base del piano il coinvolgimento dei centristi di Casini, di Mdp e di Si, mossa con la quale Orlando riuscirà a riconquistare la poltrona di sindaco sotto lo slogan del «modello Palermo». Una strategia pianificata a tavolino, come confermano diverse fonti al manifesto, e rilanciata in una riunione, qualche mese fa, al ministero per le infrastrutture con Graziano Delrio, Lorenzo Guerini e Orlando. Avanti tutta anche per le regionali. Renzi è riuscito a convincere i suoi in Sicilia della bontà del progetto, soprattutto Davide Faraone impegnato da almeno due anni a fare opposizione a Rosario Crocetta nonostante fosse al governo con tre assessori in giunta. Anche il sottosegretario, alla fine, ha dovuto arrendersi all’ordine di scuderia. Tutto sembrava filare liscio, poi è arrivato Angelino Alfano.
Quando Renzi ha capito di potere recuperare il leader di Ap, con il quale era calato il gelo, la strategia ha preso una piega diversa. E così il voto in Sicilia è diventato il pretesto per riallacciare quel rapporto che s’era ridotto ai minimi termini; tant’è che una parte di Ap, soprattutto i dirigenti delle regioni del nord, spingevano per il ritorno del figlio prodigo sotto le ali di Silvio Berlusconi. È in quel momento che l’architettura politica pianificata dal Nazareno con Orlando ha cominciato a vacillare, fino a rompersi. Renzi è riuscito a convincere Orlando a farsi carico anche di Ap, dandogli il mandato di trattare con Mdp e Si; ma è proprio qui che il piano è venuto allo scoperto. Alfano è riuscito a legare il voto in Sicilia con quello per le politiche ottenendo da Renzi il via libera a un accordo per la legge elettorale e liste condivise al senato se la norma non sarà modificata. Un autogol clamoroso quello di Renzi; Mdp e Si hanno abbandonato il «modello Palermo» poiché per Bersani sarebbe stato complicato fare la campagna per le politiche essendosi alleato nell’isola con Alfano, e il voto in Sicilia s’è trasformato proprio in quello che il leader del Pd non voleva: un antipasto delle politiche.
In più s’è aggiunta la «grana» Crocetta. Bistrattato e lasciato ai margini, il governatore della Sicilia, dopo avere incassato i giudizi positivi da parte del suo partito sui cinque anni di legislatura, chiede il conto al Pd. E attacca: «Se qualcuno pensa che sia l’ideologo della divisione del centrosinistra si sbaglia alla grande. Io, i miei compagni e i miei amici siamo per una proposta unitaria di confronto tra le forze politiche, ma abbiamo assistito a un progetto lanciato senza alcuna verifica democratica». Insomma, nessuna imposizione da Roma, né ai piani segreti. «Io vengo da una lunga militanza, per me il dado è tratto quando ci sono delle decisioni democratiche assunte e non quando qualche potente le assume – attacca – Se hanno deciso di rompere e di non accettare il confronto con il presidente uscente e con una forza politica, non sono io responsabile». Il governatore ribadisce che «non c’è alternativa alle primarie, io non sto rompendo con la coalizione, sto facendo una proposta e chi dice no vuol dire che è così arrogante da pensare che basta mettere insieme quattro notabili per vincere». Crocetta è netto: «Penso che il progetto Micari sia perdente: non cammina con le gambe della società e dei partiti della coalizione». E rincara: «È una sconfitta annunciata, nessuno se la prenda col segretario siciliano dei dem Fausto Raciti. Altri non hanno l’obiettivo di vincere le elezioni; hanno l’obiettivo di farmi fuori. Il progetto Micari è nato a Roma con Orlando che ha fatto come con le amministrative. È andato a Roma, si è fatto candidare dal Pd e poi ha detto che era “civico”, noi gli abbiamo fatto una legge che con il 40% vinceva e poi ha fatto tutto da solo. Io non posso accettare che la Sicilia venga commissariata da Roma». Il messaggio a Renzi è chiaro: «Non temo la corsa solitaria».

il manifesto 31.8.17
“Con Micari è un suicidio”. La depressione del Pd
Le reazioni. Più di un dirigente del partito in Sicilia ammette: "Abbiamo liquidato il presidente Crocetta in modo squallido. E lui adesso potrebbe licenziare gli assessori democratici. Una catastrofe, a tre mesi dal voto"
di Alfredo Marsala


PALERMO Depressione. È il sentimento che, almeno questa volta, sta mettendo d’accordo i big del Pd in Sicilia. I dirigenti del partito sono allo sbando. Il nome di Fabrizio Micari è vissuto come una imposizione di Renzi ai ras, quei portatori di voti che devono andare in giro per l’isola a racimolare consensi. E per chi? «Per un signor nessuno?», sbotta un leader di corrente. Nessuno se la sente di metterci la faccia. Almeno per ora. «I miei mi chiamano da Caltanissetta e da Agrigento – aggiunge – Mi chiedono chi sia Micari e come devono comportarsi».
Qualcuno ancora spera che ai piani alti del Nazareno si rendano conto che quello che ripete Rosario Crocetta è vero: «Con Micari è un suicidio politico». «Ma a meno di un big bang, il candidato che dovremo portare in giro sarà Micari», sbuffa un altro dirigente dei dem. Gli uomini più vicini a Crocetta stanno facendo pressioni nel partito perché si valuti «veramente di fare le primarie». «I tempi ci sono – sussurra un esponente dell’area Emiliano – Ricordo che abbiamo organizzato il congresso nazionale in poche settimane, è solo una questione di volontà».
Di nomi il Pd ne avrebbe tanti da spendere, tutti politici: il renziano Davide Faraone, Giuseppe Lupo di areadem, Antonello Cracolici. «Il dibattito Grasso sì / Grasso no ha svilito il partito – sostiene un altro big – Il metodo è stato assolutamente sbagliato; gli organismi di partito non sono mai stati coinvolti, la base non capisce, è stordita. Stiamo andando verso il baratro e tutti ne siamo coscienti». Due le variabili che contribuiscono a rendere il clima ancora più pesante in casa dem. Innanzitutto, Rosario Crocetta. Anche i più acerrimi nemici del governatore ammettono che il partito ha toccato il fondo per il modo in cui ha trattato il presidente uscente: «L’abbiamo attaccato, rimaniamo in giunta e ora che facciamo? Lo scarichiamo così? È veramente squallido, il nostro popolo non è stupido». Il timore dei ras è che se il partito non riuscisse a convincere Crocetta, irremovibile sulla decisione di candidarsi anche da solo se non si faranno le primarie, il governatore potrebbe chiedere agli assessori del Pd di uscire dalla giunta oppure di revocare le nomine. «Significa perdere posti cruciali nell’amministrazione a due mesi dalle elezioni», ammette un deputato regionale.
Sono 6 su 12 gli assessori del Pd e tutti in posti chiave: economia, sanità, agricoltura, energia, formazione, turismo. Crocetta in questo momento spera ancora che il suo partito abbandoni l’ipotesi Micari, ma i margini, sussurrano esponenti dem, non ci sono. Appare quindi probabile che Crocetta azzeri la giunta per formare un governo del presidente, in questo caso salterebbe il 90% della giunta. «Una catastrofe», sostiene una parlamentare dem.
Poi c’è il secondo aspetto. Terrorizzante. La composizione delle liste. Da quest’anno sono 70 gli scranni dell’Assemblea da conquistare, non più 90. I dirigenti stanno già facendo conti alla mano sulle candidature. E la coperta è davvero corta. Chi ha dimestichezza con numeri e legge elettorale spiega che il problema sono le tre grandi città metropolitane: Palermo, Catania e Messina. «Quanti deputati realisticamente riusciremo a eleggere in questo clima di paura e depressione col nostro candidato Micari dato da alcuni sondaggi sotto il 20%?» è la sconfortata domanda. Ecco prefigurarsi all’orizzonte due scenari: lo strapotere di alcuni big con il conseguente disimpegno da parte di altri dirigenti, pronti a candidare i propri uomini magari nella lista dei territori di Leoluca Orlando oppure in quella di «Sicilia futura», il movimento dell’ex ministro Totò Cardinale, legatissimo a Renzi e a Orlando. «Ciò significa per il Pd lo sfaldamento totale», afferma un capocorrente.
I big insomma si sentono sotto scopa. Anche perché i leader romani, uno alla volta, dettano la linea un giorno sì e l’altro pure: prima Andrea Orlando e poi Maurizio Martina hanno fatto il loro endorsement per Micari. Chi è uscito allo scoperto è invece Enzo Bianco, non direttamente però. Il sindaco di Catania ha affidato a Francesco Marano, vice segretario del Pd siciliano, la linea del liberal: «La modalità di scelta di Micari risulta troppo palermocentrica e indebolisce la nostra proposta per la Sicilia».

il manifesto 31.8.17
Sinistra, la nostalgia delle coalizioni
Da "Le moeurs politique" di Honoré Daumier
di Antonio Floridia


E’ davvero singolare la pigrizia politica e intellettuale con cui molti protagonisti e commentatori stanno affrontando l’attuale fase politica e, in particolare, il nodo della riforma elettorale. Si potrebbe anche compilare un piccolo dizionario dei luoghi comuni che abbondano nei discorsi correnti.
La prima voce è «coalizione»: sembra proprio che l’ultimo tentativo di metter mano alla riforma elettorale si giochi tutto su questo punto. La sinistra interna del Pd, ma pare anche Pisapia e alcuni ambienti prodiani, sembra che ne facciano una questione dirimente, per cercare di salvare le residue possibilità che il Pd di Renzi possa ancorarsi ad una qualche idea di «centrosinistra».
Ebbene, bisogna riconoscere che, su questo punto, la posizione di Renzi appare dotata di maggiore realismo (se, naturalmente, – ed è una grande incognita – terrà fermo a quanto detto sinora, ovvero che a questo punto non si tocca più nulla della legge elettorale vigente).
Ricordiamo per comodità dei lettori lo stato dell’arte: alla camera premio alla lista che superi il 40%, soglia al 3%. Al senato, possibilità di coalizioni, soglia all’8% per le liste singole, ma al 3% per le liste che sono dentro coalizioni oltre il 20% – è la clausola che dovrebbe «salvare» Alfano. Se nessuna lista ottiene il 40% la ripartizione dei seggi avviene su base proporzionale.
Quella di Renzi è una posizione più realistica, perché prende atto che non ci sono le condizioni politiche per una qualche coalizione di «centrosinistra». Ed è questo che sembrano non comprendere coloro che, dentro e fuori dal Pd, invocano una riforma elettorale con la «coalizione» e continuano a parlare di «centrosinistra». Basta porsi una semplice domanda: se pure la legge elettorale prevedesse questa possibilità (anche alla camera), quale credibilità politica avrebbe una coalizione tra il Pd e qualche spezzone alla sua sinistra (soprattutto, poi, se questa coalizione avesse anche una ben più consistente componente centrista)?
Renzi, ed è comprensibile dal suo punto di vista, giocherà la sua campagna elettorale rivendicando i risultati della sua stagione di governo: come potrebbe la sinistra che è fuori dal Pd accettare una simile prospettiva? E poi è persino offensiva nei confronti di Pisapia l’idea, che taluni nel Pd accarezzano, secondo cui Pisapia sarebbe la sinistra «buona», con cui ci si può alleare: ma, lo stesso Pisapia, può davvero acconciarsi all’idea di fare l’ala (anzi, l’«aletta») sinistra di una coalizione attorno al Pd che, per il resto, raccoglierebbe tutte le più pure espressioni del neo-trasformismo italico? Altro che «centrosinistra largo».
Su questo punto, sarebbe opportuno uscire da ogni ambiguità. Inoltre, c’è anche un’altra considerazione, di ordine più generale: che vantaggio potrà mai venire alla democrazia italiana da un sistema elettorale che favorisce enormemente il ricompattamento di una destra ad egemonia xenofoba e nazionalista? Non è più saggio favorire l’emergere di una autonoma destra conservatrice, ma europeista, legata al partito popolare europeo?
Ma c’è un altro luogo comune che impazza: la «divisione» del centrosinistra farà vincere la destra. Si continua a ragionare con gli schemi di una passata stagione politica, o come se si trattasse di eleggere un sindaco. La destra certo può vincere: perché è forte, ma non perché la «sinistra» è divisa. È banale dirlo, ma con un sistema proporzionale, per governare occorre il 51% dei seggi: e la prossima partita elettorale si giocherà, innanzi tutto, sulla capacità delle diverse forze politiche di portare alle urne il proprio potenziale elettorato, di mobilitarlo e motivarlo. E non c’è dubbio che oggi tutte le componenti della destra sono galvanizzate e viaggiano spinte da un clima profondamente regressivo, nella cultura politica del nostro paese. Ma c’è un solo modo per frenare questa tendenza (abbassando percentuali e seggi della destra): che anche l’elettorato democratico e di sinistra si mobiliti, che trovi un’offerta elettorale adeguata e articolata, che non si rifugi nell’astensione.
E non c’è dubbio che in questo momento, perché questo accada, c’è una sola condizione (necessaria, anche se da sola non sufficiente): che a sinistra del Pd vi sia una lista unitaria, credibile e autorevole, senza ambiguità. Sarà inevitabile e salutare un duro scontro politico ed elettorale con il Pd, ma questo non vuol dire affatto rinchiudersi in una logica settaria e minoritaria: anzi, la chiave sarà proprio quella di rivolgersi in modo aperto e unitario ad un elettorato che mai e poi mai voterebbe per il Pd e che piuttosto ingrosserebbe le fila del non-voto, o a quell’elettorato che cerca un’alternativa migliore alla scelta «obbligata» di votare il Pd come presunto «argine» alla destra. Anche per questo, una sola lista alla sinistra del Pd è una premessa essenziale: altrimenti, si condanneranno tutti all’irrilevanza.
E, infine, un terzo luogo comune: l’equazione proporzionale uguale frammentazione uguale ingovernabilità. Falso, in linea di fatto e in linea di principio. La storia degli ultimi vent’anni mostra come la frammentazione sia stata fortemente incentivata proprio dai sistemi elettorali a «premio di maggioranza», che hanno esaltato la rendita di posizione anche delle forze più marginali.
Al contrario, un sistema proporzionale, con una soglia non aggirabile al quattro o al cinque per cento è l’unico modo per tagliare le ali ai micro-partiti notabilari.
La stessa storia mostra poi come coalizioni siffatte non garantiscono affatto la qualità e la stabilità dei governi: al contrario, una competizione proporzionale, che faccia emergere la vera distribuzione delle opinioni politiche dei cittadini, permetterà che emergano le vere compatibilità o incompatibilità programmatiche, e affiderà ai rapporti di forza che emergeranno dalle urne la definizione dei possibili equilibri di governo, attraverso una mediazione che è fisiologica in una democrazia parlamentare.
Quell’equazione è falsa anche in linea di principio, perché ignora un dato: il formato della competizione e la qualità dell’«offerta» elettorale condizionano anche le scelte degli elettori. Tutte le simulazioni condotte sulla base degli attuali sondaggi lasciano il tempo che trovano. Da ultimo, anche le elezioni britanniche mostrano come le campagne elettorali, e il modo con cui sono condotte, possono smentire ogni precedente previsione. Figuriamoci poi se cambia anche il sistema elettorale.
Il tema della «governabilità» sarà senza dubbio al centro della prossima campagna elettorale: ma la lista di sinistra, se ci sarà, dovrà chiedere consenso e voti proprio per poter essere forza decisiva nei possibili futuri equilibri di governo. Tutt’altro, quindi, che una forza vocata alla testimonianza

Corriere 31.8.17
I troppi invalidi dell’Inps
di Federico Fubini


Si chiama Aoi, l’«assegno ordinario di in-validità per persone con capacità lavorativa ridotta». Quell’assegno ha iniziato ad attrarre più attenzione nell’Inps quando ci si è accorti di un curioso dettaglio: gli stessi impiegati Inps tendevano a ritrovarsi invalidi più spesso della media degli altri lavoratori italiani.
In fondo non c’è nulla di strano. Certi dettagli in seno all’Inps, l’Istituto nazionale di previdenza sociale, non sembrano molto diversi da quanto accade storicamente in alcune aree dinamiche della più grande economia del mondo. Anche negli Stati Uniti si è visto qualcosa del genere. Prima del grande crash del 1929, un visitatore a New York fu portato al molo sul fiume Hudson ad ammirare gli yacht degli agenti di Wall Street. Quello vide e chiese: «Dove sono le barche dei clienti?». Poi, prima della Grande recessione del 2008, l’economista dell’Università di Chicago Steven Levitt si accorse che gli agenti immobiliari vendevano le case di loro stessa proprietà in media il 3% più care di quelle dei loro clienti.
Qualche indizio fa pensare che in Italia qualcosa del genere sia accaduto anche all’Inps. I dipendenti dell’istituto non trattano né gli immobili, né i risparmi dei loro pensionati. E niente di ciò che fanno suggerisce che siamo alla vigilia di un’altra crisi. Ma un punto in comune con gli agenti americani c’è: anche nell’istituto di previdenza, quando si può, si finisce per trattare sé stessi e i propri amici con un occhio di riguardo che non abbiamo per gli estranei. Magari lo facciamo inavvertitamente. E magari non in modo sfacciato. Ma succede.
Lo fa pensare la recente revisione di quello che è noto come Aoi, l’«assegno ordinario di invalidità per persone con capacità lavorativa ridotta». Si tratta di un sussidio rivolto a chi soffre di qualche forma di invalidità, ma lavora comunque: riguarda dipendenti pubblici, privati, autonomi, precari o anche dipendenti dello stesso Inps.
Quell’assegno ha iniziato ad attrarre più attenzione nell’istituto di previdenza quando ci si è accorti di un curioso dettaglio: gli stessi impiegati Inps tendevano a ritrovarsi invalidi più spesso della media degli altri lavoratori italiani. Se era solo sfortuna, non era poca: a fine 2016 chi lavora all’Inps ha il 17% di probabilità in più di un dipendente di qualunque altro tipo di vedersi riconosciuto l’assegno di invalidità. Erano il 2,34% del totale, invece del due per cento della media italiana. Forse è solo cattiva salute. Forse invece ha anche qualcosa a che fare con una circostanza diversa: il diritto al sussidio viene deliberato in base a una visita proprio da parte dei medici dell’Inps della stessa provincia del lavoratore interessato. In sostanza, se siete dipendenti dell’istituto, il certificato lo rilasciavano i vostri colleghi di ufficio, i compagni di una vita, quelli che magari negli ultimi vent’anni hanno passato con voi più tempo delle vostre stesse mogli. Il rischio di produrre una versione molto italiana dell’istinto di favorire sé stessi e i propri simili, come a Wall Street, era evidente. Forse da qui viene quel 17% in più di incidenza del sussidio in seno all’Inps?
Per capirlo, l’istituto ha tentato un esperimento: mescolare le carte. I medici Inps di Aosta sarebbero stati mandati a visitare i dipendenti Inps di Reggio Calabria o di Taranto, mentre da Napoli o Palermo avrebbero esaminato i veneti o i lombardi. I controlli questa volta dovevano essere svolti da estranei su altri estranei. Risultato: gli assegni di invalidità dell’Inps agli stessi dipendenti dell’Inps ne sono usciti dimezzati. Per la precisione il 54% delle visite effettuate ha prodotto una revoca del sussidio perché, apparentemente, le condizioni di invalidità non sussistevano più. Nel Lazio sono stati interrotti il 62% dei trattamenti, in Emilia-Romagna e in Campania il 59%; nell’ufficio di Roma Eur ne sono saltati il 77%, a Viterbo sette su sette «aventi diritto» ora non hanno più quel diritto. In tutto i medici Inps arrivati da altre regioni hanno cancellato 328 trattamenti di invalidità dei loro colleghi, dato che a loro quegli sconosciuti devono essere sembrati sani come pesci.
Naturalmente neanche questi numeri sono definitivi. Non lo sono, in primo luogo, perché circa metà dei dipendenti Inps ormai revocati ha presentato ricorso (l’altra metà si è arresa all’evidenza di essere in salute). Dunque delicati riesami attendono gli impiegati dell’istituto, con una commissione in parte della stessa provincia e in parte venuta da fuori. Ma i numeri vanno presi con le pinze anche perché non tutta l’Italia sta altrettanto bene: fra 15 milioni di dipendenti nel Paese, in tutti i settori, i destinatari del sussidio da invalidi sono l’uno per cento dei lavoratori in Veneto e in Trentino-Alto Adige e il 6,7% in Calabria. Quando si dice l’importanza dei fattori locali .

La Stampa 31.8,17
Tassare le macchine non fa bene agli umani
di Stefano Lepri


Una vera tassa sui robot ancora non è, però va in quel senso: nella Corea del Sud, Paese all’avanguardia mondiale dell’automazione, il presidente Moon Jae-in (centro-sinistra) progetta un calo degli incentivi a chi installa macchinari. Ma lì non è la disoccupazione - appena al 3,6% - il problema; la gente è scontenta casomai per le disuguaglianze e la scarsa mobilità sociale.
All’idea di tassare i robot, lanciata da Bill Gates, quasi tutti gli economisti restano contrari. Anche perché i dati non mostrano, per ora, alcun processo travolgente; tanto meno da noi, dove la Banca d’Italia anzi imputa agli industriali pigrizia nell’adozione delle nuove tecnologie. Negli Usa parla di «allarmismo infondato» proprio l’Itif, fondazione che studia e promuove l’informatica.
Sessant’anni fa negli Stati Uniti c’erano 110.000 persone impiegate a manovrare gli ascensori nei grattacieli, e 25.000 addetti ai proiettori dei cinema. Sono solo due piccoli esempi, fonte Itif, dei posti di lavoro che la tecnologia distrugge; in entrambi i casi non si ricordano significative conseguenze, perché di occasioni di impiego nel frattempo se ne creavano molte di più altrove.
Però oggi la paura che i robot ci tolgano il lavoro impazza. Forse perché non sappiamo ancora dove colpiranno; perché svolgono compiti che fino a ieri ci pareva impossibile automatizzare; perché si teme che il processo sia troppo rapido per adattarvisi. O piuttosto, pensandoci bene, perché oggi è molto più forte il rischio che chi cambia occupazione debba accontentarsi di una paga più bassa.
L’esempio storico confortante che viene spesso citato quanto a tecnologie è quello della prima rivoluzione industriale: nel corso del XIX secolo la produttività delle industrie tessili aumentò di 50 volte, ma dato che ai prezzi così ridotti molta più gente poteva permettersi la spesa, la vendita di capi di vestiario crebbe in proporzione ancora superiore, e le fabbriche anzi si ingrandirono.
Oggi è difficile che un simile caso si ripeta. I posti di lavoro che la tecnologia distrugge non sono più solo faticosi e umili, sono (lo mostrano analisi Ocse) di categoria media, decentemente retribuiti seppur non entusiasmanti e ripetitivi. Per come stanno le cose nei Paesi avanzati, essere sostituito da un computer può implicare una caduta nella scala sociale.
Certo gli incentivi ad applicare l’informatica sono più forti dove il lavoro manca. Il trattore robot si sperimenta in Giappone, dove nessuno vuole più coltivare i campi; in Germania si realizzano macchine mobili capaci di individuare malattie ed esigenze delle piante. In Gran Bretagna, i fautori della Brexit contano su queste novità per proporre una agricoltura senza immigrati.
Secondo l’economista turco-americano Daron Acemoglu, negli Usa i posti di lavoro industriali distrutti dalle nuove tecnologie sono stati 670.000 dal 1990 al 2007. Di classe operaia secondo gli schemi del XX secolo ce ne sarà sempre meno. Tuttavia altri settori all’elettronica restano refrattari. Proprio negli Usa, ha detto sabato al convegno di Jackson Hole Timothy Kehoe (università del Minnesota), negli ultimi 50 anni la produttività dell’edilizia è addirittura scesa.
Altri impieghi si creeranno al posto di quelli distrutti, sostiene Tyler Cowen, uno dei più brillanti economisti neoliberisti, senza però nessun ottimismo di maniera: dove occorrono relazioni umane, tra aziende e clienti per esempio, insomma nel «marketing»; con rischio di sprechi in società troppo ricche con posizioni dominanti sul mercato, o perfino di frodi come nella finanza.
Di sicuro è stato il progresso tecnologico a mutare i rapporti di forza tra imprese e lavoratori, frenando in tutto il mondo i salari. Ma proprio questa concentrazione di ricchezza in poche mani, ha avvertito a Jackson Hole l’altro giorno il banchiere centrale di Hong Kong Norman Chan, frena ora la crescita. Ovvero rende meno convenienti i robot: forse la tecnologia si ritorce contro sé stessa.

Corriere 31.8.17
Se nei campus torna a soffiare il vento del ’68
Il semestre che si sta aprendo rischia di essere uno dei più «caldi» nei campus universitari americani. E il vento della protesta politica torna a spirare ancora a Berkeley, protagonista del Sessantotto
di Marilisa Palumbo


New York I dormitori si stanno riempiendo, le matricole cominciano il viaggio nella vita adulta, ma il semestre che si sta aprendo rischia di essere uno dei più violenti che i campus americani ricordino dagli anni Sessanta. Proprio dentro un’università, quella della Virginia, con la marcia notturna dei nazionalisti bianchi, è partita la serie di eventi che durante le contromanifestazioni ha portato alla morte di Heather Heyer, investita da un simpatizzante nazista.
Ora i dirigenti dei college devono camminare su una linea molto sottile tra sicurezza e libertà di espressione mentre valutano il rischio di autorizzare marce, proteste e inviti a personaggi controversi. Dopo Charlottesville almeno cinque università, dalla Pennsylvania alla Florida, hanno negato a Richard Spencer, l’inventore della alt-right, la destra «alternativa» (ma soprattutto estrema), la possibilità di parlare nei loro campus. A rendere la situazione più esplosiva, secondo Todd Gitlin, sociologo della scuola di giornalismo della Columbia di New York, «è il confronto tra i provocatori di destra, che sono eccitati dalla possibilità di uno scontro pubblico nelle università, e l’ortodossia di sinistra che è giunta a pensare che non ci sia nessuna differenza tra le parole e le azioni».
A Berkeley a febbraio l’università aveva cancellato il discorso di un altro campione dell’alt-right, il «super villano della Rete» Milo Yiannopoulos, dopo che le manifestazioni contro il suo intervento si erano fatte violente. Qualche giorno dopo, la stessa cosa era successa all’opinionista ultra conservatrice Ann Coulter. E ora entrambi annunciano che torneranno sul luogo del delitto a fine settembre per celebrare «una settimana in difesa del free speech». «L’unico modo per sopprimere l’odio e i discorsi xenofobi è con più impegno, più parole — dice Tom Nichols, professore di sicurezza nazionale allo Us Naval College e ad Harvard — e ignorando questi personaggi. Lo dico spesso in classe, nel mercato delle idee alcune sono solo paccottiglia senza valore e non bisogna esserne spaventati».
Il rettore di Berkeley — dove anche nel fine settimana ci sono stati scontri tra estrema sinistra (i cosiddetti «antifa») e pacifici manifestanti di destra — ha accolto le matricole dicendo che «è fondamentale per la nostra comunità proteggere il diritto (al free speech, ndr), perché è quello che siamo», ricordando come il movimento per la libertà di espressione sia nato proprio nei campus negli anni Sessanta «dall’alleanza tra liberal e conservatori per il diritto alle proteste politiche».
Gitlin al tempo era leader degli Students for a democratic society, ma tra oggi e ieri vede più differenze che similitudini. «Primo, all’epoca gli scontri non erano tra studenti ma con le autorità simbolo dell’impegno militare, mentre nei campus poteva parlare il capo del partito nazista americano o leader che incitavano alla violenza rivoluzionaria da sinistra come Malcolm X e non accadeva assolutamente nulla. Oggi la destra brama questi scontri ma anche per la sinistra diventano un surrogato della politica vera, che invece si continua a fare fuori dai campus».
E quella che Gitlin chiama ortodossia di sinistra è forse uno dei risultati di aver fatto dei college in questi anni, come sostiene Nichols nel suo libro «The Death of Expertise», la fine della competenza, luoghi troppo ovattati. Martedì una quindicina di professori di Harvard, Yale e Princeton ha scritto alle matricole raccomandando loro di «pensare per sé», di non cedere alla «tirannia della pubblica opinione», ma di aprirsi al pensiero critico, al dibattito. Non certo di aprirsi all’ hate speech che parlavano, ma di vincere quella che Gitlin vede come «una certa timidità intellettuale, una ipersensibilità, una tendenza al vittimismo». «Viviamo in un periodo in cui siamo meno tolleranti gli uni con gli altri — dice Nichols — perché viviamo ognuno nella nostra bolla in cui interagiamo solo con chi la pensa come noi». A maggior ragione, come insegnanti, «dobbiamo esporre i nostri studenti a idee diverse dalle loro, smetterla di coccolarli. Le università non sono una sala operatoria sterile in cui cerchiamo di proteggere il paziente dalle infezioni ».
Marilisa Palumbo @marilisap

Corriere 31.8.17
L’etica collettiva, il Giappone rivela uno dei suoi segreti
di Enzo Moavero Milanesi


In Italia, raramente parliamo del Giappone; spesso, ce ne interessiamo per qualche vicenda economica o per avvenimenti particolari, come i missili nordcoreani. Eppure, sono tanti gli spunti per riflessioni comparative. Siamo entrambe civiltà antiche, fiere dei monumenti del passato. Afflitti, per secoli, da conflitti intestini fra i signori locali, è nella seconda metà del 1800 che il Giappone dell’era Meiji e l’Italia del Risorgimento si rigenerano quali moderni Stati nazionali, per poi ritrovarsi — caso unico — alleati in ambedue le guerre mondiali. Negli anni 50 e 60, superano la disfatta bellica, grazie alla crescita industriale e alle esportazioni. Come sappiamo, l’economia giapponese è ben più grande della nostra, ma per decenni compartecipiamo al gruppo delle sette nazioni con il prodotto interno maggiore del pianeta.
I due Paesi hanno una rinomata tradizione culinaria (ovunque, nel mondo, trovi pizzerie e locali sushi); chi vi abita gode della più alta aspettativa di vita. Condividiamo anche la vulnerabilità ai terremoti e il livello enorme del debito pubblico. Fra varie similitudini, risaltano le differenze a cui noi italiani dovremmo utilmente ispirarci; per esempio: la capillare rete di trasporti locali; le efficaci misure antisismiche; la stabilità del quadro politico; la reputazione del Paese, malgrado la lunga stagnazione economica che lo angustia da prima della crisi globale del 2007.
Sì, il Giappone è considerato molto affidabile, e forse parte del perché sta in un piccolo episodio. Giorni fa, nella metropolitana di Tokyo, un amico distratto perde tablet e portafoglio; quando se ne accorge, non sa dire né il treno, né l’ora; un cortese giapponese ci indirizza al personale di una stazione, a cui diamo elementi sommari; contro ogni nostra italica previsione, già in serata ci comunicano di aver ritrovato tutto. Straordinario? No, ci spiegano, di solito va così: grazie all’efficiente servizio «oggetti smarriti» e all’abituale etica dei passeggeri.

Corriere 31.8.17
Friedkin scopre l’esorcismo (vero) di Amorth


VENEZIA «Il diavolo mi ha reso famoso in tutto il mondo». Quando si incontrarono a Roma, il 5 aprile 2016 nel suo appartamento romano, Padre Amorth accolse William Friedkin con queste parole. Anche il regista deve la sua fama al diavolo, grazie a un film celeberrimo, L’esorcista . Non sorprende fosse il preferito del religioso — classe 1925 già partigiano cattolico, poi dirigente della gioventù democristiana di Giulio Andreotti, quindi sacerdote — che ebbe da ridire solo sugli effetti speciali. Eccessivi, a suoi occhi.
Non c’è solo la cronaca di quell’incontro nel documentario The Devil and Father Amorth , oggi fuori concorso alla Mostra, dove l’anno scorso, sempre in tema di esorcismi, in Orizzonti vinse Liberami di Federica Di Giacomo. Il cuore del film è un esorcismo reale, il nono operato dal successore di padre Candido Amantini, il mentore di Amorth, che nel rituale viene invocato insieme a San Giuseppe, alla Vergine Maria e Padre Pio su una donna di Alatri, Cristina.
È la prima volta, spiega il regista, che a qualcuno è permesso riprendere un intervento. È la prima volta che il regista americano ne osserva uno da vicino. Un rituale meno spettacolare di quello mostrato da Friedkin sulla giovane Regan MacNeil (Linda Blair) nel film ma molto più terrificante. La stanzetta è affollatissima: ci sono gli assistenti dell’esorcista e i parenti della donna, seduta su una poltrona coperta da un drappo rosso. Si comincia con padre Amorth che si porta il pollice sul naso e fa uno sberleffo a Satana. «Infer tibi libera». «Time Satana inimici Fidem», recita in latino, mentre la donna si agita, replica urlando «Sono Satana. Siamo un esercito». Non è fantasia ma cronaca anche l’epilogo del filmato, girato con una videocamera senza troupe: il coro di «Tanti auguri» rivolto all’esorcista. Era il 1 maggio dell’anno scorso, sarebbe morto di lì a pochi mesi.
Fu Bill Blatty — autore del romanzo alla base del film — a convincere Friedkin a girare L’esorcista . Ne ripercorre la genesi nel doc, e interroga neurologi, psichiatri, sacerdoti sul tema della possessione. Reazione dissociativa, superstizione collettiva, fede? Secondo Padre Amorth, «la certezza della presenza del demonio si scopre solo durante l’esorcismo». Friedkin all’epoca si dichiarava agnostico. Oggi sembra più pronto a credere. «Un’esperienza sconvolgente». Davvero.
S. U.

La Stampa 31.8.17
Nella rete di Sorge, nazista a Tokyo per conto dell’Urss
Giornalista tedesco iscritto al partito di Hitler ma comunista fin dal 1918, con le sue informazioni influenzò il corso della Seconda guerra mondiale
di Alessandro Barbero


Giappone, luglio 1935. Un certo tenente colonnello Aizawa arriva a Tokyo, in treno, dalla sua città di guarnigione. Va al ministero della Guerra, entra nell’ufficio del viceministro, generale Nagata, sguaina la sciabola e lo ammazza. Al processo dirà che si vergogna di una cosa sola: di non essere riuscito a ucciderlo con un solo colpo di spada. L’omicidio non è una questione privata: è dovuto a un conflitto politico. L’esercito giapponese è spaccato tra i vecchi generali moderati, legati ai grandi trust industriali, e i giovani ufficiali estremisti, spesso di umili origini, e con forti simpatie fasciste. In Giappone c’è una tradizione di conflitti simili: c’è anche un termine che risale addirittura al XV secolo, gekokujo, che vuol dire rovesciamento degli anziani da parte dei giovani.
Il 26 febbraio 1936, durante il processo del tenente colonnello Aizawa, un gruppo di giovani ufficiali fa uscire i soldati dalle caserme, occupa il ministero della Guerra, il Parlamento e la Centrale di polizia e attacca le case del primo ministro e di parecchi ministri. Due ministri vengono uccisi, il premier si salva solo perché gli insorti uccidono suo cognato, scambiandolo per lui. I ribelli dichiarano che hanno agito per dovere nei confronti dell’imperatore, e non fanno nient’altro, come se si aspettassero che l’imperatore Hirohito interverrà dalla loro parte. Il governo tratta con gli insorti per due giorni, ma intanto fa circondare tutti gli edifici occupati, usando unità della Marina, che è in pessimi rapporti con l’Esercito. Dopo tre giorni i ribelli si arrendono; la maggior parte saranno condannati a morte e giustiziati.
La gaffe della Pravda
I governi occidentali fanno una gran fatica a capire cosa sta succedendo in Giappone: quella è una società lontana, complicata e impenetrabile. Anche i pochi giornalisti europei a Tokyo brancolano nel buio. C’è un solo giornalista che è capace di spiegare cosa succede. È un tedesco, membro del Partito nazista, molto ben introdotto alla sua ambasciata, e che ha una conoscenza stranamente approfondita della politica giapponese. Dopo l’insurrezione dei giovani militari il giornalista scrive un lungo articolo, che viene pubblicato in Germania ed è commentato in tutto il mondo, al punto che la Pravda, a Mosca, lo ripubblica in russo. All’ambasciata tedesca si complimentano col giornalista: ormai è diventato una stella internazionale. Il giornalista ride, ma in cuor suo è fuori di sé; quella sera va a trovare un altro tedesco, un industriale, che abita in un lontano sobborgo di Tokyo. In casa, l’industriale tiene nascosta una radiotrasmittente capace di trasmettere fino in Russia. Il giornalista chiama Mosca e chiede se sono matti a pubblicare sulla Pravda i suoi articoli: per favore, che non capiti più in futuro, perché nessuno deve intravvedere anche il minimo collegamento tra lui e l’Unione Sovietica.
Superspia
Il giornalista si chiamava Richard Sorge, era iscritto al Partito comunista dal 1918, ed era a capo di una rete di spie piazzata a Tokyo dall’Armata Rossa, una rete di spie che ha influenzato il corso della Seconda guerra mondiale. L’iscrizione al Partito nazista faceva parte della sua copertura; aveva chiesto la tessera a Berlino nel 1933, mentre aspettava il rilascio del passaporto per il Giappone. A quell’epoca l’organizzazione nazista era tutt’altro che impeccabile: negli archivi di Berlino è stata ritrovata la scheda del dottor Richard Sorge, iscritto al partito nella sezione dei residenti all’estero, e come indirizzo c’è scritto soltanto: «Tokyo, Cina». Poi qualcuno ha cancellato «“Cina” a matita e ha corretto: “Giappone”».
L’ambasciata tedesca a Tokyo era stata felicissima dell’arrivo di questo compatriota, giornalista esperto di Estremo Oriente, allegro compagnone e grande bevitore. La capitale nipponica negli Anni Trenta era una strana città, governata da una polizia segreta paranoica che teneva sotto sorveglianza tutti gli stranieri, ma piena di ristoranti cinesi ed europei, birrerie tedesche con nomi come «L’Oro del Reno», dove le cameriere giapponesi si tingevano i capelli di biondo, finché la polizia non decise di vietare quest’usanza antipatriottica. Lì il dottor Sorge poteva essere visto fino a tarda notte a trincare con i suoi amici dell’ambasciata tedesca, che gli confidavano tutti i segreti e si facevano aiutare da lui a cifrare i dispacci in codice da mandare a Berlino. Si fidavano a tal punto che quando la Gestapo fece sapere all’ambasciatore Ott che nell’ambasciata forse c’era una talpa, l’ambasciatore non si confidò con nessuno, tranne una persona: il suo carissimo amico, il dottor Sorge.
Ma la superspia non era sola. Con lui c’erano tecnici europei addestrati a Mosca, come l’industriale che abitava nei sobborghi, che si chiamava Max Klausen e in realtà era un mago della radio, capace di costruirsi dal nulla una radioricevente portatile con pezzi comprati nei negozi di Tokyo, e di montarla e smontarla in dieci minuti. E c’erano i tanti giapponesi che avevano accettato di lavorare per Sorge e per il comunismo, tutti, senza eccezione, per convinzione ideale, nessuno per soldi, che erano pochi e incerti. Uomini piazzati a tutti i livelli della società giapponese, come il giornalista Hotsumi Ozaki, esperto di cose cinesi, consulente del governo e della potentissima Armata del Kwantung che occupava la Manciuria, ai confini con l’Unione Sovietica.
«Mai nessuno come lui»
Per otto anni Sorge, Ozaki e gli altri, muovendosi alla luce del sole nei circoli governativi e diplomatici, accumularono informazioni segrete e le spedirono a Mosca, che seppe in anticipo tutto quello che bolliva in pentola a Tokyo e a Berlino: dal patto anti-Comintern tra Germania e Giappone, all’aggressione hitleriana contro l’Unione Sovietica, all’attacco di Pearl Harbor.
Quando, alla fine, vennero arrestati, dopo che la Gestapo giapponese, la Tokko, aveva seguito le loro tracce per due anni, Sorge e Ozaki avevano influenzato concretamente l’esito della guerra. Eppure, incredibilmente, non avevano violato quasi nessuna legge: tutte le informazioni trasmesse a Mosca le avevano raccolte grazie ai loro contatti nel governo e nell’ambasciata nazista. Ne avevano violata una sola, una legge nuova che puniva con la morte chi avesse trasmesso informazioni di qualunque genere a un Paese comunista, e su quella base vennero condannati e impiccati, dopo un processo durato tre anni. Il procuratore Yoshikawa, che interrogò Sorge, disse poi: «In tutta la mia vita non ho mai incontrato un uomo di tale levatura».

La Stampa 31.8.17
Berliner, la grande musica è sempre più “touch”
Accordo tra l’Orchestra guidata da Sir Simon Rattle e Panasonic
di Bruno Ruffilli


«I Berliner Philharmoniker sono sempre stati all’avanguardia dell’evoluzione tecnologica - spiega Robert Zimmermann, managing director dell’orchestra berlinese -. Siamo stati tra i primi a incidere dischi e trasmettere i concerti in radio. E ora a distribuirli su Internet con la migliore qualità audio e video possibile». La prossima stagione sarà infatti disponibile in 4K e Hdr sui televisori compatibili, grazie a un accordo con Panasonic, che ha fornito le apparecchiature, guadagnandoci in cambio un’esclusiva di 120 giorni e conoscenze utili per migliorare il suono degli componenti hi-fi col marchio Technics. «Spingiamo al massimo la tecnologia, ma poi accordiamo i nostri prodotti a orecchio. Solo così possiamo trovare l’anima vera della musica», osserva Michiko Ogawa, direttore della sezione Home Entertainment dell’azienda giapponese ma anche pianista jazz di una certa fama in patria.
Piattaforma musicale
Si chiama Digital Concert Hall la piattaforma di distribuzione creata dalla Berliner Philharmoniker. «È nata otto anni fa e oggi conta oltre 900 mila iscritti, dei quali la metà in Germania, il resto soprattutto in Giappone e Stati Uniti. Chi si iscrive può scegliere tra un pass di 7 giorni, un mese o un anno», spiega Zimmermann. Il più costoso arriva a 149 euro, ma è come essere in prima fila nella sala pentagonale disegnata da Hans Scharoun, grazie alle otto telecamere che riprendono ogni movimento, ogni espressione dei musicisti.
Progettate per funzionare con poca luce, sono comandate a distanza, in una piccola sala di regia dove viene anche montato in diretta il video per lo streaming. Per l’audio servono da 15 a 60 microfoni, a seconda della complessità del brano e dell’organico orchestrale: sul palco possono esserci fino a cento persone, mentre i posti disponibili per il pubblico sono 2250.
Come funziona
Chi è iscritto alla Digital Concert Hall può scegliere tra oltre cinquecento concerti in archivio, oltre a quelli della stagione in corso (una quarantina). Si possono vedere in streaming sull’app per iPhone, Android e Apple Tv, ma pure su personal computer e tablet, ed eventualmente scaricare, ad esempio prima di un viaggio in aereo o quando non c’è connessione. Nell’intervallo, gli spettatori digitali possono seguire approfondimenti sull’autore, sul direttore d’orchestra o ascoltare i musicisti che raccontano aneddoti e curiosità sui loro strumenti.
«Siamo anche su YouTube, con brevi estratti dei concerti – racconta Zimmermann -. Ma la piattaforma è anche un aspetto importante della nostra comunicazione perché ci permette di raggiungere i nostri fan in oltre cento Paesi e abbassare l’età media degli appassionati che ci seguono. Poi siamo su Facebook, Twitter, Instagram, abbiamo una newsletter con quattrocento mila iscritti, usiamo le notifiche sullo smartphone, insomma sfruttiamo il digitale in ogni modo possibile».
Indipendenti
L’ensemble diretto da Sir Simon Rattle è l’esempio più famoso di come la tecnologia possa aiutare la diffusione della musica classica, ma non l’unico, tanto che iniziative analoghe si segnalano in tutto il mondo, Italia compresa.
A Berlino hanno scommesso sul futuro, e hanno vinto: «Dal punto di vista finanziario, la Digital Concert Hall era un esperimento, oggi si mantiene da sola, e questa è una grande vittoria. Ci ha permesso anche di aprire un’etichetta discografica che pubblica in esclusiva alcuni dei nostri concerti», spiega ancora Zimmerman. «Siamo orgogliosamente indipendenti, ma in futuro non escludiamo la possibilità di accordi con altri servizi di streaming, come Amazon, Netflix o Apple Music».

La Stampa 31.8.17
Le terme della Toscana antiche acque magiche dove il rientro è dolce
Da Saturnia a Sorano, luoghi ricchi di storia e di benessere
di Vincenzo Zaccagnino


La Toscana, come del resto buona parte dell’Italia è ricca di terme. Ma in una terra a tratti ancora selvaggia, aspra, come è la bassa Maremma acquistano un fascino particolare. Lasciata l’Aurelia a Montalto di Castro, affollata nei giorni di fine estate, abbiamo percorso la lunga provinciale verso Manciano, sulle tracce della Via Clodia dell’antica Roma. In un’ora abbiamo incontrato solo 4 auto. Silenzio, ampi panorami collinari, antichi paesi arroccati su speroni rocciosi, fitti boschi. Così siamo arrivati a Saturnia, maggior centro termale della zona. Le acque sono dominate da un pittoresco borgo, ancora circondato dalle mura romane, cui si accede attraverso una storica porta.
Saturnia, secondo alcuni è la più antica città italiana, l’Aurinia degli etruschi, poi ribattezzata dai romani. Le sue terme sono famose dai tempi dell’Impero. Infatti, vennero aperte nel 280 a.C. Sono caratterizzate da acque sulfuree con una temperatura di 37°. Nel Medioevo furono considerate stregate. Si racconta che vi apparisse il demonio nelle notti di Luna piena. Erano luoghi di riti e riunioni segrete di maghi e streghe. Su di esse scrisse nel 1118 papa Clemente III. Poi, nel 1454, i signori di quelle terre, gli Aldobrandeschi, restituirono le terme alla loro funzione come al tempo dei romani. Nel 700 il granduca di Firenze le raccomandò per la cura delle malattie della pelle. Ma la base delle strutture moderne risale al 1865, cui si aggiunse nel 1918 il primo albergo.
Le vasche naturali
Oggi esistono tre possibilità per godere dei vantaggi di queste acque. Lo si può fare a titolo gratuito, giorno e notte, raggiungendo le cascate che alimentano alcune vasche naturali vicino a un antico mulino. Un luogo magico. Si può trovar posto per la notte in B&B, agriturismo e alberghi, numerosi in zona. Costituiscono la soluzione abitativa, spesso economica, anche per chi intende sperimentare la seconda possibilità: frequentare il grande stabilimento termale, dotato di ampia piscina e servizi. E’ aperto dalle 9,30 alle 19. Si pagano 25 euro d’ingresso. La terza possibilità offre il comfort di un hotel a 5 stelle, dotato di una gigantesca Spa, ampie piscine termali, vasche con getti d’acqua, cascatelle, due ristoranti , di cui uno con una stella Michelin, campo da golf da 18 buche che si estende per 70 ettari. È lo Spa & Golf Resort Terme di Saturnia, fra i più celebrati della Maremma toscana.
Ma alla base ci sono sempre le acque, che prima di sgorgare nella piscina principale, percorrono lunghi canali sotterranei, che nascono alle pendici del Monte Amiata. Un processo ininterrotto iniziato 3000 anni fa. Non vanno infine dimenticati i piaceri della tavola, che ha una chiara impronta toscana con prodotti a chilometro zero. Lo chef Alessandro Bocci prepara, fra l’altro, i pici padellati del buttero e gli gnudi di ricotta e spinaci. Del resto questa zona di Maremma toscana è ricca di piacevoli occasioni gastronomiche. Ad esempio, nel vicino, pittoresco borgo di Montemerano apre le sue porte il ristorante Caino di Valeria Piccini, 2 stelle Michelin.
Ieri e oggi
Altre celebri terme maremmane sono quelle di Sorano, più ad Est di Saturnia. Gli impianti prevedono due ampie piscine e una terza, piccola, ma famosa. Si chiama Bagno dei Frati, è alimentata da due sorgenti che sgorgano dalla roccia ed era, nei secoli passati, il bagno dei religiosi di un vicino convento. Le terme di Sorano erano frequentate già nel Medioevo dai principi Aldebrandini e Orsini. Le acque, che sgorgano a 37,5 gradi, sono definite magnesiocalciche. I prezzi sono più bassi di quelli di Saturnia. Per i pernottamenti molti consigliano il vicino Residence Terme di Sorano. Il paese merita una visita, perché conserva intatta la sua atmosfera medioevale, caratterizzata dalle abitazioni scavate nella roccia. Non a caso Sorano viene chiamata la Matera della Toscana.
Molto più a Nord, relativamente vicino al mare ci sono le Terme di Venturina, nei pressi di Campiglia Marittima, dove è possibile godere del comfort di un moderno hotel a 4 stelle. Siamo però fuori dalla parte più selvaggia della Maremma, quella su cui incombe il Monte Amiata, celebrata nei suoi versi da Giosuè Carducci.

Repubblica 31.8.17
Libri di testo, che business l’inchiesta domani sul Venerdì

Dimenticate Camilleri e Montalbano, i veri bestseller d’Italia sono i libri di scuola. Come racconta Giacomo Papi sul Venerdì in edicola domani con Repubblica, ce ne sono alcuni che vendono milioni di copie ogni anno, facendo la fortuna sia degli autori che, soprattutto, delle case editrici.
È il caso, per esempio, dei testi di matematica scritti da Massimo Bergamini e Graziella Barozzi, compagni nella vita e nel lavoro. Leggendari sono anche l’Abbagnano (Filosofia), l’Amaldi (Fisica), la letteratura italiana di Guido Baldi...
Un mercato con caratteristiche uniche, che da solo vale un quarto dell’intera industria libraria, dove però chi compra (gli studenti e le loro famiglie) non ha scelta. Anche per questo i libri di scuola sono molto criticati: costosi, “pesanti”, obbligatori e spesso incomprensibili, come scrive Tomaso Montanari.
Così, mentre testi una volta mitizzati vengono fatti a pezzi, il Venerdì pubblica un viaggio tra editori orgogliosi e professori che rinunciano quasi a usare le antologie, come ha raccontato lo scrittore Eraldo Affinati che alla sua classe scalpitante ha offerto Jack London e Edgar Allan Poe.
E mentre gli autori difendono il proprio lavoro («Non avete idea di quanto sia difficile scrivere», dice Alberto Asor Rosa), nuove idee per appassionare gli studenti cominciano a farsi strada.

il manifesto 31.8.17
Cultura   
La contessa che incitava alla rivolta
Scaffale. «Lettere dal carcere. L’Irlanda verso la libertà», per Angelica editore : le missive che Constance Markievicz inviava dalla sua cella, senza perdere la sua verve rivoluzionaria e lottando per i lavoratori
di Enrico Terrinoni


Era l’agosto del 1913, e a Dublino iniziava la più grande serrata della storia d’Irlanda, una lotta strenua e coraggiosa da parte dei lavoratori, in grado di paralizzare le strade della capitale irlandese fino al febbraio 1914. Dublino era una città divisa tra una aristocrazia locale filobritannica, una giovane borghesia renitente a discostarsi dallo statu quo, e una ampia fascia di popolazione fatta di proletari sfruttati e di disoccupati che vivevano nei famosi tenements, palazzoni georgiani in cui si assiepavano famiglie numerose spesso stipate in una sola stanza fatiscente.
In queste condizioni operò il sindacalista Jim Larkin, a capo della Irish Transport and General Workers Union. Fu lui a indire la serrata del 1913 contro l’arcipadrone, William Martin Murphy, proprietario di giornali e grandi magazzini, il quale voleva imporre ai suoi impiegati di rinunciare all’appartenenza sindacale.
UNA DELLE FIGURE che più mostrarono appoggio e supporto ai lavoratori fu una donna che, tramite il matrimonio con un ricco artista polacco noto a Parigi come «Conte Markievicz» (nonostante i dubbi sulla validità del titolo nobiliare), era da tutti a Dublino conosciuta come la Contessa Markievicz.
Il 31 di agosto del 1913, quando le forze dell’ordine vietarono un comizio di Larkin, lei e il marito lo aiutarono a travestirsi per poi sbucare da una delle finestre dei grandi magazzini appartenenti all’arci-nemico e arringare la folla. Il raduno fu sciolto con la violenza, e Larkin dovette darsi alla macchia.
Esce in queste settimane, per la collana «I rinati» di Angelica editore, un libro, Lettere dal carcere. L’Irlanda verso la libertà (traduzione di Lucia Angelica Salaris, pp. 230, euro 15,00) che raccoglie le missive inviate dalla contessa da diverse istituzioni di detenzione, in Irlanda e in Inghilterra, negli anni successivi all’Insurrezione di Dublino del 1916.
QUESTO PREZIOSO VOLUME vede un’accurata introduzione di Loredana Salis e una postfazione di Cristina Nadotti che assieme ricompongono con perizia e passione la parabola di una grande donna impegnata contemporaneamente nella lotta di un proletariato a cui, sulla carta, non poteva appartenere, e a quella per l’emancipazione dal giogo coloniale di una terra, l’Irlanda, che è tuttora divisa e in parte occupata.
Constance Markievicz, nata Gore-Booth e figlia del famoso esploratore, era stata infatti anche una delle figure chiave della rivolta da cui prende le mosse l’Irlanda moderna, schierandosi nei ranghi dell’Irish Citizen Army di James Connolly, una formazione armata nata in difesa dei lavoratori e delle lavoratrici di Dublino, e che poi fu un asse portante della rivolta assieme agli Irish Volunteers di Patrick Pearse.
Le lettere coprono un periodo che va dall’insurrezione agli ultimi mesi di vita della rivoluzionaria, duramente segnati dalla morte della sorella minore, Eva Goore-Booth, pure lei suffragetta e socialista, e nota scrittrice per il teatro, grande passione anche di Constance. Tra questi due poli, i periodi di prigionia in Irlanda e in svariate carceri inglesi, quello dell’internamento subìto dopo la Guerra Civile (1921-23) e poi quelle vergate da un fortunato ma sofferto soggiorno statunitense nel 1922, alla ricerca di fondi per finanziare le attività dello Sinn Féin.
DONNA INDOMITA, alla fine della guerra d’indipendenza, eletta in parlamento si rifiutò di giurare fedeltà alla Regina come prevedeva lo status di Free State concesso agli irlandesi in seguito al Trattato di Pace del 1921. Alla fine della Guerra Civile seguita all’epocale spaccatura tra chi accettò e condizioni inglesi e chi, come la Markievicz, vi si oppose, fu internata e partecipò persino a uno sciopero della fame. Appartiene a questo periodo una lettera tra le più struggenti inviate alla cara sorella, in cui la Contessa: «ho incominciato lo sciopero della fame appena arrestata: alla stazione di polizia mi hanno offerto del tè e proprio allora ho preso la mia decisione. Ho continuato solo per tre giorni… Credo che me ne sarei andata molto presto… Una delle ragazze sta molto male: è quasi morta e ha interrotto lo sciopero giusto in tempo… Qui con me ci sono tre ragazzine molto simpatiche, e siamo una brigata molto allegra. Il luogo è ampio e tetro, infestato dai fantasmi di poveri dal volto infranto. Intorno svolazzano gabbiani e corvi. Oggi ho visto un corvo variopinto: era così bizzarro».
Questo il tenore di molte lettere, un equilibrio sottile tra disperazione e forza di volontà, la volontà di mantenere l’ottimismo in situazioni estreme.
Unico peccato, i tanti omissis imposti dal censore nelle lettere dalle carceri inglesi, che ci consentono solo di immaginare il fitto reticolo di relazioni tra le diverse classi che si unirono alla lotta per la liberazione dell’Irlanda, e di fili retti e orchestrati da una memorabile rivoluzionaria capace di anteporre al proprio bene personale, l’interesse della causa e di chi per questa fu pronto a morire.

il manifesto 31.8.17
Addio al partigiano Zara
Novecento. Se ne va a 96 anni Giovanni Zaretti, fu a capo dell'insurrezione di Villadossola l’8 novembre, che segnò l’inizio della Resistenza nella valle
Militari svizzeri e partigiani ossolani alla frontiera Iselle
di Marco Revelli


Ci sono uomini che ricapitolano, nelle proprie esistenze, la Storia, con la maiuscola. Che hanno avuto in sorte di traversare un secolo incrociandone gli snodi decisivi, trovandosi sempre nel fuoco degli eventi, e dovendo prendere, a ogni snodo, una decisione. Che spesso era quella giusta. Giovanni Zaretti era uno di questi uomini. Se n’è andato a 96 anni, il partigiano Zara, lasciandoci una storia che è una icona potentissima del Novecento. Un filo rosso lungo un secolo.
«DEVI AVER PAZIENZA, ma queste gambe hanno fatto 3500 chilometri!», così mi aveva detto la prima volta che lo incontrai mentre scendeva lentamente dall’automobile per andare nel centro di Domodossola, a bere un caffè. E poi raccontava della Russia e della Repubblica dell’Ossola, ridendosela di gusto, con la stupefazione di un bambino. Quel bambino, figlio di un operaio ossolano fuoriuscito per sfuggire alle persecuzioni dei fascisti, era cresciuto a Parigi, aveva fatto il liceo classico e si era iscritto alla Jeunesse Communiste, ospitando nella sua cameretta dirigenti fuoriusciti come Amendola o Grieco. Poi era tornato in Italia e non era più potuto venirsene via, essendo giudicato abile e arruolato.
COSÌ, QUANDO SCOPPIA la guerra, viene mandato prima sulla frontiera francese, e poi in Russia. «Fino a Rykovo siamo arrivati con i camion, poi tutto a piedi, sempre a piedi – anche perché, prima che venisse il gelo a cinquanta sottozero, c’era il fango, e i camion si infangavano e non andavano più. Fino al Don. Stavo nel plotone esploratori del battaglione. In Russia, dove tutti si congelavano, io mi beccai la malaria sul Don, pensa un po’».
Poi il ritorno in Italia – dove, grazie alla malaria, torna sull’ultimo treno disponibile – l’8 settembre, il rientro a Ossola, l’adesione al Pci, e poi la lotta partigiana. Giovanni prese il nome di Zara, e fu a capo di una banda che diede vita all’insurrezione di Villadossola l’8 novembre, che segnò l’inizio della Resistenza partigiana nella valle; poi, da maggio del ’44, fu commissario politico nella brigata Garibaldi del comandante Barbis, e allora l’attacco ai tedeschi al ponte di Ribesca, e la calata su Domodossola che inaugurò la meravigliosa impresa della Repubblica dell’Ossola, quei quaranta giorni di libertà che ancora dopo più di settant’anni rifulgono di bellezza. E poi la ritirata in valle Antrona, e la Svizzera, e il 25 aprile a Milano, e Bella ciao.
DOPO LA GUERRA la militanza nel partito, l’attentato a Togliatti di cui accompagna la convalescenza, la lunga esperienza nel sindacato dei chimici e poi nella Fiom, il suo libro – il primo – sulla Repubblica dell’Ossola. Ma come fare a condensare in così poche righe la densità di cose e di eventi che costellarono la sua vita? Mi ci vollero molte pagine per farlo, quando scrissi Eravamo come voi, dove la storia di Zara era non a caso la più lunga e articolata di tutte le storie partigiane che raccontavo.
ERA IMPOSSIBILE non voler bene a Giovanni Zaretti. Per la sua forza, la sua autenticità, la sua generosità. E per la sua risata, quando raccontava, quel riso che ti rendeva presenti e vive tutte le sue mille e mille storie, che ascoltavi per ore, immergendoti in un ethos che fatichi a incontrare, in questi tempi così mutati, tempi che Zara non riusciva più a riconoscere. Ma che non rinunciava a voler comprendere, e a immaginarne la trasformazione. Perché uomini come lui ci dicono questo, è questo ci lasciano in eredità: sapere che un tempo non è mai chiuso su se stesso, e che tocca a noi tenere gli occhi aperti, per vedere nuovi inneschi, e nuovi inizi.
I funerali di Giovanni Zaretti si svolgeranno oggi, secondo il rito civile, al cimitero di Villadossola, alle 14,30

il manifesto 31.8.17
La nuova libertà di fotografare i testi
Patrimonio. In vigore la legge che decreta la riproduzione gratuita per fini culturali, in archivi e biblioteche
di Mirco Modolo


Chi consulta un documento d’archivio o un volume a stampa in biblioteca non più coperto da diritto d’autore, sarà ora libero di riprodurlo analogamente a quanto accade nei musei pubblici dal 2014, e in linea con le policy di un numero crescente di istituti culturali in tutto il mondo. Si scardinano così veti anacronistici, gli stessi che finora hanno obbligato l’utente a rivolgersi a ditte private, con inutile aggravio per gli studiosi in termini di tempo e denaro. Addio alle tariffe sull’uso del mezzo personale, un vezzo tutto italiano, che infatti non sembra trovare confronti nei regolamenti di archivi e biblioteche del resto del mondo (perché infatti richiedere tariffe sull’uso di uno strumento personale che, al pari della matita, non comporta alcun onere di spesa all’amministrazione?).
Il 2 agosto 2017 il Senato ha infatti definitivamente approvato la Legge annuale per il mercato e la concorrenza (n. 124/2017), che, tra le altre cose, modifica l’art. 108 del Codice dei Beni Culturali, sancendo la liberalizzazione delle riproduzioni digitali con mezzo proprio in biblioteche e archivi pubblici per finalità culturali (art. 1, c. 171). A seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, le nuove norme entreranno direttamente in vigore martedì 29 agosto: a partire da questa data gli utenti di archivi e biblioteche potranno liberamente scattare fotografie con la propria fotocamera, smartphone (senza flash, stativi o treppiedi). Fino ad oggi la fotografia con mezzo proprio in archivi e biblioteche era vietata agli studiosi per garantire margini di profitto ai provati che gestiscono in esclusiva il servizio di fotoriproduzione per conto degli istituti oppure, quando era consentita, era vincolata al pagamento di una tariffa e di una richiesta di autorizzazione preventiva. Con l’entrata in vigore della legge saranno invece gratuite ed esenti da autorizzazione le riproduzioni di beni bibliografici e dei beni archivistici eseguite per finalità culturali, nel rispetto del diritto d’autore e della riservatezza dei dati sensibili.
Cade anche l’assurdo limite al numero di scatti effettuati con mezzo proprio, talora imposto in qualche istituto, che non sembra trovare giustificazione plausibile in presenza di manoscritti e volumi storici non più coperti da diritto d’autore. Chi dovrà spostarsi da un estremo all’altro d’Italia per raggiungere una biblioteca o un archivio, potrà ora ridurre al minimo tempi e costi di permanenza fuori sede grazie a quelle fotografie che lo aiuteranno a trascrivere in qualunque momento il testo del manoscritto oggetto di studio. Saremo infine liberi di fotografare non più solo per gli scopi strettamente privati e “personali” richiamati dai moduli di autorizzazione sinora richiesti, ma anche di diffondere immagini di fonti documentarie, agevolando forme di valorizzazione, condivisione e scambio di immagini tra studiosi, anche su piattaforme online.
Già nell’estate del 2014, eravamo a un passo da questa conquista civile, quando cioè il decreto legge Art Bonus aveva reso libera la riproduzione dei beni culturali per fini diversi dal lucro, salvo poi escludere i beni bibliografici ed archivistici con un emendamento ad hoc dell’ultimo minuto, pensato per salvare quelle entrate, assai modeste, assicurate agli istituti dalle tariffe sulle fotografie. In reazione a questo inaspettato passo indietro si è costituito, per iniziativa di alcuni studiosi, il movimento di idee “Fotografie libere per i Beni Culturali”, che oltre a raccogliere cinquemila firme tra gli utenti di archivi e biblioteche ha formulato una puntuale proposta di modifica del codice dei Beni Culturali che, dopo un fruttuoso confronto con il Ministero, ha in seguito ispirato il testo normativo confluito nel testo di legge sulla concorrenza.
In una prospettiva di “democrazia della conoscenza”, facilitazioni di questo genere possono dilatare l’orizzonte della ricerca, agevolando forme di cooperazione tra studiosi, ma soprattutto avvantaggiando chi, a causa di attività concomitanti, non può dedicare il tempo che desidera allo studio in archivio o biblioteca. E ancor maggiori saranno i benefici se verranno tradotte in circolare le linee guida contenute nella mozione del Consiglio Superiore Mibact del 16 maggio 2016, come richiesto da numerose associazioni di archivisti e di storici: nella mozione, tra gli altri punti, si chiede di poter pubblicare immagini di beni culturali in libri, cataloghi o riviste scientifiche mediante semplice comunicazione preventiva in via telematica in luogo della formale richiesta di autorizzazione su marca da bollo.
La liberalizzazione è una conquista civile che in realtà non fa altro che portare a compimento quella precedente, introdotta dal Art Bonus e che tre anni orsono aveva liberalizzato lo scatto in tutti i musei pubblici. Essa riafferma il fondamentale ruolo svolto da archivi e biblioteche, che non sono semplicemente chiamati a garantire l’attività di ricerca, ma a promuoverla in una prospettiva quindi attiva e dinamica, che ci viene direttamente suggerita dalla stessa costituzione: la repubblica promuove infatti lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica (art. 9) che è da considerarsi libera per chiunque (art. 33). Al di là del vincolo costituzionale, uscirà rafforzato ben altro tipo di vincolo, quello di carattere “fiduciario” che dovrebbe sempre unire cittadini e istituzioni: nel rendere lecito, e anzi nel promuovere ciò che è stato sinora interdetto quasi fosse un “furto”, una rinnovata alleanza può infatti nascere tra gli istituti, che potranno ancor meglio interpretare il proprio ruolo di servizio per i ricercatori, e l’utenza, che si vedrà ampliate le possibilità fruizione digitale delle fonti documentarie. Tutto ciò non potrà che giovare all’immagine, oggi quantomai appannata, di archivi e biblioteche, ma gioverà davvero se questo traguardo diventerà il punto di partenza per una rinnovata attenzione da parte di politica e amministrazione nei confronti di questo settore strategico.
La conoscenza e il patrimonio culturale sono da considerarsi beni comuni, si sente spesso ripetere. Se però vogliamo sottrarre questo termine dagli abusi retorici che rischiano di svuotarne il senso più concreto, occorre superare la logica burocratica e proprietaria tradizionale che fa leva sulla necessità di un ferreo controllo pubblico sotteso all’autorizzazione e alla tariffa per la riproduzione. La macchina burocratica che governa la riproduzione del bene culturale e l’accento posto sulla proprietà dello Stato con l’ansia da controllo che ne deriva, rischiano, contrariamente alle migliori intenzioni che ne possono essere alla base, di far percepire la proprietà pubblica sempre più come res nullius e sempre meno come risorsa collettiva da valorizzare al massimo attraverso le straordinarie potenzialità di disseminazione del sapere che il digitale oggi consente. Con questa rinnovata consapevolezza oggi siamo in grado di ridimensionare in parte i timori che erano stati espressi a suo tempo da Walter Benjamin, il quale nella riproducibilità tecnica delle opere d’arte intravedeva il rischio di sminuire l’aura di autenticità che circonfonde l’originale. La tecnologia digitale fa infatti ormai parte integrante dello strumentario dello storico: da poco lo si è compreso in ambito museale, ora è arrivato il turno di archivi e biblioteche.
Un’ultima considerazione: all’estero la libera riproduzione, per quanto sia una pratica sempre più diffusa, è più una buona prassi legata alla discrezionalità dei singoli istituti. In Italia il nuovo provvedimento ha invece il merito, per legge, di liberalizzare le fotografie in tutti gli archivi e le biblioteche della pubblica amministrazione, rendendo il codice dei Beni Culturali meglio aderente al dettato costituzionale e aggiornandolo rispetto alle esigenze della ricerca nell’era del digitale. Con una simile innovazione possiamo tornare a proporci nel panorama internazionale come paradigma all’avanguardia: non più quindi solo in virtù della nostra illustre e secolare tradizione normativa in materia di tutela, ma anche per l’innovazione culturale che siamo ancora in grado di produrre.
* Fotografie libere per i Beni Culturali

il manifesto 31.8.17
Il fantasma di Beatrice Cenci torna a Castel sant’Angelo
Narrazioni. La fosca storia della nobildonna romana, condannata alla decapitazione nel 1599 per aver aiutato i fratelli ad assassinare il padre, raccontata da Michela Murgia


Aveva 22 anni Beatrice Cenci quando fu giustiziata per parricidio sulla pubblica piazza di Castel sant’Angelo. Fra gli spettatori della sua decapitazione c’era (così vuole la tradizione) anche Caravaggio, oltre a Orazio Gentileschi accompagnato dalla figlia bambina Artemisia. Era l’11 settembre del 1599 e quel momento sarebbe stato rivissuto nei secoli a venire, in cronache appassionate, romanzi, pièce teatrali, film. Domani, alle ore 21, nell’ambito della rassegna Sere d’Arte. Arte, Musica e Spettacoli a Castel Sant’Angelo (rassegna a cura di Anna Selvi, con la collaborazione di Davide Latella) si terrà il primo appuntamento del ciclo di conversazioni curate dal critico Antonio Audino, dal titolo Prigionieri illustri a Castello. Sarà la scrittrice Michela Murgia a raccontare al pubblico una delle vicende più fosche del Cinquecento romano, ossia la storia di Beatrice Cenci che, dopo aver partecipato all’assassinio del padre Francesco, uomo dissoluto e brutale, fu incarcerata a Castel Sant’Angelo e sottoposta ad atroci torture fino al giorno della sua condanna a morte. Dopo l’incontro sarà possibile partecipare alla visita guidata notturna delle storiche prigioni. Nei tanti secoli della sua esistenza, infatti, Castel Sant’Angelo fu anche un duro luogo di detenzione.
Beatrice, rampolla della nobiltà romana, era sottoposta dal padre a ogni forma di angheria, compresi gli abusi sessuali e la reclusione della ragazza nella Rocca di Petrella del Salto (oberato dai debiti, in fuga dall giustizia, il genitore pensava di risolvere in questo modo il problema di doverle dare una dote alla figlia, segregandola e negandole incontri per un eventuale matrimonio). Esasperata dalla sua violenza, Beatrice partecipò insieme alla matrigna Lucrezia e ai fratelli Giacomo e Bernardo alla congiura che porterà alla trucidazione del padre