mercoledì 30 agosto 2017

Corriere 30.8.17
I jihadisti colpiscono invano
di Emanuele Severino


È ovvio che il mondo aggredito dal terrorismo jihadista si difenda e difenda i suoi valori con i mezzi che abbiano la maggior efficacia immediata possibile — i valori della democrazia, del libero mercato, della cristianità. Meno ovvio che la difesa dalla violenza sia guidata dalla convinzione che quei valori siano destinati a rimanere per sempre sulla scena della storia. Una convinzione che, rispetto ai propri valori, viene condivisa anche dal mondo islamico e dal terrorismo che a esso ritiene di ispirarsi. Ma la scena della storia è sempre stata diversa: nuovi protagonisti hanno cacciato i vecchi. Quanto ai nuovi, è vero che le statistiche parlano di due miliardi di «cristiani» oggi esistenti sulla Terra e di un numero quasi uguale di «musulmani» e che se ne prevede la crescita. Ma in che consiste la fede di costoro? Quanto è adeguato chiamarli così? E d’altra parte da gran tempo la cultura cristiana e islamica fa sentire la sua voce. Non è il «nuovo».
Il protagonista autenticamente nuovo sulla scena della storia è il crescente sostegno della globalizzazione economica da parte dell’apparato tecno-scientifico planetario. Il capitalismo ritiene che con questo sostegno la propria salute resti avvantaggiata. E sta tentando di controllare la tecnica. Si illude (come altre volte ho mostrato anche su queste colonne). Ma qui intendo rilevare che questo nuovo protagonista deve imporsi su un insieme di resistenze. Sono costituite innanzitutto dai vecchi protagonisti. Ma anche dalle masse umane dei Paesi poveri, che subiscono un incremento dell’emarginazione a cui da secoli sono sottoposte in seguito al prevalere della civiltà europea. E, ancora, dalle classi sociali che negli stessi Paesi ricchi (dove il nuovo protagonista ha le sue radici) rimangono ancora più emarginate che in passato. Il terrorismo «islamico» si distribuisce nelle diverse forme di resistenza ora indicate. Considerazioni, queste, che non hanno alcun intento moralistico: chi è più potente prevale sui meno potenti. Così ha fatto l’Occidente nei secoli passati e anzi sin dall’Impero romano; così ha fatto il mondo musulmano espandendosi nel secolo VIII, con gli arabi, fino a Parigi e, con gli ottomani, nel XVI-XVII secolo fino a Vienna. E chi è meno potente reagisce come può.
La civiltà della tecnica ha una configurazione estremamente complessa. Tra i fattori di questa complessità, il mondo femminile. Le donne si dividono tra quelle che appartengono alle dimensioni sociali emarginate e quelle che sono riuscite o stanno riuscendo a emanciparsi dalla condizione di subalternità rispetto al maschio. Il processo di emancipazione femminile si svolge parallelamente al processo dove sulla scena della storia si fa avanti il nuovo protagonismo della tecno-scienza. Quel processo è un aspetto di questo. Nella produzione della ricchezza e della potenza è infatti irrazionale (contrario ai paradigmi della tecno-scienza) non avvalersi della donna — una riserva di competenze possibili che costituisce circa la metà del genere umano. Le resistenze incontrate dal nuovo protagonista sono pertanto le stesse di quelle incontrate dalla donna emancipata o in via di emancipazione.
Il femminicidio è sempre esistito, ma oggi si configura come un aspetto della resistenza al nuovo protagonismo globale. Quando il maschio si sente emarginato, rifiutato dalla donna in qualche modo emancipata, giunge a ucciderla quando non ha altro mezzo per far valere ciò che egli si aspettava dalla convivenza. Al nesso tra il nuovo protagonista tecno-economico della scena storica e l’emancipazione femminile corrisponde il nesso tra le forme estreme di resistenza alla civiltà della tecnica, quali il terrorismo «islamico», e le forme estreme di difesa della supremazia maschile, quali il femminicidio. Non è un caso che in uno degli episodi più recenti della violenza jihadista gli umani che il terrorista intendeva uccidere fossero le donne. In questo caso la donna rappresenta un duplice bersaglio. Lo stato d’animo del giovane terrorista che si sente emarginato dalla società sempre più complessa in cui è voluto entrare, e che non può nemmeno vantare l’appartenenza all’etnia di tanti giovani emarginati come lui, lo porta a vendicarsi in modo analogo a quello del maschio che si trova respinto dalla donna con la quale intende vivere. E il terrorista si trova avvantaggiato sia da ciò che gli si presenta come possibilità, che la sua vendetta abbia un premio divino nell’aldilà, sia dall’apparente irresistibilità dell’ondata migratoria verso l’Europa dal mondo musulmano.
La storia è un continuo prevalere dei più forti, che prima e dopo la vittoria devono affrontare la resistenza dei vinti e la pressione di chi intende farsi avanti come nuova forza vincente. A combattersi non sono soltanto gruppi geograficamente lontani: la lotta è spesso tanto più violenta quanto più essi sono vicini. Non esiste popolo europeo che anche in tempi recenti non sia stato sconvolto dalla guerra civile (l’antica Grecia ha dato l’esempio). L’Europa è la fonte della forma più alta di civiltà e di cultura ed è insieme il luogo dove più che altrove le nazioni si sono dilaniate a vicenda (già questo non fa sospettare che in tale cultura, grandissima, si nasconda il seme della forma estrema di violenza?).
Muovendo verso il passato ci si imbatte ad esempio nelle rivoluzioni moderne — forme di resistenza vincente su chi era il più forte —, nelle guerre di religione dell’Europa moderna, e prima ancora nelle invasioni barbariche. Facendo grandi salti all’indietro ci si imbatte nell’affermazione del patriarcato sul matriarcato (ossia nel fenomeno fondamentale contro cui si rivolge l’emancipazione femminile del nostro tempo), nell’uccisione degli antenati, il parricidio archetipico. Non sono fenomeni marginali: stanno al centro della storia umana. Ciò che chiamiamo «uomo» (maschio e femmina) è il luogo dove è cresciuta la violenza estrema. Il terrorismo che dice di ispirarsi all’Islam non è una stranezza che sia improvvisamente comparsa in un giardino di delizie.
Andando verso il più lontano passato si giunge all’inizio decisivo della violenza. Per abitare la Terra l’uomo deve vincere una resistenza immane — quella che sino a quel momento gli ha impedito di vivere. Egli sente che il Protagonista supremo sulla scena del mondo è questa scena stessa, che si estende a ogni platea, a ogni anfiteatro e che quindi impedisce a qualsiasi spettatore di frequentarli. Volendoli frequentare l’uomo vuol vivere. Attorno, sopra, sotto di lui, una Barriera glielo impedisce. È l’ostilità di ciò che verrà poi chiamato «natura», alla quale appartengono anche «gli altri», ossia coloro che vogliono a loro volta incominciare a vivere — la Barriera che all’inizio l’uomo sente come il demonico e il divino, come la potenza suprema. Essa è il prototipo di tutte le potenze successive, su fino alla potenza attuale della gestione tecno-economica del Pianeta; fino all’ultimo Dio.
All’inizio il primo Dio uccide l’uomo. Poi l’uomo riesce a vivere uccidendo il Dio. L’antica lingua greca chiama bios la vita e bia la violenza. Il serpente suggerisce al maschio e alla femmina di mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male. Mangiate, così sarete come dèi ( eritis sicut dii ). Ma se mangiando quel frutto si è come dèi, allora mangiare quel frutto è mangiare Dio, cioè ucciderlo — giacché il Dio coincide con il suo essere l’unico detentore della potenza, e quindi muore se esistono altri come lui.
Adamo fallisce, ma oggi si percepisce che il vecchio Dio è morto perché la dominazione tecnologica del mondo l’ha sostituito. Vado mostrando da tempo che contro quest’ultimo Dio le grandi forze della tradizione sono destinate a soccombere. A maggior ragione sono inevitabilmente soccombenti i loro sottoprodotti. Il terrorismo jihadista è un sottoprodotto dell’Islam, come la mafia è un sottoprodotto del capitalismo. Destinati a soccombere anche se a lungo continueranno a uccidere. «Artigianali» — sebbene terribili per chi ne è colpito — questi omicidi: non potranno riuscire a intaccare il dominio planetario della tecnica.
Nemmeno l’islamizzazione dell’Europa dovuta all’immigrazione potrà intaccarlo (e con ciò resta esclusa una delle tesi principali di Bernard Lewis, il primo teorico dello «scontro di civiltà). Per intaccarlo bisogna infatti avere potenza; ma la potenza vincente, oggi, è quella della tecno-scienza e della civiltà che sulla base di essa va formandosi. Per intaccare il suo dominio bisogna servirsi di essa. Ma tutti coloro che intendono servirsene (dunque non solo l’Islam, ma anche capitalismo, democrazia, cristianità, eccetera) sono destinati a diventare suoi servitori, cioè a volere la sua potenza e ad abbandonare e vanificare i loro intenti iniziali. È questa volontà suicida che anche la volontà di islamizzare l’Europa è destinata a diventare. Ciò che una buona volta va pensato è questa destinazione.

il manifesto 30.8.17
La coscienza sporca dell’Europa
di Raffaele K. Salinari


Gli accordi di Parigi sulla gestione dei flussi migratori nei Paesi del nord Africa sancisce una nuova cornice geopolitica. Nell’ambito del lungo periodo della Guerra fredda, in cui gli Stati africani ottennero o si conquistarono l’indipendenza dal giogo coloniale, nacque la cosiddetta Cooperazione allo sviluppo, uno strumento geopolico sostanzialmente volto a coprire, con la retorica sviluppista, la necessità dei due blocchi di spartirsi le risorse africane, e non solo, imponendo, al posto delle tanto decantate democrazie, i «loro figli di puttana», secondo la celebre definizione che Roosevelt diede del dittatore nicaraguense Somoza. Un caso tra tutti, il più emblematico perché poi riprodotto serialmente con la copertura ed il sostegno sia dell’Est sia dell’Ovest, è quello del Congo, in cui l’assassinio del giovane ed indipendentista Primo ministro Lumumba segnò l’avvento della lunga e sanguinaria cleptocrazia di Mobutu, inaugurando i termini reali del paradigma di «sviluppo» che si voleva imporre.
Eppure, in quel contesto, proprio per affermare la supremazia del modello occidentale contro quello del socialismo reale sovietico, e viceversa, si arrivò ad investire nel sostegno alle popolazioni africane sino allo 0,5% del Pil, con risultati certo deludenti dati gli obiettivi chiaramente neocoloniali, ma anche con la creazione ed il sostegno, in special modo da parte delle Ong di sviluppo, allora ci si definiva così, di una società civile africana consapevole del proprio ruolo nel Continente e nel mondo. Basti ricordare l’altezza di leader come Kenyatta, Nyerere, Sankarà, e dei dibattiti che allora si confrontavano sulle loro idee, come pure analizzare le cifre, irrisorie, degli spostamenti di popolazione africana nei decenni dagli anni Sessanta agli Ottanta. Poi, con il crollo del muro di Berlino, l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo venne meno perché il nemico sovietico era stato sconfitto e non c’era più bisogno di convincere ma semplicemente di vincere.
Si entra così nella fase in cui nasce il Wto contro l’Onu, ed il libero commercio mondiale diviene il nuovo paradigma universale. Le conseguenze delle disparità tra ricchi e poveri, tra inclusi ed esclusi, cominciano ad acuirsi ed i flussi di popolazioni ad aumentare. Si arriva poi ai giorni nostri in cui il bioliberismo, cioè la biopolitica come forma costitutiva del liberismo, dopo aver normalizzato i movimenti sociali e messo in crisi le esperienze alternative latino americane, cerca di dare la spallata finale alle idee socialiste acuendo una divisione internazionale del lavoro di enormi proporzioni. È questo che sta condannando l’Africa, non a caso il continente con maggiori diseguaglianze e assenza di Diritti umani, ad essere sempre più un fornitore netto di materie prime strategiche, dal coltan al petrolio, dagli esseri umani al legno. Qui giocano oramai indisturbati, al riparo da movimenti sociali di una qualche forza, gli Usa, la Cina, quel che resta dell’Europa e le elites locali.
Ecco allora che a Parigi, Francia, Italia, Germania, cercano di riprendersi una fetta di influenza imponendo politiche para-coloniali e paramilitari a governi inesistenti come quello libico, o lasciando indisturbati quelli «amici» che non hanno nessuna intenzione di rispettare i Diritti umani, ma solo di assicurarsi il mantenimento di quel potere che hanno conquistato a suon di repressone e mazzette occidentali. Il solo evidenziare che gli accordi di Parigi siano stati in primis gestiti dai ministri degli Interni e che la cooperazione allo sviluppo, o quello che ne rimane, sia una componente chiaramente accessoria e residuale, inaugura una fase in cui gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, approvati all’unanimità dalle Nazioni unite nell’ormai lontano 2015, e che prevedevano l’impegno dello 0,7% del Pil a sostegno di target quali l’eradicazione della povertà, il sostegno ai Diritti umani, la parità di genere, l’accesso all’acqua per tutti, alla salute e all’istruzione in un quadro globale di rispetto dell’ambiente, non vengono neppure nominati. Una regressione culturale e politica grave dunque, in cui gli interessi di una parte, quella già ricca della popolazione europea ma anche africana, vengono fatti prevalere su quella, maggioritaria, destinata a restare fuori dal supermercato globale o, alla meglio, ad entrarci solo come merce.
Siamo in realtà in una lunga campagna elettorale europea in cui Stati e governi in difficoltà crescente sperano di riacquistare crediti imponendo muri sempre più distanti, affinché i problemi legati alla migrazione, all’integrazione, ai cambiamenti culturali e climatici, all’esclusione sciale, restino fuori dalla percezione dell’opinione pubblica o vengano attribuiti all’invasione dei migranti. Eppure, in queste giornate calde, devastate da incendi e da scarsità di acqua, dovrebbe essere chiaro che tutto è collegato e che soprattutto, respingendo i profughi economici, oltre a quelli politici, non si fa che mettere la cenere sotto un tappeto oramai logoro e sporco, sporco come le coscienza dei leader che si stringono le mani creando così ponti di interessi che sanno essere in contrasto anche tra loro, perché così facendo si brucia e consuma, oltre all’ambiente, un’altra risorsa cui non si può rinunciare: la solidarietà umana.
* L’autore è Presidente Terre des Hommes

Corriere 30.8.17
La giusta mediazione nel gestire l’accoglienza
di Paolo Franchi


Qualche settimana fa, in un consesso amicale di signore e signori che generalmente si arrabbiano al solo sentir nominare Silvio Berlusconi, qualcuno ha chiesto a chi scrive una previsione sul dopo elezioni: davvero siamo condannati all’ingovernabilità? Beh, ho buttato là un po’ sul serio e molto sul faceto, non è detto. Magari, numeri permettendo, si potrebbe anche arrivare a un governo guidato da Marco Minniti, e sorretto dal Pd e dal centrodestra. La risposta è stata un coro di «magari», «fosse vero», «speriamo». Sorprendente? Non troppo.
Questo modesto episodio mi è tornato alla mente leggendo l’editoriale di Paolo Mieli («I migranti e la svolta ignorata») sul Corriere del 24 agosto. Sì, ha perfettamente ragione Mieli, sugli sbarchi, e non solo, una svolta Minniti la ha impressa davvero, contribuendo in misura determinante all’accordo raggiunto lunedì a Parigi con Germania, Francia e Spagna, di cui Franco Venturini ( Corriere , 29 agosto) ha evidenziato gli aspetti positivi e le zone d’ombra. Ma, per restare all’Italia, un simile radicale cambiamento di linea non sarebbe stato neanche immaginabile se contemporaneamente non ci fosse stato un mutamento politico e culturale ancora più profondo nel Paese e in primo luogo, visto che il centrodestra (non solo Matteo Salvini) si è sempre espresso per politiche restrittive, e i Cinque Stelle non sono da meno, nel Pd.
Addio rivendicazioni orgogliose e un po’ retoriche, in faccia all’Europa, della nostra politica e della nostra (presunta) indole umanitaria, addio apologie dell’accoglienza, addio italiani brava gente. Tutte queste, ha compendiato bene Il Foglio , convinto sostenitore della nuova linea del Pd, sono espressioni di un «estremismo umanitario» che bisogna lasciarsi subito alle spalle: la vera dialettica è tra chi vuole e chi non vuole governare l’immigrazione, tra chi si adopera per disincentivare le partenze e le anime belle che, di fatto, le incentiverebbero. Magari avanzando qualche interrogativo di troppo sul trattamento che attende i migranti fermati dalla Guardia costiera libica nei campi di accoglienza (o di detenzione, o peggio ancora) approntati all’uopo e qualche dubbio sulle possibilità di garantire in loco il rispetto dei diritti umani. O criticando il trattamento riservato a Roma ai rifugiati eritrei accampati in piazza Indipendenza, come se non rientrasse nell’ordine delle cose sgomberare uomini, donne, vecchi, bambini già sgomberati, piuttosto che individuare degli spazi in cui accoglierli. O chiedendosi come abbia fatto la prefetta di Roma a definire tutto questo «un’operazione di cleaning». Ha scritto su Minima et Moralia Christian Raimo che una Roma «in cui alle sei di mattina i poliziotti fanno le cariche e buttano gli idranti contro i rifugiati, comprese donne incinte e bambini» non è più la sua città. Messa così, suona un po’ forte. Ma questa Roma è anche la nostra Roma, questa Italia incapace di provarsi a tenere insieme l’esigenza, ineludibile, di sicurezza e la domanda, purtroppo molto più facilmente archiviabile, di rispetto dei diritti e di solidarietà (si tratti dei migranti, o più semplicemente dei poveri) è anche la nostra Italia. È qui che non bisogna mollare.
Sarebbe ingiusto mettere in conto al ministro degli Interni gli entusiasmi pelosi che la sua svolta ha suscitato tra chi pensa (è un eufemismo) che il pugno di ferro sia il modo migliore per venire a capo di una tragedia epocale. Ma sarebbe sbagliato anche non fermarsi a riflettere su ciò che ha sostenuto sull’ Espresso , a proposito del casus belli delle Ong, il filosofo Roberto Esposito: «Nessuno Stato reggerebbe senza un sistema giuridico destinato a distinguere i comportamenti legittimi da quelli illegittimi, e sanzionare questi ultimi anche con la forza. Ma… questa legge, difesa e imposta anche con la forza, non coincide con qualcosa di più alto, cui gli uomini hanno dato il nome di Giustizia». Il cammino umano (da giovani avremmo detto: il progresso) muove, provando e riprovando, avanzando e arretrando, senza negare l’una, senza rimuovere l’altra, nei loro interstizi; e si blocca quando ci si illude che esistano soluzioni «tecniche» in grado da sole di far fronte al riverberarsi delle tragedie dell’umanità sulla nostra vita quotidiana. La politica democratica ha un senso se è capace di decidere, certo, ma anche di mediare (non è una parolaccia) e di cercare risposte (sempre, di necessità, provvisorie) avventurandosi, con tutti i rischi del caso, proprio in questi interstizi. Non ne ha se pensa di cavarsela facendosi megafono della domanda d’ordine purchessia che inevitabilmente sale dalla (cosiddetta) società civile, purtroppo non solo dalle sue componenti culturalmente più sprovvedute, nel timore che siano altri a cavalcarla. Se avessimo ragionato così una quarantina di anni fa, quando Giorgio Almirante la reclamava a gran voce, e la maggioranza degli italiani gli dava ragione, oggi ci sarebbe in Italia la pena di morte. Per (nostra) fortuna e (suo) merito la politica di allora si guardò bene dal farlo. Vorremmo sperare che tra quarant’anni figli e nipoti potranno dire la stessa cosa. Ma è lecito dubitare che il ministro degli Interni abbia ragione quando rivela a Eugenio Scalfari che secondo lui la paura può e deve diventare un elemento positivo, trasformandosi in energia. Forse sarà retorico, certo è minoritario, ma continuiamo a sentire più vicino il «No tinc por», io non ho paura, con cui Barcellona risponde al terrorismo .

Repubblica 30.8.17
Con il format a quattro Stati ora l’Europa ha due velocità
di Goffredo De Marchis


PARIGI. «E se questo formato a quattro guidasse la nuova Europa? Se, vertici a parte, ogni volta che c’è un dossier noi arrivassimo con una strategia comune?». Alla fine della cena con Paolo Gentiloni, Angela Merkel e Mariano Rajoy, nel giardino dell’Eliseo dove gli uomini si tolti la giacca, Emmanuel Macron lancia la proposta. In sostanza, riprende la visione dell’Unione a due velocità, già richiamata dal premier italiano a marzo prima dei 60 anni dei Trattati festeggiati a Roma e sposata dalla Cancelliera. Un gruppo di Paesi fa da avanguardia per gli altri su alcuni temi, lascia indietro qualcuno ma permette al Continente di non fermarsi. Fra le tante cose che la Ue non permette questa è consentita dai trattati. Si chiama «cooperazione strutturata permanente». Significa che alcuni Stati membri non stanno ad attendere l’unità dei 27 su tutto. Se son pronti marciano avanti.
In questo modo l’Italia aggancerebbe i big dell’Unione, come Francia e Germania. E’ solo una questione di vertici, del tipo andato in scena lunedì sera a Parigi con i capi africani? No, non può essere questo, spiega Gentiloni intorno al tavolo all’aperto. L’obiettivo è che i quattro Paesi giungano ai vertici europei, quelli dove c’è il plenum, con una una decisione comune già presa.
Su alcune materie.
L’emigrazione, come è successo l’altro ieri.
Sull’agenda digitale, come potrebbe accadere in vista del summit di Tallin sull’innovazione. «Voi che ne pensate della web tax?», ha chiesto il presidente francese. Spagna, Francia, Italia e Germania sono chiamate a studiare insieme una soluzione per le imposte che pagano (o che non pagano) i colossi americani di Internet in Europa. Poi, c’è la difesa europea. I quattro hanno già una posizione avanzata per integrarla. L’Alto rappresentante Federica Mogherini sta convincendo gli altri Stati a lasciare correre chi può vuole farlo. A cominciare dai polacchi, che sull’esercito europeo hanno dato il via libera, ma sul resto continuano ad avere dei dubbi. Per i Paesi dell’Est, le due velocità, con un Frecciarossa e un regionale chiamati a sedere allo stesso tavolo pur avendo caratteristiche molto diverse, è un grave errore. «Si rischia di ricreare al cortina di ferro», è il grido d’allarme.
Ma i quattro a Parigi hanno deciso di non accettare veti. E l’Italia, ha raccontato Gentiloni tornato a Roma, siede nel convoglio «più veloce». La svolta, dice, è venuta sul fenomeno migratorio. «Se è questo il metodo, si può fare», ha concluso Merkel.

La Stampa 30.8.17
L’italia guarda oltre Lampedusa
di Federico Geremicca


Uscita dai radar. Espulsa dalle cronache. Cancellata dall’informazione internazionale. Lampedusa non c’è più: e la sua eclissi potrebbe non essere temporanea. Da soggetto drammaticamente pulsante in ogni emergenza, si è trasformata in poche settimane in recettore passivo di sbarchi sempre più rari e contestati. È la crisi irreversibile di un modello. Ma è proprio da queste ceneri - anche da queste ceneri - che è nato e si va sperimentando un nuovo modo di intendere contrasto e accoglienza sul fronte dell’immigrazione.
Parliamo di una sorta di «terza via» - che potremmo definire modello-Minniti - che due giorni fa ha riscosso apprezzamento anche nel vertice di Parigi: dove l’Italia, per una volta (e sarebbe ipocrita non annotarlo) ha ricevuto applausi per il suo attivo protagonismo e non più soltanto per la sua tradizionale umanità... Un punto di vista terzo, tra due opposte astrusità: respingimenti massicci e accoglienza generalizzata.
Non è stato facile per il Partito democratico - e quindi per il governo - rassegnarsi all’ineluttabilità della crisi di un modello. Nell’immaginario collettivo di quel mondo fatto di associazionismo e volontariato, Ong, cattolici di base e sinistra diffusa, Lampedusa ha infatti rappresentato per almeno un decennio il simbolo più luccicante e propagandato di un’idea di solidarietà tanto condivisibile quanto difficilmente praticabile. Correggere la rotta, dunque, non è stato né indolore né semplice: ma a un certo punto è diventato chiaro che non si poteva andare avanti a dispetto dei santi.
Se c’è una goccia che anche psicologicamente ha fatto traboccare il vaso delle incertezze di Matteo Renzi, possiamo probabilmente individuarla nella sconfitta di Giusy Nicolini nelle elezioni tenutesi a Lampedusa nel giugno scorso. Fresca del premio per la Pace assegnatole dall’Unesco e freschissima della cena con Renzi e Obama alla Casa Bianca, la Nicolini - da sindaco uscente - è arrivata addirittura terza nella corsa alla poltrona di primo cittadino. Una sconfitta raggelante anche per Renzi, che aveva appena voluto Giusy Nicolini nella segreteria nazionale del Pd.
Un segnale inequivocabile, insomma. Aggravato da due altri allarmi. Il primo: la svolta «rigorista» del Movimento Cinque Stelle e l’accentuarsi di tensioni sociali - alle quali ha fatto riferimento ieri il ministro Minniti - sempre meno governabili. Il secondo: il quasi ammutinamento di molti sindaci Pd del Nord che - oltre a richiedere un deciso cambio di linea - andavano intanto assumendo posizioni autonome e sempre più vicine a quelle di alcuni colleghi leghisti.
È anche dalle ceneri del modello-Lampedusa, insomma, che nasce il famoso: «Aiutiamoli a casa loro» col quale Matteo Renzi ha infuocato l’estate e avviato la svolta. Molti osservatori hanno frettolosamente archiviato quella battuta come «slogan elettorale», non immaginando che - al contrario - facesse da vigilia ed apripista a un cambio di linea del governo fortemente voluto anche da Minniti (prima sulle Ong e poi nel contrasto agli scafisti in acque libiche).
L’eclissi di Lampedusa e la crisi del modello che aveva rappresentato, cominciano così. Non è un processo indolore, viste le polemiche che li accompagnano: ma la via è aperta. Molto dipenderà dall’impegno dell’intera Europa, che non può fermarsi anche stavolta alla solita pacca sulle spalle. Macron e Merkel assicurano che l’Unione è pronta a fare la sua parte. Vedremo.
Intanto si fanno fioche le luci dei riflettori su Lampedusa, terra promessa per volontari di tutto il mondo e prima meta del peregrinare di Papa Francesco. Già, Papa Francesco: tra tutti i potenti del mondo, il meno convinto - forse - di questa nuova «terza via» italiana.

Il Fatto 30.8.18
Reddito d’inclusione: prende ai poveri per dare ai poveri
Il premier annuncia le nuove misure per la lotta alla povertà, ma sono soldi già stanziati (con nome diverso) e coprono 400 mila famiglie di indigenti su 1,6 milioni
di Luciano Cerasa


Togliere ai poveri per dare ad altri poveri. È il nuovo gioco delle tre carte varato ieri dal Consiglio dei ministri. La scatola presentata si chiama “Sostegno alla povertà”: si prende la carta Sia (Sostegno all’inclusione attiva) e la carta Asdi (Assegno sociale di disoccupazione), si mescolano sul tavolo della legge di Stabilità e poi si sostituiscono con la carta Rei (reddito d’inclusione). Chi vince e chi perde? Il governo ha rimesso sul piatto della lotta alla povertà gli stessi 1,7 miliardi stanziati dalla legge di Bilancio 2017 per il 2018 per strumenti finanziati dal 2016. Non è tutto ma qualcosa di diverso da zero, per dirla con il premier Paolo Gentiloni, che soddisfatto su Twitter ha commentato: “Via libera definitivo al Reddito di Inclusione. Un aiuto a famiglie più deboli, un impegno di Governo Parlamento e Alleanza contro povertà.” Uno slogan per vendere per la terza volta lo stesso prodotto.
La fregatura è che a ben guardare sotto Sia e Asdi c’erano gli stessi soldi e per una platea più larga, ma lì sta l’abilità del banco: cercare di far sparire tutto in conferenza stampa in un frullio di mani esperte. Ricapitoliamo. Il decreto introduce il Rei a decorrere dal 1° gennaio 2018. Il nucleo familiare del richiedente dovrà avere un Isee non superiore a 6mila euro e un valore del patrimonio immobiliare (la proprietà della prima casa non conta), non superiore a 20mila euro. Sono prioritariamente ammessi al Rei i nuclei con figli minorenni o disabili, donne in stato di gravidanza e disoccupati ma solo ultra cinquantacinquenni ed è compatibile con un’attività lavorativa ma non con l’indennità di disoccupazione. Il Rei viene erogato su dodici mensilità, con un importo che andrà da circa 190 euro mensili per una persona sola, fino a quasi 490 euro per un nucleo con 5 o più componenti. Il beneficio è subordinato al rispetto di un progetto “personalizzato” fatto di specifiche attività da parte dei componenti il nucleo familiare, altrimenti salta.
Per quanto riguarda il defunto Sostegno per l’Inclusione Attiva (Sia), fratello quasi gemello del Rei, trattasi di morte in culla. Introdotto dalla legge di Stabilità 2016 è entrato in vigore il 30 aprile 2017. Come il Rei prevede l’erogazione di un sussidio economico alle famiglie in condizioni economiche disagiate, erogato attraverso una carta di pagamento elettronica, utilizzabile per l’acquisto di beni di prima necessità. Come il Rei è subordinato a un progetto personalizzato di attivazione sociale e lavorativa. Può essere erogato per un periodo massimo di 12 mesi, come il Rei, in relazione alla composizione del nucleo familiare: da 80 euro per un solo membro a 400 per 5 o più membri. Alle famiglie composte da un solo genitore con figli minorenni è attribuito ogni mese un ulteriore importo di 80 euro. La cifra massima prevista anche dal Rei. Anche il Sia non è cumulabile con altri sostegni alla disoccupazione. La platea dei beneficiari è stimata in 400mila famiglie, come per il Rei, ma l’Istat calcola che quelle in povertà assoluta sono un milione e 619mila e in povertà relativa 2 milioni 734mila.
Sparisce definitivamente invece dal panorama la platea dell’Asdi, l’indennità economica per la ricollocazione dei lavoratori disoccupati. Avviata con il decreto legislativo 4 marzo 2015, ha la funzione di fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori beneficiari in passato della NASpI, ancora disoccupati e in una condizione economica di bisogno. È destinato ai nuclei familiari con un Isee non superiore a 5mila euro, con almeno un minorenne o a coloro che hanno già compiuto 55 anni e non hanno ancora maturato i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o per quello anticipato. La misura (sperimentale) è attiva da marzo 2016. L’assegno può toccare più di 611 euro al mese nell’ipotesi più vantaggiosa, per una durata di sei mesi. Entrambi gli strumenti aboliti dal 2018 vengono alimentati dal Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale (pari a 1704 milioni) come il nuovo Rei.

Repubblica 30.8.17
Ma i dimenticati sono ancora troppi
di Chiara Saraceno


CON il completamento dell’ultimo passaggio, anche l’Italia avrà finalmente un embrione di reddito minimo per i poveri a livello nazionale. Per chi si batte da decenni — fin dalla prima Commissione povertà presieduta da Gorrieri nel 1986 — perché questo avvenisse, è sicuramente una buona notizia. L’esistenza di una rete di protezione di ultima istanza è un pezzo importante del sistema di welfare, che ne qualifica il carattere solidaristico e non solo di assicurazione contro i rischi. È anche importante che accanto al sostegno al reddito siano previste attività diversificate di integrazione sociale, che vedano coinvolti più attori locali: dalla formazione all’accompagnamento al lavoro, ai servizi di riabilitazione, al sostegno alla partecipazione sociale.
ANZI, sarà opportuno che non ci si limiti a coinvolgere solo le associazioni di volontariato e di terzo settore, come si tende a fare quando si tratta di poveri, ma anche le agenzie del lavoro e le associazioni datoriali. Si tratta tuttavia di un embrione il cui sviluppo andrà sorvegliato con attenzione perché i limiti evidenti che lo caratterizzano non diventino strutturali. Il primo limite, da cui derivano in larga misura gli altri, è il sotto-finanziamento.
Anche se raggiungesse i due miliardi per il prossimo anno, come sembrerebbe da alcune fonti (ma altre danno una cifra inferiore), non servirebbe a coprire tutti i quattro milioni e 598 mila poveri assoluti stimati in Italia, e neppure tutto il milione e 131 mila minori al loro interno, nonostante le famiglie con minori siano nel gruppo identificato come il target prioritario della misura. Proprio per questo, almeno per ora, la soglia Isee che dà accesso al Reddito di inclusione è stata fissata a un livello più basso (6000 euro) di quello che individua la povertà assoluta e l’importo massimo erogabile per famiglie molto numerose non supera quello della pensione sociale, nonostante questo sia stato pensato per rispondere ai bisogni di un anziano solo, non di una famiglia numerosa. È per lo meno curioso che venga fissato questo criterio proprio mentre, su altri tavoli, ancora una volta ci si preoccupa di integrare le pensioni sociali ed anche quelle minime. La combinazione di soglie di Isee e importi del sussidio molto bassi rende altamente probabile che vengano selezionati i casi non solo di povertà più estrema, ma che hanno più difficoltà ad uscire dalla povertà tramite l’accesso a occupazioni adeguatamente remunerate. Questo rischio è rafforzato dai criteri aggiuntivi introdotti per accedere prioritariamente al sostegno, ovvero le caratteristiche della famiglia: presenza di minori, di donne incinte, di ultracinquantacinquenni disoccupati di lungo periodo e non beneficiari di Naspi, disabile. Chi è giovane o comunque ha meno di cinquantacinque anni, non ha figli minori, non è incinta, non è disabile e non vive con nessuna di queste categorie di persone, difficilmente avrà accesso al sostegno a parità di condizioni economiche, o anche se sta peggio.
Escluse sono anche, a parità di Isee, le famiglie in cui anche un solo componente fruisca del Naspi o abbia una occupazione, in contraddizione con l’obiettivo di incentivare i beneficiari a trovare una occupazione. Alla luce di questa individuazione restrittiva dei beneficiari, che rende il Rei poco universalistico e tendenzialmente categoriale, tanto più assurda appare la norma che fissa in 18 mesi il periodo massimo di godimento del sussidio. Innanzitutto perché logica vorrebbe che, così come avviene nella maggior parte dei paesi, il sostegno si dà finché il bisogno persiste. Si possono, anzi devono, fare controlli periodici sulla partecipazione dei beneficiari alle attività proposte e sulla loro effettiva disponibilità ad impegnarsi. Ma se, nonostante tutto l’impegno e la disponibilità, non si è trovata una via di uscita, perdere il sostegno significa ritornare al punto di partenza.
Difficile che nei sei mesi di attesa obbligatoria prima di poter fare di nuovo domanda di sostegno la situazione migliori. Anzi il rischio è che si interrompano percorsi potenzialmente virtuosi. In secondo luogo, è ampiamente noto che sono le persone con meno difficoltà personali e famigliari ad uscire più velocemente dall’assistenza. Chi ha più difficoltà richiede più tempo.
Perché questo embrione di sostegno ai poveri diventi davvero un pilastro del welfare, dove si combinano protezione e abilitazione, riconoscimento di diritti e di responsabilità, occorrerà correggere al più presto questi ed altri limiti che ne vincolano pesantemente la portata. Lo strumento per farlo è il piano nazionale contro la povertà, che prevede uno strumento di pianificazione triennale. Secondo gli estensori del provvedimento, questo dovrà gradualmente ampliare la platea dei beneficiari, l’importo del Reddito di inclusione, il massimale del beneficio e il limite mensile di prelievo in contanti, oggi limitato solo al 50 per cento dell’importo, mentre il resto è vincolato all’acquisto di determinati beni. Sarà importante che questa pianificazione avvenga ascoltando chi lavora sul territorio e chi conosce le esperienze consolidate di altri paesi. Ed anche che si coordini con gli altri tavoli in cui si discute di distribuzione di risorse scarse.

il manifesto 30.8.17
Il reddito che esclude la maggioranza dei cittadini disagiati
Voto di povertà . Il governo vara il nuovo «Rei»: coprirà però solo un quarto delle famiglie bisognose. E l’importo è molto basso: dai 190 a 489 euro. Entusiasmo dal Pd e dalla corte dei renziani. Per le opposizioni è un «pannicello caldo»
di Antonio Sciotto


ROMA «Pannicello caldo», «mancetta», secondo le opposizioni. «Un aiuto concreto alle fasce deboli», «strumento di lotta alla povertà» per la maggioranza e il governo. Il consiglio dei ministri ha varato il decreto che istituisce il Rei, reddito di inclusione, un assegno variabile da 190 a 489 euro per le famiglie più disagiate. Viaggerà in parte su una carta per gli acquisti – come era già stato per la social card berlusconiana – ma fino a metà dell’importo si potrà prelevare al bancomat in contanti. Un’operazione certamente di immagine per il premier, e ancor di più per il Pd: il primo a twittare la notizia dell’approvazione è stato il ministro Maurizio Martina, vicesegretario sotto Matteo Renzi, e subito a ruota è seguito il cinguettio di Paolo Gentiloni.
LA MISURA RISCHIA di rivelarsi purtroppo poco più di pura propaganda, poco significativa sia per l’entità dell’importo che per la platea interessata: massimo 400-500 mila famiglie a fronte di 1 milione e 619 mila nuclei in povertà assoluta e di 2 milioni e 734 mila famiglie in povertà relativa (Istat, dati anno 2016). Anche limitandoci alla sola povertà assoluta, siamo a solo un quarto delle famiglie coperte sul totale.
Il Rei verrà erogato a partire dal 2018, sostituisce il Sia (sostegno per l’inclusione attiva) e l’Asdi (la disoccupazione successiva alla Naspi). È condizionato alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa. Viene riconosciuto alle famiglie che hanno un Isee non superiore a 6 mila euro e un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20 mila.
IL BENEFICIO PUÒ arrivare al massimo a 190 euro per una persona sola fino a 489 euro (l’attuale valore dell’assegno sociale per gli over 65 privi di mezzi) per un nucleo di 5 o più persone. Viene erogato per 12 mensilità e può durare al massimo 18 mesi. Sarà necessario che trascorrano almeno 6 mesi dall’ultima erogazione prima di poterlo richiedere di nuovo. Il tetto è legato a quello dell’assegno sociale per gli over 65 senza reddito.
In prima applicazione sono ammessi al Rei con priorità i nuclei con figli minorenni o disabili, donne in stato di gravidanza o disoccupati ultra cinquantacinquenni. A regime le famiglie coinvolte saranno 500 mila per circa 1,8 milioni di persone complessive. Oltre due miliardi di euro le risorse destinate alla misura a regime.
POSSONO RICHIEDERE il Rei i cittadini italiani, i comunitari e gli extracomunitari con permesso di lungo soggiorno. La famiglia che avrà diritto al beneficio avrà una Carta di pagamento elettronica (Carta Rei), simile a una prepagata. La Carta, come detto, potrà essere usata, per metà dell’importo, anche per fare prelievi di contanti. Fino a oggi invece l’uso è stato vincolato sempre ad acquisti nei supermercati, nelle farmacie o alle poste.
«Via libera definitivo al #RedditodiInclusione – twitta da early bird Martina – Misura nazionale di lotta alla povertà. Ora avanti a rafforzarlo sempre più». «Un aiuto a famiglie più deboli, un impegno di Governo Parlamento e Alleanza contro #povertà», aggiunge subito dopo Paolo Gentiloni.
ENTUSIASTI ANCHE il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, la viceministra allo Sviluppo economico Teresa Bellanova, la sottosegretaria Maria Elena Boschi e Lorenzo Guerini, coordinatore della segreteria Pd. Il partito sottolinea l’importanza della misura per darsi quel colorito di «sinistra» che spesso gli viene negato da avversari e detrattori.
«Strumento parziale e tardivo. Da governo Matteo Renzi – Paolo Gentiloni solo un pannicello caldo contro dramma #povertà», twitta Renato Brunetta di Forza Italia. «Il reddito di inclusione è una mancetta utile solo al Pd per recuperare consensi – rincara Danilo Toninelli dei Cinquestelle – La vera soluzione è più lavoro col reddito di cittadinanza!».
PER LA CISL, PARTE dell’Alleanza contro la povertà di cui fanno parte tra gli altri anche Cgil e Uil, la misura «è importante, ma servono maggiori risorse e servizi sociali moderni». Il sociologo Domenico De Masi mette in guardia rispetto alla «macchinosità dei criteri di assegnazione».
«È una buona notizia l’approvazione, ma non può farci dimenticare la dimensione e la diffusione della povertà assoluta del nostro Paese – chiosa don Luigi Ciotti, fondatore di Libera – Questa misura si rivolge infatti a 660 mila famiglie, là dove il numero complessivo è 1,8 milioni (4,6 milioni di cittadini)».

il manifesto 30.8.17
Saraceno: «Misura importante ma grave la graduatoria tra poveri»
Intervista a Chiara Saraceno. Per la sociologa Sareceno il reddito d’inclusione è sottofinanziato ma è il primo strumento di contrasto alla povertà inserito nel nostro sistema di welfare e la solidarietà non è più sufficiente
di Rachele Gonnelli


«Sarà anche poco ma è comunque una misura importante». La sociologa Chiara Saraceno si occupa di contrasto alla povertà dal 1986, con la prima commissione d’indagine e invita a «non buttare via il bambino con l’acqua sporca».
Il nuovo reddito di inclusione riguarda appena un quarto della platea degli indigenti. In che senso è importante?
Si tratta, se non altro, della prima misura di sostegno al reddito dei poveri inserita in modo strutturale nel nostro sistema di welfare. E non è poco, viste le tante resistenze che ci sono sempre state finora non solo a destra ma, per motivi opposti, anche nella sinistra. La solidarietà non basta più.
È davvero una misura strutturale?
È stata introdotta in realtà con la finanziaria 2017 e i finanziamenti di quest’anno sono bassi ma si pone come misura strutturale. Non è questo il suo limite. Il guaio di questo decreto è che pone una soglia massima di fatto parametrata sulla pensione sociale. Solo che la pensione sociale è calcolata in 492 euro per una persona, un anziano solo, mentre qui la stessa cifra è prevista per una famiglia numerosa, di cinque o più persone. Ed è una soglia invalicabile, questo è il vero problema, ciò che mi preoccupa di più. Voglio dire che non ritengo particolarmente scandaloso che, viste le ristrettezze di bilancio, si cominci con poco. È che non si pone come una soglia da colmare nel tentativo di aggredire il fenomeno molto più esteso della povertà assoluta quanto piuttosto come limite tout court.
Si tratta comunque di spiccioli che risolvono ben poco a chi ha davvero bisogno.
Sono la prima a dire che è troppo poco. Anche i 40 euro della vecchia carta sociale sembravano una elemosina però sono stati usati. È chiaro che si tratta solo di una misura compensativa, che integra paghe derivanti da lavoretti. Una critica possibile è che la misura incoraggi di fatto o dia per scontato il lavoro nero, le attività informali, visto che con quattrocento euro al mese non si mangia in cinque. Questi soldi serviranno tutt’al più come aiuto per pagare le bollette. Ma almeno è stata alzata la soglia d’accesso: rispetto ai 3 mila euro di Isee del Sia (il sostegno per l’inclusione attiva, ora inglobato nella nuova misura ndr) siamo al doppio. Il problema vero, oltre al sottofinanziamento, è che si introduce una graduatoria dei più meritevoli. Il tetto non progressivo schiaccia i requisiti sul basso, introduce qualifiche aggiuntive: non basta essere in quella fascia di reddito, il primo requisito è essere una famiglia, quindi si esclude i single quarantenni e cinquantenni con figli grandi a carico non conviventi, ad esempio, poi si privilegiano le famiglie con minori, con handicap, con donne incinte, i disoccupati oltre 55enni e così via. I giovani soli o in coppia senza figli sono i più penalizzati.
I detrattori del reddito di cittadinanza paventano spesso l’intrappolamento in un circolo vizioso, questo non è reddito di cittadinanza ma non si pone il problema?
Il reddito di cittadinanza inteso come misura universalistica e universale quale propone il mio amico Anthony Atkinson a prescindere dal reddito è possibile solo in Alaska grazie ai proventi del petrolio. Impropriamente il Movimento Cinquestelle chiama reddito di cittadinanza la sua proposta di reddito per i poveri, solo perché gli piace la parola. Io sono tra quelli che non vedono questo rischio di intrappolamento né in quel caso né in questo. Penso che non si lavori solo per soffrire, solo perché costretti. E anzi, il salario di riserva serve per evitare certi ricatti lavorativi. Inoltre non è detto oggi che lavorando si esca automaticamente dalla fascia di povertà.
Di questo nuovo sussidio però si può beneficiare solo per 18 mesi, bastano per rimettersi in piedi?
La misura dovrebbe durare finché dura il bisogno, pur con controlli magari semestrali e con tutte le misure di accompagnamento al lavoro etc. Oltretutto prevedendo questa graduatoria di più bisognosi, e proprio questi hanno bisogno di più tempo, invece si crea di fatto solo una turnazione, un modo di razionare le risorse. In sintesi: sono state corrette alcune storture, la misura è importante, ma va sorvegliata e corretta.

il manifesto 30.8.17
Una piccola pezza per una grande piaga
di Marco Revelli


Nel giorno in cui si vede assegnato dall’Europa il ruolo di capofila nella guerra ai poveri del resto del mondo nella persona del ministro di polizia Minniti, il governo italiano vara un provvedimento legislativo a firma del suo ministro del Lavoro Poletti che dovrebbe suonare come prova di attenzione verso i poveri nostrani (una sorta di risposta al grido sovranista: «Pensiamo alla povertà degli italiani»). Ma che in realtà, a leggerlo con attenzione, suona più come beffa che come riconoscimento.
Si tratta, è bene ricordarlo, del decreto attuativo della legge delega approvata in via definitiva a marzo dal Senato.
E già a suo tempo salutata dai suoi fautori come una svolta storica (il primo strumento «universalistico» di contrasto alla povertà in un Paese che era rimasto pressoché l’unico in tutta Europa ad esserne sprovvisto).
Ma nello stesso tempo severamente criticata da quanti abbiano della piaga della povertà e del contrasto ad essa una conoscenza diretta. Dichiarata insufficiente nell’estensione della sua copertura, inadeguata nella dotazione finanziaria, generica e farraginosa nei meccanismi di governance della sua applicazione. Una piccola pezza su una grande piaga, la definii allora sul manifesto. E di fronte al testo attuale non cambierei di un millimetro il giudizio.
Erano 400mila le famiglie destinatarie del provvedimento allora, per un totale di poco più di un milione e mezzo di persone. E 400mila restano ora, per una platea più o meno simile. Ma le famiglie in condizione di povertà assoluta sono, secondo l’ultima rilevazione Istat, 1.600.000, per un totale di 4.600.000 persone, cioè tra le tre e le quattro volte tante.
E i «poveri assoluti» sono, tecnicamente, quelli che non ce la fanno a procurarsi il minimo indispensabile per una vita dignitosa: per alimentarsi, vestirsi, curarsi, mettersi un tetto sulla testa, mandare a scuola i figli. Circa tre quarti dei poveri assoluti restano dunque senza copertura. La quale a sua volta appare ben misera: tra i 190 e i 490 euro al mese. Una goccia nel mare del bisogno. Il livello massimo dell’erogazione prevista corrisponde alla soglia minima di povertà assoluta stabilita dall’Istat per il 2016: quella relativa ad un pensionato singolo residente in piccoli comuni del Meridione. Se si trattasse di una coppia la soglia salirebbe di altri 200 euro. E per le famiglie con un solo figlio a carico nelle stesse aree territoriali si passerebbe a più di mille euro (il doppio di quanto previsto dal decreto)…
E poi ci sono le condizioni, richiedendo appunto la legge la cosiddetta «prova dei mezzi» e stabilendo barriere alte all’accesso: aver minori in famiglia, un Isee inferiore ai 6000 euro, l’adesione «a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà» secondo modalità che lo fanno assomigliare più a una tipica poor law ottocentesca che a un moderno sistema di garanzia universalistica. Più che un reddito «d’inclusione» si direbbe un reddito «d’esclusione» per l’ampiezza della platea che ne resta fuori. E la ristrettezza delle risorse messe a disposizione: del miliardo e ottocento milioni con cui è finanziato, infatti, solo un po’ più della metà è costituito da «denaro fresco», oltre 600 milioni sono ricavati dall’accorpamento di altre voci di spesa sociale e dunque dal taglio di altri sussidi…
È una cifra assai misera, per non dir miserabile. Di sicuro inferiore a quella che destineremo alle politiche di contenimento dei flussi migratori: ai Signori della Guerra del Niger, del Ciad, delle frontiere sahariane, alle milizie che faranno per noi il lavoro sporco di sbarrare la strada dall’Africa subsahariana, ai capi tribù del Sahel e del Fezzan reclutati da Minniti, agli ex scafisti riconverti in gate keepers per tenere a crepare nel deserto i poveri che ora venivano a sbarcare e talvolta a morire sulle nostre spiagge… Sarebbe stato assai più saggio, quei soldi sporchi di sangue, destinarli al contenimento della povertà assoluta in Italia più che al contenimento dei flussi di poveri del mondo. Avremmo in qualche misura contribuito a prosciugare i bacini dell’odio e del risentimento che crescono nelle aree della deprivazione.

Il Fatto 30.8.18
L’Unità non c’è più e anche le Feste non stanno troppo bene
di Peter Gomez


Piazze piene, urne vuote: se nel 1948 il leader socialista Pietro Nenni aveva ragione quando riassumeva così la bruciante sconfitta del Fronte Popolare Pci-Psi, oggi in molti nel Partito democratico si chiedono se il detto valga pure al contrario. Le Feste dell’Unità, che fino a pochi anni fa registravano il tutto esaurito, di giorno in giorno offrono spettacoli sempre più desolati. Il 25 agosto a Reggio Emilia, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha visto partecipare al suo incontro non più di trenta persone. Scese a quindici una volta espunti dalla conta dei presenti i giornalisti e i componenti dello staff. A Bologna invece sono stati più prudenti. Visto che prevenire è meglio che curare hanno fatto sparire la tradizionale grande sala dibattiti. Sostituita da un Tir attrezzato davanti al quale ci sono 84 sedie e quattro file di panche lunghe 12 metri. A Milano invece la festa (si fa per dire) c’è già stata. Gli organizzatori avevano promesso 50 mila presenze ai commercianti di generi alimentari che avevano affittato gli stand. In 15 giorni, secondo stime delle forze dell’ordine, ce ne sono state dieci volte di meno (il Pd parla invece di 15 mila persone). Sarà stato per il caldo o per le zanzare, ma nemmeno la visita di Matteo Renzi ha rovesciato la situazione. Alla sua cena con i volontari il segretario ha fatto solo una comparsata. Giusto il tempo per dare ai 100 presenti la possibilità di seguire le istruzioni di comportamento contenute in un volantino lasciato sui tavoli: “Scatta una foto del ristorante con gli hashtag #lamiacenaconmatteo e #lamiafestaU e condividila sui social. L’indomani vai sulla pagina facebook della festa e cerca la tua foto”. Possibilità rimasta sfortunatamente per gli ideatori solo sulla carta.
Le spiegazioni di una tanto grande disaffezione sono note: la sconfitta referendaria; la delusione della base per una serie di provvedimenti considerati di destra; Renzi che promette, ma che non mantiene; le primarie per la segreteria sotto tono; la fuga di molti dirigenti verso il Mdp; la crisi economica e tanto altro. Dilungarsi sull’analisi ha insomma poco senso. Di certo però almeno una riflessione sul brand di questi eventi il Pd la dovrebbe fare. Chiamare i propri tentativi di raduno Feste dell’Unità è ormai un errore. L’Unità non esiste più. Né come giornale, né a sinistra. La prossima unione, grazie alla legge elettorale proporzionale, sarà verosimilmente con la destra.
Lo ha detto il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, che il 13 aprile in un’intervista al Foglio ha auspicato la creazione di un fronte anti M5S con Forza Italia. E lo testimonia pure un questionario distribuito tra gli iscritti bolognesi in cui si domanda loro esplicitamente con chi i Dem dovrebbero allearsi dopo le urne: Grillo? Il centrodestra? La sinistra? Tutti nel ciclostilato vengono sullo stesso piano: anche Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi, il proprietario di Mediaset fino a 5 anni fa considerato il nemico pubblico numero uno.
Così, sempre a Bologna, le battute si sprecano. La Festa ha come sottotitolo: “Romanzo popolare”. È la citazione di uno straordinario film del ’74 di Mario Monicelli, che però quasi nessuno ricorda. Tanto che i cronisti raccontano di aver sentito molti cittadini ed ex iscritti (erano 100 mila ora sono 14 mila) dire, in piedi davanti ai manifesti: “Altro che popolare, questo è un romanzo criminale”. Frase un po’ forte, ma che guardando al pedigree dell’ex Cavaliere e di parecchi tra i suoi, in fondo rende bene l’idea. Povero Pd. Povera Italia.

Il Fatto 30.8.17
Perché tornano i fascisti e vogliono comandare
di Furio Colombo


Caro Furio Colombo, ormai i fatti come quelli del prete di Pistoia minacciato da quelli di Forza Nuova e che fanno il saluto romano come beffa al vescovo, si ripetono sempre più spesso. Che cosa ha messo il vento in poppa a queste non allegre immagini del passato?
Emilia

Potrei provare col solito elenco di scuole misere, di media che procedono e zig-zag, di web che rovescia addosso enormi quantità di storia adulterata e di “fake news”. Ma è un discorso che non ci porta lontano. Il fascismo è forse la più grande “fake news” che giri per il mondo, perché promette vita e giovinezza e porta persecuzione e morte. Ma ci sono alcuni fatti specifici che vale la pena di notare.
1) La politica è debole o segnata dalla corruzione. Fra le tante forme di anti-politica, il fascismo è il più rozzo e il più adatto a coltivare l’esasperazione di chi, intellettualmente, è stato lasciato (spesso per spaventosa carenza scolastica) troppo indietro. Non ha nulla da dare alle idee, vecchio e crollante com’è, tranne un senso e un modo di stare insieme che può essere la medicina sbagliata, però sul momento efficace, della solitudine.
2) Il fascismo è un’idea sconfitta, ma il tempo ha favorito la perdita di orgoglio per la vittoria dell’antifascismo. E l’ossessione del comunismo (coltivato con furore, soprattutto in Italia, dopo la caduta del Muro, dunque dopo avere avuto la certezza che non poteva tornare) ha tinto di rabbiosa ideologia il normale conservatorismo borghese, facendolo diventare una sorta di campo di battaglia per una battaglia che non c’era. Parlo di Berlusconi che si è sempre definito un liberale, ma è stato il grande coltivatore del terreno in cui è rinato un pezzo di fascismo.
3) È pericoloso? I tedeschi pensano di sì e tengono a bada i frammenti di nazismo sopravvissuti o rinati, come in uno zoo pericoloso. Da noi si è arrivati a dire che è un’opinione e che, come tutte le opinioni, in base alla libertà conquistata dalla Resistenza, va lasciata libera di manifestarsi. Naturalmente non è vero, l’affermazione è vistosamente infondata e ne sono la prova le decine di milioni di morti provocati da nazismo e fascismo.
4) L’arrivo di Trump alla presidenza degli Stati Uniti (che ha occupato la Casa Bianca circondato da fascisti come Stephen Bannon, licenziato solo da pochi giorni) ha dato coraggio al razzismo e al suprematismo americano fino al punto da incitare all’uccisione di una donna nera durante una manifestazione a Charlottesville (Virginia). La differenza che ci mostra la strada, è che i media americani non si spaventano del nuovo fascismo e non danno tregua sapendo il danno fisico e quello morale che il fascismo porta con sé e sparge dove si insedia. Dubito che si possa dire lo stesso della maggioranza dei media italiani.

Corriere 30.8.17
Kim vuole la guerra?
Il missile sui cieli giapponesi e la minaccia nucleare
Kim gioca (e comanda) una «partita» pericolosa e bluffa con Abe per evitare una reazione degli Usa
di Guido Santevecchi


Kim Jong-un quest’anno ha già ordinato il lancio di 18 missili, dai vecchi Scud a corto raggio fino a due ordigni intercontinentali capaci di raggiungere l’Alaska. Quello sperimentato ieri non è il più potente dell’arsenale nordcoreano, però ha fatto tremare le Borse mondiali e spinto gli operatori a comprare beni rifugio come l’oro. Che cosa vuole Kim e che cosa bisogna aspettarsi dal monito di Donald Trump «tutte le opzioni sono sul tavolo»? Le informazioni diffuse sui dati di volo danno qualche risposta. E a ben guardare il giocatore con più carte in mano sembra Kim Jong-un.
Che missile è stato lanciato?
Secondo gli analisti si tratta di uno Hwasong-12, un nuovo ordigno a medio raggio che è stato visto per la prima volta in aprile durante una parata a Pyongyang. Fu fatto sfilare su un grande camion, chiuso in un involucro cilindrico e qualcuno sospettò che fosse finto. A maggio invece lo Hwasong-12 si innalzò per 2.000 chilometri, volò per 30 minuti e percorse 700 chilometri: studiando questi dati fu stabilito che aveva un raggio d’azione potenziale di 4.500 km (la base americana di Guam nel Pacifico dista circa 3.400 km dalla Nord Corea). Ieri i tecnici nordcoreani hanno abbassato la traiettoria a circa 550 km e il missile ha viaggiato per 2.700 km attraversando il cielo sopra l’isola giapponese di Hokkaido. A questo punto nessuno può più illudersi: lo Hwasong-12 con le giuste coordinate può raggiungere Guam. Oltre a tutta la Sud Corea e il Giappone con le loro città.
Perché quella traiettoria?
Non potendo dirigere i loro test verso Ovest e Nord, dove c’è il territorio degli amici cinesi e russi, i nordcoreani hanno quasi sempre programmato la traiettoria perché i missili cadessero nel Mar del Giappone. Ieri però hanno deciso di solcare il cielo di Hokkaido: per motivi tecnici (cominciare a provare l’effettivo raggio d’azione) e calcolo politico. Quando Kim Jong-un ha minacciato di «cingere Guam» con le fiammate dei missili, Trump gli ha risposto promettendo «fuoco e furia». Così, orientando l’ordigno a Nordest e su Hokkaido, Kim Jong-un è stato alla larga dalla rotta Sudest verso Guam: in questo poker, meglio mettere in ansia Abe con un bluff che vedere le carte del presidente americano. Il Maresciallo del Nord sembra condurre il gioco: affina le armi, guadagna tempo e toglie carte all’avversario. Un’altra sorpresa: di solito i nordcoreani fanno partire i loro ordigni da basi sulla costa; questa volta invece hanno scelto Sunan, alle porte di Pyongyang, dove sorge l’aeroporto internazionale della capitale. Doppio motivo: dimostrare l’estrema mobilità degli Hwasong-12, trasportati su camion-lanciatori difficili da rilevare; e rendere di fatto impossibile un’azione preventiva e mirata degli americani per evitare il lancio. Uno strike su Sunan-Pyongyang «legittimerebbe» una rappresaglia nordcoreana sulla capitale nemica Seul, con decine di migliaia di morti.
Quanto tempo resta?
L’intelligence americana ha appena cambiato le sue valutazioni della potenza missilistica e nucleare di Pyongyang. Pensavano che i tecnici di Kim fossero lontani almeno quattro anni dal sogno di avere un missile con testata nucleare capace di colpire le coste Usa. Ora si parla di un anno al massimo e il processo di miniaturizzazione di un’atomica per fissarla sulla testata di un missile a quanto pare è già compiuto.
Kim ha fatto da solo?
I rottami dei molti razzi recuperati nel Mar del Giappone avrebbero rivelato anche componenti cinesi; sembra siano arrivati dalla Cina i camion trasformati in lanciatori mobili per i missili: dovevano trasportare legname ma sono stati modificati a Pyongyang; ai tempi della disintegrazione dell’Urss furono intercettate decine di scienziati militari russi che accorrevano alla corte dei Kim per denaro; ultimamente è stata scoperta una pista dall’Ucraina. Nonostante le sanzioni sempre più strette, la Nord Corea ha sempre relazioni diplomatiche con 164 Paesi e ambasciate in 47.
L’opzione militare?
Stati Uniti e sudcoreani hanno una superiorità militare schiacciante. Però basterebbe un missile «sporco» su Seul o Tokyo per rendere il prezzo della partita troppo alto. Su questo conta Kim, che ha anche a disposizione una minaccia «convenzionale»: 13.600 tra cannoni e sistemi lanciarazzi, obsoleti forse ma terribilmente vicini a Seul. È stato calcolato che la prima scarica su Seul farebbe 2.811 morti civili, il primo giorno si chiuderebbe con 64 mila vittime in città.

Corriere 30.8.17
La sfida del «vecchio» Barak: «Israele in mano a estremisti
Ma posso salvarlo di nuovo»
di Davide Frattini


L’ex premier: «La separazione dai palestinesi è l’unica via possibile»
Sfoggiando la barba hipster che l’esercito di cui è il soldato più decorato proibisce di portare alle giovani leve, Ehud Barak da un anno e mezzo appare agli israeliani in video girati da solo e pubblicati sulla sua pagina Facebook. Da leader in pensione — e come scrive nel profilo personale «padre di tre figlie, quindi femminista» — riproduce in stile amatoriale i discorsi alla nazione di quando era premier (e ministro della Difesa, degli Esteri, capo di Stato Maggiore) per rivolgersi a chi il potere lo detiene ancora, da tanto tempo: Benjamin Netanyahu ha già totalizzato undici anni da capo del governo. Non un giorno di più, dovesse dipendere da Barak.
Asceso dalle casette del kibbutz Mishmar HaSharon ai grattacieli del lusso sopra Tel Aviv, si è lasciato dietro le macerie del partito laburista e un titolo poco gratificante rispetto agli altri nel suo curriculum zeppo di medaglie: il politico meno amato dagli israeliani. Eppure a 75 anni Barak sembra convinto di poter contribuire a sconfiggere Netanyahu — è l’unico a esserci riuscito già una volta nelle elezioni del 1999 — e a riportare la sinistra (traslocata al centro) alla guida del Paese. La considera una missione vitale come i raid che pianificava nella Sayeret Matkal, la più speciale tra le forze speciali: è da allora che conosce Netanyahu, era il suo comandante, è da allora che lo chiama con il soprannome. Gli concede: «Bibi è intelligente, preparato, riflessivo, efficiente, sa identificare i problemi e come andrebbero risolti».
Seduto nella saletta per gli ospiti di questo palazzo vicino alla piazza dove Yitzhak Rabin è stato assassinato e assieme a lui gli accordi di pace che aveva firmato con i palestinesi, da stratega illustra la situazione geopolitica di Israele: «Resta riassunta nella mia formula “villa in mezzo alla giungla”. Siamo una potenza economica e militare, la nazione più forte da Bengasi a Teheran. Le prospettive immediate sono buone, forse troppo. La gente rischia di illudersi che non ci siano pericoli: la sera va all’opera, l’unico problema dell’aeroporto Ben Gurion sono le lunghe code perché tutti viaggiano, al Nasdaq sono quotate più società israeliane che di qualunque altro Paese. Quando mettiamo un piede fuori dalla villa, non possiamo esitare o verremo sopraffatti. Siamo al centro del tornado che sta travolgendo il mondo arabo, il Medio Oriente rimane un territorio dove non esiste pietà per i deboli: non ti danno una seconda opportunità, se non sai difenderti».
Fino a qui Netanyahu potrebbe sottoscrivere l’analisi di quello che considerava un amico (gli ha affidato il ministero della Difesa tra il 2009 e il 2013) e che adesso disprezza come «il vecchio uomo con una nuova barba». La differenza di visione sta nelle risposte da dare alle minacce. Anche perché — ha proclamato Barak nei suoi discorsi — «questo governo ha hitlerizzato tutte le emergenze regionali, smerciate come rischi per la nostra sopravvivenza. Così le decisioni sono guidate dal pessimismo, dalla passività, dalla paralisi. Un’ideologia fanatica e radicale ha preso in ostaggio la destra, è un ultranazionalismo oscuro». Continua: «Ormai è evidente che il progetto degli estremisti si sta imponendo. Per loro la soluzione dei due Stati è morta, i palestinesi potranno godere di una certa autonomia in una nazione che si estende dal Giordano al Mediterraneo. È inevitabile che un’entità di questo tipo diventi negli anni o non ebraica o non democratica».
A questa dottrina Barak vuole contrapporre «un nazionalismo orgoglioso» ed è convinto che chi l’appoggia possa vincerci le elezioni: «È la strada per salvare l’ideale sionista. Israele deve — ne ha la forza — separarsi dai palestinesi con un processo graduale. Il nostro esercito manterrà una presenza fino a quando non ci sarà un accordo reciproco e con garanzie, lo Stato palestinese sarà demilitarizzato, i grandi blocchi di insediamenti resteranno israeliani. L’ultradestra sfrutta la sicurezza come una scusa, sostiene che inglobare i territori arabi sia la nostra salvezza. Se prendessimo tutti gli ex capi del Mossad, dei servizi segreti interni, i capi di Stato maggiore, i generali ancora in vita e li chiudessimo in una stanza, il 99 per cento direbbe che il Paese è più difendibile con il mio piano».

il manifesto 30.8.17
Netanyahu: «Colonie per sempre»
Israele/Territori occupati. Il premier ha escluso categoricamente la possibilità che il suo governo possa sgomberare anche una sola colonia ebraica in Cisgiordania. Guterres (Onu): non ci sono alternative alla soluzione a Due Stati
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Antonio Guterres ieri a Ramallah è stato chiaro. Gli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania sono «un grande ostacolo» alla pace, ha detto il segretario generale dell’Onu al primo ministro dell’Anp Rami Hamdallah. Ha anche rinnovato il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele. «Non vi è alcun piano B – ha sottolineato – una soluzione con Due Stati, la fine dell’occupazione (israeliana) e la creazione di condizioni per metter fine alle sofferenze dei palestinesi sono l’unica strada per garantire la pace». Ma quello Stato, lo sa bene Guterres, è ormai un pezzo di carta ingiallito dimenticato nei cassetti della diplomazia. Il futuro lo decide solo il governo israeliano visto che i Paesi occidentali, dagli Usa all’Europa, in silenzio hanno decretato che il diritto internazionale non può trovare attuazione nella questione palestinese.
Lunedì sera il premier Benyamin Netanyahu è andato all’insediamento ebraico di Barkan per partecipare alle celebrazioni per i 50 anni dall’inizio della colonizzazione ebraica di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, i territori palestinesi che Israele ha occupato nel 1967. E ha pronunciato una sentenza di morte per la soluzione a “Due Stati” alla quale, ma solo a parole, si aggrappano Onu e Unione europea e dalla quale si è già sganciata l’Amministrazione Trump. «Siamo venuti qui (in Cisgiordania e Gerusalemme Est, ndr) per rimanerci per sempre», ha affermato perentorio Netanyahu. Anche un nuovo, limitato, sgombero di colonie israeliane, come quello di Gaza nel 2005, «non avverrà mai più», ha aggiunto tra l’entusiasmo dei presenti. Il primo ministro ha rimarcato il valore strategico della Samaria (il nome biblico del nord della Cisgiordania). «È la chiave per il nostro futuro» ha detto spiegando che dalle alture di Hatzor (Khirbet Hazzur, a nord di Gerusalemme) è possibile monitorare Israele e la Cisgiordania occupata. Infine Netanyahu ha teorizzato una sorta di diritto/dovere di Israele di controllare i Territori palestinesi per impedire che forze dell’Islam radicale possano «mettere in pericolo l’intero Medio Oriente».
Non è la prima volta che il premier israeliano insiste su questi punti. Lunedì sera però è stato esplicito sul futuro delle colonie. E indirettamente ha lasciato intendere che i palestinesi non potranno far altro che amministrare civilmente, come già fanno oggi, le loro città e dovranno dimenticare libertà, sovranità e indipendenza. Sempre Netanyahu all’inizio dell’estate aveva proclamato che Israele, in qualsiasi accordo, continuerà a controllare militarmente la Cisgiordania. «Le colonie israeliane sono illegali e vanno smantellate» si è affannato a replicare Nabil Abu Rudeinah, il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen. Ha anche condannato la “passeggiata” sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme fatta ieri, con l’autorizzazione del governo, da due parlamentari israeliani, tra i quali Yehuda Glick (Likud), fautore della ricostruzione del Tempio ebraico. Ma quella dell’Anp ormai è una protesta muta.

Il Fatto 30.8.17
Educazione e Islam in uno Stato laico
di Marco Lillo

Il caso della bambina di religione cattolica di 5 anni che – secondo il Times – non può indossare la croce e non può più mangiare la pasta alla carbonara perché è stata affidata a una famiglia islamica tiene banco da due giorni sui media di tutto il mondo. I contorni dei fatti sono ancora imprecisi e quindi è giusto mantenere un certo margine di prudenza nel giudizio, ma non si può negare il problema. Invece molti giornalisti e blogger di estrazione progressista, sia in Italia sia in Gran Bretagna, hanno optato per la negazione o persino la condanna dello scoop del Times. I fatti.
L’articolo pubblicato in prima pagina riporta passi virgolettati di un “rapporto confidenziale delle autorità locali” nel quale si affermano alcune cose: una bambina di 5 anni, nata in Gran Bretagna, battezzata in una chiesa cattolica, da sei mesi è affidata temporaneamente a famiglie islamiche. Il Times per ragioni di privacy non indica la ragione dell’allontanamento temporaneo dalla famiglia naturale perché renderebbe identificabile la minore. La bambina è stata affidata per 4 mesi a una signora che indossava un velo tipo niqab quando portava a spasso la ragazzina e ora a una signora che indossa un burqa nero. La bambina avrebbe detto a qualcuno (probabilmente alla mamma o all’assistente sociale) che le sarebbe stato impedito di portare la sua catenina con la croce al collo, che non voleva restare con la famiglia affidataria perché parla arabo e non inglese; che le sarebbe impedito di mangiare un piatto di pasta alla carbonara ricevuto dalla mamma naturale (di origini italiane?) per via della pancetta. Inoltre la ragazzina avrebbe riferito che le è stato detto: “Le donne europee sono stupide e ubriacone” e “la Pasqua e il Natale sono feste stupide”. Il quotidiano britannico pubblica estratti virgolettati della relazione e una fotografia della bambina con una donna di spalle con un velo nero: la signora affidataria. Il giudice Melita Cavallo, ex presidente del Tribunale dei minori di Roma, ieri ha spiegato a Repubblica come si è comportata una famiglia affidataria napoletana in un caso simmetrico con un ragazzino islamico marocchino affidato temporaneamente all’età di sette anni: “Niente maiale a pranzo e la madre lo mandava alla moschea”. La differente sorte dei due ragazzini, a tavola e in Chiesa, mostra il limite dell’applicazione del principio di equivalenza tra le culture (una conquista dell’antropologia europea dai tempi del polacco Bronislaw Malinowsky, che lo enunciò nel 1912) alle culture che non lo riconoscono. Per spiegare meglio il senso di questa affermazione torna utile il caso – di cui mi sono occupato quando lavoravo al gruppo Repubblica nel 2000 – di Erica, la ragazzina di 14 anni figlia di un’italiana, Stefania Atzori, e di un avvocato egiziano, Esham Abou El Naga che si era rifugiata nell’ambasciata di Kuwait City. Erica, il nome è di fantasia, non voleva stare con la famiglia del padre, indifferente ai precetti della religione islamica ed era fuggita dalla vigilanza dei nonni a Kuwait City perché voleva raggiungere la mamma in Italia, contro la volontà del padre. Il caso fu al centro di un braccio di ferro internazionale risolto all’italiana: la ragazzina (che oggi sarà trentenne) fu portata in Italia di soppiatto dal sottosegretario del governo italiano, Franco Danieli, con un nostro aereo di Stato. Chi scrive diede la notizia al padre mentre la figlia era ancora in volo, in una conversazione poi sintetizzata in un’intervista pubblicata su Repubblica. Il punto di vista espresso dal padre di Erica può essere utile per comprendere il caso di Londra. In quanto padre, era lui – per il suo Dio – l’unico responsabile della corretta educazione della figlia. La scelta educativa non era discrezionale: “Se non riuscirò a educarla secondo le regole della nostra religione – mi spiegò sincero – io sarò condannato alla dannazione eterna”. La legge e la regola religiosa erano dalla sua parte. Magari il Times ha scritto delle inesattezze. Magari la mamma ha detto delle falsità sulla carbonara. Però perché non chiederci la ragione profonda di questa asimmetria comportamentale? Per quale ragione la ‘mamma’ con il burqa di Tower Hamlet non si comporterebbe come la ‘mamma’ napoletana?
Perché a Londra si toglie la croce a una bambina cattolica mentre il ragazzino marocchino va alla Moschea e mangia la pasta senza pancetta? Forse perché la mamma napoletana segue una cultura che predica e applica l’equivalenza tra le culture mentre una parte importante della popolazione di cultura islamica – anche in Europa – non la predica e quindi non la pratica. Perché escludere che la mamma con il burqa di Tower Hamlet oggi, come il padre di Erica nel 2000, senta di essere tenuta – per un dovere superiore – a radere al suolo la cultura di origine della ragazzina cattolica. Se così fosse, sarà il caso di misurarsi con il vero problema: si può ammettere l’equivalenza delle culture in uno stato laico anche quando in campo c’è una cultura che non ammette il principio di equivalenza stesso?

Corriere 30.8.17
Cechov stregato dall’attrice
di Paolo Di Stefano


«Finalmente riesco a scriverti mio caro, amato e lontano, e così vicino, Anton mio! Dove tu sia adesso, io non lo so. Da molto tempo aspettavo il giorno in cui mi fosse possibile scriverti». Tutto si potrebbe pensare di queste poche righe tranne che il destinatario della lettera sia morto. Infatti, la moglie di Anton Cechov, Olga Knipper, continua: «Oggi sono arrivata a Mosca, sono stata sulla tua tomba...». È il 19 agosto 1904 e lo scrittore se n’è andato da un mese e mezzo: l’ennesimo attacco di tisi lo ha stroncato a Badenweiler, un paesino della Foresta Nera, dove è andato con Olga per trovare sollievo alla tubercolosi che l’ha tormentato per anni. È stata lei a raccontare nel suo diario le ultime ore di Anton Pavlovič, gli affanni, la nausea, la breve ripresa, l’ultima iniezione di canfora, l’ultimo bicchiere di champagne, l’ultima frase, in tedesco: «Ich sterbe», io muoio, la farfalla notturna che batteva contro le pareti della stanza. Il 20 agosto, un’altra lettera rivolta a lui: «Buon giorno, caro! Arrivo adesso da casa di tuo fratello Ivan...».
È stato un amore difficile, il loro. E breve. Si sono conosciuti quando lo scrittore era al culmine della gloria, dopo il ritorno trionfale del «Gabbiano» sulle scene del pionieristico Teatro d’Arte a Mosca, seguito al clamoroso (e doloroso) tonfo di due anni prima a Pietroburgo. Era il 17 dicembre 1898, Cechov non poté partecipare alla sua apoteosi perché si trovava a Jalta, dove i medici gli avevano consigliato di far riposare i polmoni, con le amorevoli cure della madre e della sorella. Era lì, come in esilio o in carcere nella sua «Dacia bianca» di Crimea (diceva di sentirsi «Dreyfus all’isola del Diavolo»), malinconico, ma al riparo dal crudele inverno moscovita. Non aveva ancora quarant’anni e già si preparava a morire, convinto che non sarebbe sopravvissuto alla fine del secolo: e proprio mentre si preparava a morire arrivò l’attrice Olga.
Nella primavera del 1900 fu raggiunto a Jalta dalla compagnia del Teatro: il regista Stanislavskij disse che Cechov «sembrava una casa che avesse trascorso l’inverno con le imposte inchiodate, le porte chiuse». Le porte si aprirono quando il suo sguardo incrociò la figura giovane ed elegante della Knipper, che nel «Gabbiano» recitava la parte della protagonista, Arkadina. Ventotto anni, figlia di un ingegnere e di una pianista, pianista a sua volta, cantante e attrice colta e poliglotta, grazie al suo talento e alla sua intelligenza coprì i ruoli più prestigiosi del teatro russo contemporaneo. La sorella di Cechov, Maša, l’aveva ammirata recitare, ne era diventata amica e ironicamente aveva consigliato ad Anton, nonostante la gelosia, di farle la corte. Non poteva immaginare che qualche anno dopo il fratello l’avrebbe presa alla lettera.
Prima si scrivono: «Non dimentichi lo scrittore, non mi dimentichi. Altrimenti mi annegherò o mi sposerò con un millepiedi». Poi si incontrano rapidamente a Mosca e per un breve viaggio insieme nel Caucaso. Quando torna a Jalta lo scrittore rimane a casa e pensa a lei: Olga è una donna indipendente, occupata dal lavoro, cui non rinuncerebbe mai. Ma scrive ad Anton: «Com’è assurdo che tu sia senza di me e io senza di te». Osserva Augusta Böbel Dokukina, che anni fa ha curato il carteggio per l’edizione italiana del Melangolo: «Le ore e i minuti misurarono sempre il tempo dell’incontro, le settimane e i mesi quello della separazione». Le nozze verranno, un po’ clandestinamente, il 25 maggio 1901, alla presenza di soli quattro testimoni, seguite da un viaggio sui fiumi Volga e Kama. Cechov non era tipo da matrimonio. Da giovane disse a un amico che avrebbe potuto essere un marito meraviglioso solo a condizione di avere una moglie che, come la luna, non comparisse nel suo cielo ogni giorno. Conosceva a menadito, anche per averle raccontate, le incompatibilità tra uomini e donne. Ma a Olga, pur essendo già preparato a morire, si affiderà ciecamente: «Pensaci tu al mio futuro, sii la mia padrona, farò tutto quello che dirai, altrimenti noi non la vivremo la vita, la inghiottiremo soltanto, un cucchiaio da tavola ad ore alterne».
La vivranno insieme (ma a distanza), la vita, soltanto per quattro anni: scanditi dai colpi di tosse di lui e dalle fragilità psicologiche di lei. Il 17 gennaio 1904, Cechov assistette a Mosca alla prima del «Giardino dei ciliegi», l’ultimo suo dramma: alla fine ricevette tutti gli onori che meritava. Stanislavskij ricordò così quella serata che «sapeva di funerale» più che di festa: «Egli, mortalmente pallido, emaciato, stava in piedi sul proscenio senza riuscire a trattenere la tosse, mentre tutti lo festeggiavano con messaggi e con regali, ci si strinse dolorosamente il cuore».
Pochi mesi dopo, Olga avrebbe scritto al suo amore ormai scomparso: «Il teatro, il teatro... Non so più se devo amarlo o piuttosto maledirlo... Tutto è così deliziosamente confuso in questa nostra vita!».

Repubblica 30.8.17
Le stelle, il creato, il divino, lo studio e la vita extraterrestre Intervista a Guy Consolmagno, direttore della Specola Vaticana
L’astronomo del Papa “Battezzare un alieno? Se me lo chiede...”
Il processo a Galileo aveva più a che vedere con la politica locale che non con la fede e con la scienza
di Roberto Brunelli


Guy Consolmagno è l’uomo che guarda le stelle per conto di Dio. Astronomo e gesuita: non sappiamo se proprio in quest’ordine. Americano, 65 anni, è dal 2015 il direttore della Specola Vaticana, ovvero dell’osservatorio astronomico della Santa Sede, affidato da sempre alla Compagnia di Gesù. È un tipo affabile, allegro e curioso, Fratello Consolmagno. L’altro giorno stava a Tucson, alle prese con l’eclissi
totale di Sole che ha attraversato il cielo dell’America. Il cielo è la sua vita, le stelle e i telescopi la sua passione: non solo è autore di opere come God’s Mechanics: come gli scienziati e gli ingegneri ci trasmettono il senso della religione (Jossey-Bass, 2007) e de L’infinitamente grande. L’Astronomia e il Vaticano (De Agostini, 2008), ma ultimamente ha fatto molto parlare di sé per un altro suo libro, il cui titolo inglese suona “Battezzereste un alieno?”. Perché il barbuto e gioviale capo astronomo del Papa — da cui ha addirittura preso il nome un asteroide, il “4597 Consolmagno”, detto anche “Little Guy” — non crede affatto che la vita extraterrestre sia incompatibile con la fede cristiana. Anzi.
Fratello Consolmagno, negli ambienti scientifici sembra prendere sempre più forza la convinzione che non siamo soli in questo universo… davvero crede che presto scopriremo l’esistenza di forme di vita extraterrestri?
«In effetti, l’idea che vi possano essere altra vita nell’universo oltre alla nostra non è nuova. Ciò che è nuovo è la speranza di essere in grado di scoprirla presto. Certamente sappiamo che altri luoghi, anche nel nostro sistema solare, hanno tutti gli ingredienti per rendere possibile la vita così come la conosciamo sulla Terra. Per esempio, ci sono oceani di acqua salata sotto la superficie di Europa, una luna di Giove, e di Enceladus, una luna di Saturno. E anche se non abbiamo prove che siano presenti microbi in quegli oceani, sappiamo che si tratta di posti in cui vale la pena inviare delle missioni spaziali. Tornando alla sua domanda: dunque, io credo? Io credo nella possibilità che vi sia abbastanza vita da pensare che valga la pena di mettere in campo lo sforzo per cercarne le prove. Tutta la scienza comincia proprio con questa forma di “fede”».
Davvero lei immagina uno scenario in cui eventuali extraterrestri possano comunicare con noi, e viceversa?
«Mi posso immaginare molti scenari nei quali noi entriamo in contatto con intelligenze aliene. Se mi aspetto che qualcosa del genere possa succedere presto? Non proprio. In realtà, sospetto che se anche scopriamo l’esistenza di altre intelligenze, sarà molto difficile, se non impossibile, comunicare con loro. Tutto sommato, talvolta troviamo molto difficile comunicare persino con membri della nostra stessa famiglia ».
Non sempre la Chiesa è stata altrettanto aperta nei confronti delle ipotesi della scienza. Che mi dice di Giordano Bruno e Galileo Galilei?
«Tutti quelli che vogliono un esempio della Chiesa in lite con la scienza citano sempre il caso di Galileo: in buona parte perché è l’unico esempio che effettivamente venga in mente. Ma se si guarda con attenzione alla storia di Galileo, si scoprirà che il suo processo, che è stato certamente ingiusto, aveva più a che vedere con la politica locale che non con la fede e con la scienza. Il caso di Giordano Bruno poi davvero non aveva nulla a che vedere con la scienza. La sua idea di molte stelle con pianeti era già presente negli scritti di Niccolò Cusano nel tardo Medioevo, e persino Tommaso D’Aquino parla di come Dio potrebbe avere creato molti mondi. Questi casi furono tirati fuori alla fine del Diciannovesimo secolo dai governi italiani anticlericali come parte di un tentativo sistematico di screditare la Chiesa… nello stesso tempo in cui il più noto astronomo in Italia, Angelo Secchi, era un sacerdote gesuita».
Di recente lei ha detto che “per dire che non esiste nessun Dio, bisogna avere un’idea piuttosto precisa di come sia questo Dio di cui si dice che non esiste”. E ancora: “Forse non crederei neanch’io in quel Dio in cui molti non credono”. In quale Dio crede lei?
«Io credo in un solo Dio. Ma ci sono molte idee di Dio nelle quali io non credo. Io sospetto che molti di quelli che credono di essere atei lo pensano perché l’idea che hanno di “Dio” in effetti è una falsa idea. Magari si immaginano Dio come una sorta di dio della natura tipo Zeus che tiene ogni atomo sulla sua corda senza dare alcuna autonomia all’universo, e ancor meno libertà agli umani. Potrebbero pensare che Dio sia vendicativo o rabbioso. Il problema è, ovviamente, che non possiamo realmente comprendere cosa o chi Dio sia, possiamo immaginarlo solo per analogia. E talvolta le nostre analogie colorano il nostro quadro in maniera sbagliata. Se pensi a Dio come ad un padre, che è quel che suggeriva lo stesso Gesù, ma avevi un pessimo rapporto con tuo padre, potresti avere un’immagine deformata di cosa può significare Dio in quanto “padre” ».
Lei dice: se cerchiamo la verità facciamo buona scienza. Ma la scienza sembra essere sempre più sotto attacco: non ci si fida più dei vaccini, si negano i cambiamenti climatici, si contestano le cure anti- tumorali. Cosa è che sembra essersi incrinato nella società contemporanea?
«C’è una grande paura della verità ai nostri giorni, persino della verità dell’amore. Da bambini impariamo che tutto quello c’è da conoscere lo possiamo leggere nei libri, ma quando maturiamo ci rendiamo conto che tutto quello che impariamo porta a nuove domande. Più sappiamo, più comprendiamo che non sappiamo. L’errore è di pensare che il nostro obiettivo sia di trovare “risposte”. Il vero obiettivo è prendere sempre più confidenza con le domande. Se credi che la tua sposa sia “un problema da risolvere”, probabilmente il tuo matrimonio è in grave crisi. Dobbiamo pensare alla scienza e alla religione come a modi di imparare a conoscere delle verità senza che vi si arrivi mai a una fine».
In che misura il suo essere gesuita influisce sulla sua idea di scienza?
«Penso che la scienza sia un modo meraviglioso per provare un senso di intimità con la creazione e tramite questa diventare intimi del Creatore».
Quella di battezzare un alieno è un’immagine molto forte… ed è un problema che lei lega proprio alla comunicazione con gli alieni, giusto?
«È una domanda che ci fa capire con maggiore profondità cosa significa l’essere battezzati, e cosa significa essere una creatura in questo universo. Se un alieno ha la stessa capacità di essere un’identità consapevole di sé, e consapevole di Dio, e libero di scegliere tra amore e odio, cosa lo rende diverso da noi? Perché dovremmo chiamarlo alieno?» Cosa vede nelle stelle, Fratello Consolmagno: il cielo, la scienza o Dio?
«Io vedo stelle. Ma le stelle mi ricordano la scienza che ho imparato e mi ricorda i miei buoni amici che mi hanno insegnato quella scienza. Mi ricordano la mia infanzia, quando mio padre mi insegnava i nomi delle stelle più luminose, mi ricordano di quando andavo con gli amici a guardare le stelle in cieli oscuri o stavo sdraiato per apprezzare la maestà del cielo sopra la mia testa. La gioia che provo è la percezione della presenza di Dio. In altre parole, è attraverso la mia scienza, tra l’altro, che venero il Dio della gioia».
Ma, alla fine, lei lo battezzerebbe un alieno?
«Solo se me lo chiede».

Repubblica 30.8.17
Ermanno Olmi
La psichiatria “perbene” che non dava risposte al disagio giovanile
Ritrovato un breve film del ’68 di Ermanno Olmi: un atto d’accusa contro le pillole e contro alcuni “baroni” dell’ambiente milanese
I luminari citano D’Annunzio e Jaspers, ma sembrano incapaci di comprendere il dolore: siamo lontani anni luce da Basaglia
di  Natalia Aspesi


Inedito, scomparso, dimenticato, come non ci fosse mai stato: persino Ermanno Olmi che lo realizzò tra l’aprile e il giugno 1968, proprio attorno al Maggio Francese, non se ne ricordava più: ne è stato l’autore ma non l’ha mai visto, anzi non l’aveva mai visto nessuno se non chi poi ne fece perdere le tracce, sino al suo casuale ritrovamento, qualche tempo fa, ben nascosto tra ogni sorta di faldoni, nell’archivio della fondazione Luigi Micheletti a Brescia. Naturalmente Olmi non ne possiede una copia: «In casa non ho neanche un mio film, a me non piace la pellicola già usata, già film, mi va bene solo quando giro». Il tentato suicidio nell’adolescenza è un mediometraggio di 30 minuti in bianco e nero, che domani sarà l’evento speciale alle Giornate degli Autori presentato dall’Istituto Luce Cinecittà: è molto di più di un reperto archeologico del lavoro di Olmi, che di documentari corti o medi anche per la televisione, da quando lavorava alla Edison Volta, ne aveva fatti una quarantina, legati alla produzione industriale, dai titoli non invitanti tipo Fertilizzanti complessi o Il grande paese d’acciaio. È se mai l’ennesima prova della sua limpidezza, del suo bisogno di verità, della sua onestà, innocenza, ma anche ironia.
Infatti ci si può chiedere come mai il documentario firmato da un autore cattolico eppure stimato anche dalla più tumultuosa sinistra, per sue opere precedenti come Il posto, I fidanzati, E venne un uomo, sia scomparso in modo così repentino e silenzioso, insabbiato come diabolico? Si può pensare che l’importante multinazionale farmaceutica, produttrice di antidepressivi e psicofarmaci che l’aveva commissionato, si aspettasse tutt’altro, considerandolo un veicolo colto di pubblicità. Errore fatale. Perché l’unico tentato suicidio inscenato nel film avviene con una manciata di pillole che la fanciulla dolente tiene nella borsa (forse contro il mal di testa?): e si dà spazio alle statistiche d’epoca. Che segnalano come dal ’62 al ’67, nei primi anni del nuovo reparto di psichiatria d’urgenza del Policlinico di Milano, erano stati ricoverati per tentato suicidio giovanile, 1193 ragazzi, di cui la maggioranza donne. E se per annegamento i tentativi erano stati due, (maschi), per avvelenamento, il mezzo più diffuso, erano stati 459.
Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista, collaboratore di Repubblica e Venerdì, appassionato di cinema, ha visto il film in anteprima e lo ha trovato interessante «perché si riconosce la mano dell’Olmi di allora che in quegli anni girava per la televisione
Racconti di giovani amori, ma anche perché è un ritratto fedele della psichiatria milanese di quegli anni». Lingiardi ne ha anche un ricordo personale perché quasi tutti gli intervistati sono stati suoi professori: Carlo Lorenzo Cazzullo, decano della psichiatria milanese, Giordano Invernizzi, Roberto Spiazzi e altri. Olmi ha un modo di intervistarli, certo voluto, che sembra staccare la loro scienza e anche il loro autentico interesse umano, dalla vita reale, da quei giovani visi angosciati o spenti, abbandonati sulle lettighe e sul letto d’ospedale.
Si sa, i professori sono in camice bianco ben stirato, le mani in tasca, il viso serio dietro gli occhiali. Si sforzano di rendere facile la loro sapienza, in modo però burocratico, citano Jaspers e persino D’Annunzio, parlano di nevrotici strutturati e di cerebropatici. Dice Lingiardi: «Il reparto psichiatrico del Policlinico di Milano non è mai stato un centro di particolare rilievo ed elaborazione scientifica, intellettuale e sociale, in campo psichiatrico. È stato un polo universitario piuttosto tradizionale, dominato dalle dinamiche baronali. La figura di Cazzullo è abbastanza discussa, innovatore ma anche conservatore, mentre altrove, per esempio a Trieste, una intera comunità medica attorno a Basaglia rivoluzionava il modo di affrontare il disagio psichico».
Poi c’è Olmi, l’Olmi empatico, l’Olmi degli altri, che sa raccontare con rispetto e dolcezza i sentimenti, le paure, la solitudine il senso di inadeguatezza dei giovani. Di allora, di sempre. Visi di quegli anni di ragazze graziose e infelici, obbligate all’innocenza, visi di bei ragazzi chiusi, sospettosi, obbligati ad essere vincenti, facce semplici, composte, indifese, che le rivolte studentesche, il femminismo, poi avrebbero cambiato, liberato, inorgoglito. C’è la storia vera di una ragazza che ha tentato il suicidio, (ma la interpreta un’attricetta). Famiglia divisa, innamorato critica il vestito e dopo gita a Forte dei Marmi in aereo privato la lascia, lei vuole lavorare, diventare missionaria, non si sente protetta dalla famiglia, apre la borsetta… L’allora bella e giovane psichiatra Luisa Balestri, con una marmorea pettinatura signorile e senza muovere un muscolo indaga: il suo resoconto clinico freddo e distante ha colpito Vittorio Lingiardi perché «continua a mettere in relazione l’episodio suicidario con le difficoltà della ragazza a entrare nei ruoli della donna, fidanzata, moglie e madre, come se il suo desiderio di lavorare, di raggiungere una indipendenza, non fosse un elemento evolutivo ma parte del problema psichico, una specie di “fuga dalla femminilità”».
Gli olmisti irrecuperabili ritrovano in questo breve film tutto ciò che hanno amato nel regista. E andrebbe visto da chiunque voglia capire perché oggi tentino il suicidio soprattutto adolescenti, più di quanti lo facevano 50 anni fa. Alle ragioni di allora se ne aggiungono di sempre meno controllabili, il vuoto della vita online, le trappole delle chat, il vigliacco cyberbullismo. Aspettiamo documentario con camici bianchi.

Il Fatto 30.8.17
Una vita di male e di Bene. Il genio avrebbe 80 anni
Il 1° settembre 1937 nasceva l’attore e fabbro di poesia
di Pietrangelo Buttafuoco


Non c’è più Bene e saranno 80 gli anni – giorno primo settembre prossimo – dalla nascita a Campi Salentina nel 1937 del biasimevole, fascinoso e assoluto unico Carmelo, attore e fabbro di vera poesia. Uno che sa stare in scena senza mai esserci. Chevalier des lettres et des arts di Francia, morto a Roma il 16 marzo 2002 all’età di 65 anni con 325 notti trascorse nei commissariati di zona ovunque si trovasse col suo abito gessato, i rotoli di banconote nel taschino e col coltello proprio del Sud del Sud dei santi, Carmelo Bene è – per dirla con Giancarlo Dotto, suo gemello in tutt’uno – “la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza mai avere avuto”.
Pinocchio più dello stesso burattino di legno di Carlo Collodi, Bene – 120 Gitanes al giorno – non trova modo di andare in scena con la fatina Brigitte Bardot e Totò, nel ruolo di Mastro Geppetto. Fatto è che quando il cast è già chiuso muore il principe De Curtis e la produzione rinuncia al progetto di Nelo Risi.
Don Chisciotte più dello stesso mancego, Carmelo si lascia alle spalle i frammenti preziosi dei provini di un film. Nella celluloide, come nel magnificare di un miracolo voluto dalla Rai di Ettore Bernabei, accanto a lui – cavalcante il ciuco di Sancho Panza – c’è Peppino de Filippo. Anche questa pellicola non trova poi luce, ma la scenografia è disegnata apposta per loro due da Salvador Dalì.
Carmelo Bene fa pesca a strascico, infatti, tra ingegni suoi parigrado. Albert Camus in persona, nel 1959, gli affida il suo Caligola in scena. Regia di Alberto Ruggiero. Alla prima de Nostra Signora dei Turchi – nel 1973, a Roma – seduto in platea, rapito di commozione, c’è Franco Franchi.
Ha ancora 22 anni Bene e magro com’è, spiritato e “venuto dalle Puglie per inventare un suo personalissimo teatro” – così detta lo speaker di Avvenimenti 30, una trasmissione tivù – crea un altrove in sé, ancor più personalissimo: un’immedesimazione in Giuseppe da Copertino. Il santo del Sud dei santi la cui prima qualità è vedere in alto, ancora più in alto, una pasqua di fiori di pesco, è il vero alter ego di Bene, il più formativo tra i teologi, l’unico in grado di smarrirsi con la bocca aperta, da illetterato e idiota nel Dio del latino e greco, nell’apoteosi del depensamento.
Come il santo degli sciocchi, degli alunni ciucci, dei privi d’ogni lume il canto di Carmelo – nel rifiuto della storiuccia del quotidiano conflittuale – è vox sola. Casse di liquore ai piedi – l’uno di fronte all’altro, stessa dotazione alcolica, a Parigi – con l’autore de Le leggi dell’Ospitalità, ossia Pierre Klossowski, Carmelo Bene riesce a sciorinare l’intero mondo di volontà e rappresentazione di Arthur Schopenauer.
Abita la battaglia, Bene. L’espressione che più lo riguarda, nel solco di Giuseppe Verdi, tra i feuilletons del romanticamente grandioso. E in tutto ciò, Carmelo, s’abbandona – “con Klossowski parlando di Dio è certamente una gioia insostituibile” – quando i suoi contemporanei, nei dipartimenti di filosofia o, peggio, nei retropalco dei Festival dell’Unità, si danno allo scervellamento stitico discorrendo al più di George Lukacs o delle Coop. Ben più che attore, macchina attoriale, Bene ingurgita luce studiando il Trattato degli Angeli di San Tommaso, il libro IX in particolare, e siccome l’occhio è l’ascolto, tutta la sua dissipata esistenza d’artista diventa opera omnia.
Un’autografia di ritratto, la vita del Carmelo. Ed è una felice intuizione editoriale di Elisabetta Sgarbi quella di farne, di Bene ancora in vita, un classico nel catalogo Bompiani.
Uno così inaudito, nell’Italietta del provincialismo, è l’inedito assoluto. Nella sciatteria balorda dove nessuno più sa di nessuno, i tomi delle biblioteche sfoggiano in maggior parte “un’assai bella e disinvolta assenza dannunziana” ma, spiega Carmelo Bene, “se il guardo a caso inciampa su d’un foglio del D’Annunzio, crocifisso sul martire di sua stessa lingua madre, oh, se accade, è un sollievo. Nei suoi rovi aggrovigliati trovi sempre, se pur tra i rantoli, disdetto quanto vuoi, l’ultimo dire.”
Ci si astiene dal leggere contemporaneo, come dallo scrivere. Nella Vie d’(H)eros(es), l’autobiografia, così sentenzia Bene: “In questa nostra disimperata decadenza provincial-cinecittadinesca fu destino comune a quei diversi (tre o quattro) sacrificare fuori dalle righe”. C’è ogni Bene, grazie, giusto a fare il verso al suo birichino sberleffo di supremo guitto capace, come lo è, di entrare nella pace post-prandiale degli italiani e impossessarsi di Domenica In. Che puntata quella puntata con Corrado che lo accoglie – c’è anche Lidia Mancinelli con lui, e la Banda Musicale di Campi Salentina – e Bene canta sulle note di quegli ottoni senza tema di dismettere la gravitas, anzi, col fraseggio tutto di sottolineature sub specie spectaculi.
La prova dell’alto/basso tutta rivolta, dunque, verso l’alto/alto. La prova di qualità cui si sottopone la Rai mandando in onda, nel 1974, Quattro modi di morire in versi: Majakowski, Blok, Esenin, Pasternak, con Carmelo Bene in combutta con Roberto Lerici e Angelo Maria Ripellino, si rivela un successo anche di ascolti oltre che di critica. È necessario svanire nel dire, “purché si dia il miracolo”. Come nella Lectura Dantis preparata da Rino Maenza alla Torre degli Asinelli, il 31 luglio 1981, nel commemorare la strage della Stazione di Bologna; come nella celebre puntata di Mixer Cultura del 15 febbraio 1988, con Arnaldo Bagnasco al timone; o come nell’uno contro tutti al Maurizio Costanzo Show dove Carmelo appare a madonna Televisione e la folla, in cambio, offre una certa attenzione, appunto, religiosa perché c’è ogni bene in Bene.
Nel Bene che se ne va c’è ogni Bene. Come quando a madonna vita par che dica ciò che, tra uno sbadiglio e l’altro, nel fumigante camerino, guatando sullo specchio di Riccardo III disse: “Vede, mia cara, forse, un giorno, lei potrà raccontare d’avermi conosciuto, aver parlato con me; ma che racconto io, già, che racconto?”.

il manifesto 30.8.17
Lucy non è più l’unica
Festival della mente. Un'intervista al paleontologo Giorgio Manzi, ospite a Sarzana per la rassegna che si svolgerà dal 1 al 3 settembre. «Ormai è emersa una nuova interpretazione dell’evoluzione umana che Stephen Jay Gould definiva 'a cespuglio', anche se forse è più appropriata l’immagine di un albero frondoso»
Tim Noble & Sue Webster, «Masters of the Universe», 1998-2000
di Andrea Capocci


Il Festival della mente di Sarzana (dal primo al 3 settembre) quest’anno seguirà il filo conduttore della rete, «intesa come insieme di relazioni umane al web, dalla rete della solidarietà alle reti neurali, dalla rete televisiva a quella calcistica».
Su questo tema, a Sarzana si esprimerà anche Giorgio Manzi, professore di paleontologia alla Sapienza di Roma. Manzi è uno dei più importanti studiosi a livello internazionale dell’evoluzione del genere Homo, cui ha dedicato ricerche in moltissimi siti italiani ed esteri. Nel suo caso, la «rete» sta a indicare il complesso di relazioni tra le varie specie di ominidi che ci hanno preceduto. Un sistema che, man mano che le conoscenze avanzano, si fa sempre più intricato. La paleontologia, disciplina spesso ritenuta «polverosa», è invece un campo in piena effervescenza, perché le scoperte recenti mettono in crisi molti luoghi comuni diffusi sulla comparsa della nostra specie sulla Terra. Lo testimonia il titolo del recente saggio di Giorgio Manzi, Ultime notizie sull’evoluzione umana, in uscita per la casa editrice Il Mulino proprio in questi giorni.
Lei ha parlato di un «cambio di paradigma» in corso nella paleontologia umana. A cosa voleva riferirsi?
Fino agli anni Settanta, dominava una visione lineare dell’evoluzione. Si riteneva che un’unica catena evolutiva legasse «Lucy», cioè il fossile di una femmina di Australopiteco di tre milioni di anni fa, a Homo sapiens. Ma questo modello non spiega le evidenze fornite dai fossili. Perciò, è emersa una nuova interpretazione dell’evoluzione umana che Stephen Jay Gould definiva «a cespuglio», anche se forse è più appropriata l’immagine di un «albero frondoso». Vi sarebbero state molte linee evolutive che si sono parzialmente sovrapposte, estinte e incrociate e che, per quanto riguarda il nostro «ramo», hanno condotto all’attuale egemonia di Homo sapiens.
Oltre ai nuovi dati, cosa ha favorito questo cambio di paradigma?
Gould ha contribuito molto a introdurre in antropologia il pensiero della complessità. L’idea, cioè, che i processi naturali non seguano necessariamente percorsi graduali e lineari, ma possano procedere per «equilibri punteggiati», periodi di quiete alternati a fasi di repentina evoluzione. Forse non è un caso che queste teorie abbiano trovato terreno fertile negli anni Settanta, così inquieti e attraversati da un vento di novità che introdusse una inconsueta visione del mondo, dalla politica alla cultura.
Effettivamente, l’idea che vi fosse un legame unico e diretto da Lucy a noi era rassicurante, e non troppo diverso dal racconto di Adamo ed Eva. Proprio le vostre ricerche, fino alle ultime realizzate nel sito tanzaniano di Laetoli in collaborazione con il gruppo di Marco Cherin dell’Università di Perugia, stanno abbattendo gradualmente questo immaginario…
A Lucy sono state attribuite molte caratteristiche dell’uomo moderno, come l’organizzazione sociale fondata sulla famiglia nucleare, sulla base delle prime impronte ritrovate negli anni Settanta. Altre sequenze di impronte, scoperte in anni più recenti, raccontano una storia apparentemente diversa. Abbiamo osservato il «dimorfismo sessuale», cioè dimensioni corporee diverse tra maschi e femmine. In altri primati, questa caratteristica corrisponde a popolazioni organizzate in «harem», con un maschio dominante su molte femmine. È il caso dei gorilla, per esempio. Altro che famigliola.
Secondo le teorie più recenti, all’incirca centomila anni fa nel mondo convivevano cinque specie umane diverse. Perché fu proprio Homo sapiens a conquistare l’egemonia?
Homo sapiens è entrato in competizione con le altre specie. Le ricerche sulla selezione naturale ci dicono che quando due specie occupano la stessa nicchia ecologica, cioè vivono nella stessa area condividendo prede e predatori, una delle due specie è destinata a prevalere. Tuttavia, non è chiaro perché proprio l’Homo sapiens abbia prevalso sui Neanderthal, visto che i cervelli delle due specie non differivano molto per volume.
Secondo gli archeologi che hanno studiato i siti mediorientali in cui le due specie hanno convissuto abbastanza a lungo, vi sono alcune differenze che permettono di distinguere i manufatti di una specie rispetto all’altra. Altri, come Francesco D’Orrico, uno dei migliori al mondo che lavora all’Università di Bordeaux, osservano una grande differenza nella quantità di ritrovamenti di manufatti non utilitaristici, come ornamenti o pitture, attribuiti a Homo sapiens e Neanderthal. Questo potrebbe essere messo in relazione alle differenze nel cranio delle due specie. Anche se il volume era lo stesso, abbiamo rilevato disparità morfologiche che potrebbero corrispondere allo sviluppo di diverse funzioni cerebrali, magari proprio quelle che favoriscono una dissimile capacità di maneggiare simboli.
L’attuale egemonia dell’Homo sapiens è da considerare definitiva, o altre specie umane potrebbero fare la loro comparsa sulla Terra prossimamente?
Cambiamenti macroevolutivi, come la nascita di nuove specie, possono avvenire in piccole popolazioni isolate dal resto della specie. Non è davvero il caso nostro, che invece stiamo occupando l’intero pianeta con una sovrappopolazione davvero eccessiva per le risorse disponibili. Per la comparsa di nuove specie sarebbe necessario un cataclisma planetario, o una guerra mondiale distruttiva, in grado di decimare l’umanità e sparpagliarla in piccole comunità. Anche con l’attuale allarme per i mutamenti climatici in corso, è uno scenario da fantascienza.
In molte discipline scientifiche oggi si invoca una maggiore condivisione dei dati tra gli scienziati per favorire lo scambio e il progresso delle conoscenze. È un tema attuale anche in paleontologia, dove i fossili vengono spesso scoperti in zone poco accessibili, con un’intrinseca difficoltà di circolazione dei reperti?
Negli ultimi anni, le tecnologie digitali potrebbero favorire molto più di prima la circolazione delle informazioni. Proprio in questi giorni, nel comitato scientifico dell’American Journal of Physical Anthropology (la più importante rivista in questo campo) stiamo discutendo se rendere obbligatoria la diffusione dei dati grezzi su cui si basano le ricerche pubblicate, o limitarsi a raccomandarla. Sta prevalendo quest’ultima linea più moderata, perché la scoperta di un fossile richiede anni di lavoro e di studio, ed è giusto tutelare almeno per un certo periodo il diritto dei paleontologi di studiare i fossili al riparo della concorrenza. La condivisione immediata vanificherebbe il lavoro di anni, e non è giusto.
Molte delle scoperte più recenti in paleontologia hanno richiesto l’uso di microscopi ad elevata risoluzione, analisi statistiche dei dati molto raffinate, tecniche di sequenziamento genetico, persino acceleratori di particelle ad alte energie. Quanti scienziati convivono in un solo paleontologo?
Gli strumenti a disposizione si sono moltiplicati e richiedono conoscenze specialistiche molto diverse tra loro. Ma difficilmente un paleontologo può padroneggiarle tutte. Dunque, nella fase attuale della paleontologia è diventato fondamentale il lavoro di squadra, l’ibridazione delle risorse e delle conoscenze, al di là degli steccati disciplinari.